Presentata alla 75esima Berlinale e distribuita in Italia da Vision a partire dal 15 maggio, Paternal Leave, opera prima di Alissa Jung, porta Luca Marinelli nel ruolo scomodo di un padre rintracciato dalla figlia quindicenne. Leo, Leona, una ragazza tedesca cresciuta solo dalla madre, scappa di casa per realizzare il sogno che la cruccia. Dall’altra parte delle Alpi, sull’Adriatico, c’è un trasandato surfista che nel frattempo si è rifatto una vita con una nuova famiglia. Tra loro parlano inglese i personaggi di Marinelli e Juli Grabenhenrich. Hanno uno spessore gravitazionale che ne evita il contatto fisico, ma anche tanto in comune, compresa una bella somiglianza grazie all’ottimo casting.
ll loro incontro, piccolo atto di sfondamento nella vita del padre fragile e lontano, mantiene da parte della ragazza una compostezza matura e un’ostinazione sana che trasformano la leggerezza spigolosa di lui in paternità non solo respingente, ma anche tenera e goffa. Al contempo il film procede intrecciando il racconto di formazione di un’adolescente, scontro e riavvicinamento con il padre ritrovato, e lateralmente il difficile cambiamento da sue vecchie callosità emotive. O più semplicemente, paure.
Jung proviene dal nordest della Germania, e dirige una co-produzione italo-tedesca perfettamente salomonica in tutto, location a parte. L’espediente di ambientare il dramma su lembi desolati dell’Emilia Romagna le permette un impiego del paesaggio sintetico e concentrato sugli attori che si rivela perfettamente funzionale a un folletto come Marinelli, ma anche alla giovane attrice al suo fianco. La figlia interpretata da Juli non viene mai banalizzata, anzi. Tagliente e forastica nella sua potenza espressiva, ma allo stesso modo profondamente aggraziata e positiva, risulta sempre e comunque solidissima e struggente. Seppur le corde emotive spesso si tendano ad arte nella narrazione, gli equilibri non vengono mai spezzati, così si resta incollati a Luca e Juli dall’inizio alla fine. Si parteggia per la piccola protagonista, mentre Marinelli vive gli sprazzi di cattiveria individualista e svogliata del suo personaggio giocando con le antipatie che ci stimola, ma facendocele rimangiare sempre con piccoli gesti inaspettati.
In un’epoca di sgretolamento della famiglia classica come l’avevamo conosciuta verso sempre nuove ricomposizioni, l’irruzione di una quindicenne nella vita un po’ distratta di un quarantenne più spaventato e insicuro che coraggioso a metter su famiglia, costituisce una nuova sfaccettatura cinematografica della famiglia 2.0. Oppure famiglia allargata se vogliamo sintetizzare. Dove il noioso maschio alfa lascia spazio a un crepuscolo di sfumature e fragilità che sono la nuova pentola dell’oro per tanto nuovo cinema d’autore, anzi, d’autrice, visto che la Jung firma anche lo script. Intorno a questo nucleo padre/figlia ruotano anche altre piccole linee narrative che ci parlano con sensibilità delle difficoltà di un coming out e di sorelle di secondo letto. Toccante in molti momenti, Paternal Leave significa “congedo paterno”, qui un saluto, una sospensione che può intendersi come fine o inizio di qualcosa. O forse, al netto di tutte queste parole, è solo la storia di un lungo difficilissimo abbraccio.
Fotografa di professione, Sara Petraglia, prodotta da Angelo Barbagallo per BibiFilm e con la distribuzione di Fandango, ha esordito alla regia con L’albero, in concorso alla Festa del Cinema di Roma e da giovedì in sala, con protagoniste Tecla Insolia e Carlotta Gamba.
Un’insolita opera prima che racconta il vuoto post-adolescenziale di due ragazze che prendono una casa in affitto in un quartiere popolare di Roma. Magari un po’ fortunate a potersi permettere i loro vizi senza troppi problemi, giocano le loro chance trascorrendo il tempo a ciondolare in spiaggia di giorno e nei locali la sera, il tutto condito da righe di cocaina consumate insieme a un gruppo di amici altrettanto indolenti. I loro sorrisi non sono mai pieni e i loro dolori inconoscibili. Fino a quando la regista ci mostra le loro reazioni e le loro contraddizioni di fronte a una notizia che le scuoterà.
Come nasce il film?
Facevo la fotografa e mi veniva abbastanza bene, però mi era sempre rimasto qui di non essere riuscita a scrivere niente. Poi, durante qualche mese di disoccupazione, ho superato la frustrazione e mi sono data un’ultima possibilità. Non riuscivo trovare la storia giusta, ma rovistando tra i miei appunti ritornava la figura di un albero che vedevo da una finestra del Pigneto quando vivevo lì. Mi sono accorta che la storia in realtà ce l’avevo già, perché l’avevo in parte vissuta, dovevo solo trovare il coraggio di tirarla fuori. Ho scritto la sceneggiatura in soli due mesi. Inizialmente l’ho tenuta per me, poi ho trovato il coraggio di farla leggere ad Angelo Barbagallo, produttore di cui mi fido tantissimo perché ama il cinema fatto di storie, che mi ha proposto subito di girarlo. All’inizio gli ho detto di no perché non lo avevo mai fatto prima, ma quando mi ha chiesto a chi avrei voluto farlo girare, gli ho risposto: «A nessuno». Allora era chiaro che dovevo farlo io! È stato un salto nel vuoto incredibile e credo di aver imparato tutto girando.
Tecla Insolia e Carlotta Gamba sul set de “L’albero” (ph: Tecla Insolia).
Giochi molto sui contrasti: Bianca e Angelica evocano purezza con i loro nomi, ma vestono solo di nero. E coltivano una dipendenza da sostanze, un po’ un seme di autodistruzione.
Da Bianca e Angelica è venuto fuori automaticamente qualcosa di allegro e disperato insieme. Stanno vivendo un periodo molto duro e spaventoso della loro vita, ma riescono ad attraversarlo anche con una certa dose di ironia. Non l’avevo deciso a priori, però ho fatto dire loro cose tragiche da smorzare poi con una battuta, che non doveva neanche far ridere a tutti costi. Credo sia importante non prendersi troppo sul serio quando si raccontano storie così drammatiche, perché così trovano più forza. Ho frequentato nella mia vita tanti di quei gruppetti tutti vestiti di nero, esistenzialisti e tristi…
Come gli emo?
Esatto! Allora non lo sapevamo, ma in fondo eravamo emo, magari senza ciuffi. Spesso questi ragazzi si compiacciono del loro dolore e Bianca ha in effetti un lato molto teatrale. Predica che la vita è sofferenza, legge Leopardi, i suoi amici sono malinconici come lei. È un po’ il privilegio di molte di queste persone che possono permettersi di buttare via il loro tempo a vent’anni, possono permettersi di essere tristi tutto il giorno. In tanti mi hanno chiesto se è un film generazionale. No, io racconto due persone particolari, borghesi che buttano via il loro tempo. Non mi permetterei mai di dire che quelli sono i ventenni di dieci anni fa o di adesso. Sono solo due personaggi.
Le tue attrici affrontano tutto il film con grande naturalezza. Quanta improvvisazione c’è stata e quante prove ci sono state dietro al vostro lavoro?
Pochissime prove, ma fondamentali. Ci siamo viste prima delle riprese per tre giorni a casa mia sviscerando passo passo la sceneggiatura: Tecla e Carlotta trovavano subito il tono giusto che dava vita alla scena. Hanno trovato immediatamente una grande sintonia, creando un’alchimia perfetta. Sono state giornate intense, particolari, divertentissime. Mi hanno addirittura rubato i diari per leggerli e mi hanno praticamente sottoposto a interrogatori appassionati. E poi il set è stato magico. Sono due attrici incredibili, e io fortunata ad averle insieme.
Per certi versi mi sembra che tu abbia voluto ricreare una rappresentazione di amore liquido.
Non saprei dire se “amore liquido” è l’espressione giusta. Però m’interessa tantissimo l’amicizia che è anche amore. Non necessariamente una cosa porta all’altra, ma c’è qualcosa tra questi sentimenti che ha a che fare col destino. Un po’ come quando ti sembra di conoscere una persona da una vita precedente, anche se poi non è detto che il rapporto funzioni. E quando si arriva a distruggersi così tanto come accade nel film a un certo punto bisogna riuscire a separarsi. Mi piace parlare di rapporti non standardizzati: “Quella è un’amica”, “quella è una fidanzata”. Qui è tutto è aperto all’eventualità e tutto potrebbe essere. Quindi liquido, in effetti!
Nel film non offri appigli interpretativi. Ma l’albero del titolo che si vede sempre dalla finestra può essere inteso come simbolo di una stabilità irraggiungibile?
Anche. Mi piace questa idea. Non ho voluto spiegare l’albero perché probabilmente sfugge anche a me qualcosa di questo simbolo. Di sicuro rappresenta ciò che non si dimentica. Il film è tutto un ricordo di Bianca e alla fine quello che resta è un albero. Come dici tu, al contrario delle loro vite, l’albero è fermo, è rimasto lì. Forse è qualcosa di più eterno rispetto a loro. Che poi pure gli alberi li tagliano, soprattutto al Pigneto…
Tecla Insolia, Sara Petraglia e Carlotta Gamba.
Come mai ti sei avvicinata al filone di Christiane F – Noi ragazzi dello Zoo di Berlino e Trainspotting, i cosiddetti drug movies?
Credo che della dipendenza, ma soprattutto della cocaina, si parli a volte in maniera sbagliata. Troppi stereotipi e pregiudizi, troppe connotazioni negative su chi ne fa uso. Penso che abbia ancora bisogno di essere raccontata. La cocaina viene collegata in genere all’universo maschile, alla criminalità, alla ricchezza aggressiva. Io ho provato a togliere quegli aspetti che trovavo caricaturali, inutili. Ho girato senza effetti di distorsione, senza visioni frenetiche: non avrei mai potuto mostrare come nasce e come finisce una dipendenza perché ci vorrebbero dieci film. Suona come una minaccia, perché potrei anche farli… [ride]. Quello che racconto è un momento preciso, quando il consumo di una sostanza è diventato già un abuso e l’abuso sta per diventare dipendenza. Così come racconto un’amicizia che potrebbe diventare amore, come una pentola a pressione che a un certo punto comincia a fischiare.
Qual è il tuo cinema di riferimento?
Sono cresciuta guardando ossessivamente i film. Sceglievo un regista e poi guardavo tutto quello che aveva girato. Quelli che mi hanno ossessionato di più sono Kieślowski, Tarkovskij, Bergman e poi i più contemporanei, come Lynch. Però sono stata molto attenta a togliere tutto questo al momento di girare.
Regista e sceneggiatrice di base a Londra, Alessandra Gonnella ha iniziato il suo cammino con un cortometraggio ambizioso su Oriana Fallaci, la celebre giornalista italiana che raccontò la seconda metà del novecento intervistando alcune tra le più importanti personalità di cinema e politica internazionale. A Cup Of Coffee With Marilyn, ambientato negli anni ’50, vedeva già Miriam Leone nei panni della giornalista fiorentina, che alle prime armi si avventurò in un viaggio americano alla ricerca spasmodica di Marilyn Monroe per intervistarla. Il corto del 2019 si è aggiudicato il Nastro d’Argento, e successivamente è evoluto in un progetto per una serie tv presentato alla Festa del Cinema di Roma, più precisamente al MIA Market, e premiato come Miglior pitch seriale. Anche Alessandra ha iniziato a rincorrere i suoi sogni fuori dall’Italia. «Mi sono innamorata di Londra a 11 anni, al mio primo viaggio studio, e da lì è stato un unire i puntini su quella che ho sempre percepito come casa mia». Gli studi di cinema alla MetFilm School e la National Film and Television School, equivalente al nostro Centro Sperimentale, sono alla base della sua formazione, ma su questa ragazza e la sua idea Paramount ha scommesso, insieme a RedString e Minerva Pictures, sulla produzione di una serie in onda su RaiUno, e già passata nelle tivù di Spagna, Israele, Sudafrica, Grecia, Islanda e Australia. «Spero esca presto anche in Gran Bretagna, così la vedranno tante persone che conosco lì e mi chiedono sempre». Miss Fallaci è una serie in 8 episodi, diretti da Luca Ribuoli, Giacomo Martelli, e appunto da Alessandra Gonnella, che ha firmato la sceneggiatura insieme a un nutrito gruppo di autori, tra i quali la stessa Leone e la head writer Viola Rispoli.
Nasci come regista e sceneggiatrice, poi l’ideazione di Miss Fallaci. Quasi una showrunner.
Io ho ideato tutta la serie, che poi deriva dal mio corto e ho sceneggiato e diretto una puntata. Diciamo che ho un ruolo fondamentale fin dalla genesi del progetto, ma non sono showrunner. C’erano un advisor e un head director, ma non ero il capo di questi due dipartimenti. All’epoca avevo solo 25 anni e il network ha affidato quel ruolo, giustamente, a persone più senior di me. Quindi figuro come ideatrice di Miss Fallaci, ma non showrunner.
Cosa ti ha colpita di più su Oriana Fallaci per portarti a farne un corto prima e una serie poi?
Ho iniziato a leggerla al liceo, con Il sesso inutile, sul reportage che aveva fatto negli anni ’60 intorno alla condizione femminile. Ero rimasta folgorata dalla storia e dalla sua scrittura. Più approfondivo con altri libri, articoli e note biografiche, più mi rendevo conto che la sua vita era come un film. Il suo racconto era proprio cinematic, molto visivo. Così già da quei tempi avrei voluto raccontare sullo schermo una delle sue storie. E iniziai alla scuola di cinema di Londra, con un primo compito su Oriana e Il sesso inutile. Così poi sono arrivati il cortometraggio, e adesso la serie.
Riguardo alle ambientazioni sei molto vicina alla visione felliniana del ricostruire ogni luogo e realtà semplicemente sul set. Com’è andata con una creatura molto più grande e complessa del corto iniziale?
Ho trovato in realtà molti parallelismi. Anche nel 2019, per il corto, giravamo a Londra e con pochi mezzi fingendo che fosse la New York degli anni ’50. Le stesse sfide le abbiamo vissute sulla serie quando abbiamo capito che dovevamo girare tutto in Italia, anche le scene americane. Così abbiamo ricreato quell’epoca a Roma e dintorni. Però alcune scene londinesi esterne le abbiamo girate negli studi cinematografici di Sofia, in Bulgaria. Per fortuna! Perché fingere di stare a Londra da Roma era impossibile. Molto difficile ma anche molto divertente è stato coordinare organicamente i reparti di regia, fotografia con Ivan Casalgrandi, i costumi con Eva Coen, e scenografia con Paolo Bonfini. Con tutti loro abbiam fatto del nostro meglio per dare questo vibe un po’ anglosassone anni ’50, un po’ alla Mrs. Maisel.
E sul lavoro con il cast, in primis con Miriam Leone, rispetto a personaggi realmente esistiti che tipo di approccio documentale e interpretativo avete utilizzato?
È stato un grande lavoro di ricerca e scoperta, e la cosa bella è stata l’identificazione di molti nella sua versione giovanile. Ognuno ha una propria visione emotiva di Oriana, ma a livello universale raccontiamo una ragazza che deve lottare, fastidiosa come una zanzara, per arrivare ai suoi obiettivi. In questi giorni pensavo al fatto che sua madre la spronava a studiare ed emanciparsi, viaggiare, lavorare e mantenersi da sola. Miriam ha apportato una disponibilità e un’immersione totali. È stata con noi sul set per 12 ore al giorno, tutti i giorni, per sei mesi.
Alessandra Gonnella e Miriam Leone.
In quegli anni ancora non si parlava di femminismo, ma Oriana Fallaci lo praticava. E oggi forse inizia ad essere messo in pratica. Pensi si possa dire?
Si, anche se sembra scontato oggi per molte di noi. Ci sono ancora molte altre che non riconoscono ancora il valore assoluto dell’indipendenza economica e intellettuale. O a volte capita di nascondersi in una comfort zone fatta di vita relazionale soccombendo a situazioni spiacevoli proprio perché non indipendenti economicamente. Il concetto di viaggiare e lavorare non ha mai lasciato Oriana, ed è uno dei cardini della nostra storia.
Fallaci era una giovanissima giornalista promettente che ha dovuto lottare per avere la sua chance. Tu adesso hai trent’anni, quanto hai dovuto lottare per conquistarti la produzione di questa serie?
Abbastanza. Anche se col corto è come se fossi arrivata un po’ di traverso. Mi pare che il commediografo americano Tyler Perry descrivesse la film industry come un negozio chiuso dove non puoi entrare da una porta perché è chiusa o non c’è, quindi devi irrompere in questo negozio. Io l’ho fatto con il corto, ma non sapevo che avrebbe sortito questo effetto, intendo lo sviluppo che è seguito. Grazie anche a Miriam e al nome della Fallaci si è iniziato a parlare molto del corto. Così dopo le prime curiosità su questa venticinquenne italiana che viveva a Londra, ho iniziato a sedermi ai tavoli, hanno iniziato a cercarmi gli agenti, e si è smosso un po’ tutto. Avevo convinto Miriam, vinto un Nastro e il MIA, ma non potevo comunque reggere tutto il progetto da sola, cosa mai successa in precedenza a un professionista così giovane. Però c’è stata la volontà di farmi crescere all’interno del progetto ritagliandomi il mio ruolo di sceneggiatrice e regista. E poi se ci dovesse esserci un’altra stagione, magari evolverà anche il mio ruolo.
Siete tre registi a dirigere gli 8 episodi. E tu ne hai uno.
Sì, il mio è il sesto e va in onda il 4 marzo. Sarà uno spartiacque, il più intimo sulla vita personale di Oriana e ruoterà su cose mai mostrate di lei.
Nel senso che non sono mai state messe in scena né documentate, o sono già note in qualche modo?
Messe in scena sicuramente no, ma molta della nostra documentazione si rifà alla biografia Una donna, di Cristina De Stefano, che aveva fatto ricerca parlando anche con un nipote di Oriana Fallaci. Oltre al pubblico generalista, che non può sapere le cose che stiamo mettendo in scena, ci sono gli esperti lettori molto attaccati alla biografia, che ho scoperto dai social. Loro parlano di Oriana come se l’avessero conosciuta, e m’interessano molto anche i loro pareri puntigliosi. Nelle prossime puntate credo daremo delle sorprese sulla sua vita, ma abbiamo preso tutto da una corposa documentazione. Spero che le persone si lascino trasportare e stupire dal racconto, perché abbiamo cercato di indagare la persona oltre al personaggio.
Come sono state assegnate le regie degli episodi tra voi tre?
Luca è entrato subito nel progetto impostando la serie con la direzione dei primi quattro episodi, Giacomo ha preso la seconda metà lasciando a me il sesto, dove ci sono molti twist emotivi importanti, come dicevamo. Su una serie è necessario mantenere sempre una certa visione d’insieme perché si tratta di un progetto lungo, complesso e snodato nel tempo. Molti cambi di cast, sceneggiatura, di location, dove si parlava sia in inglese che in italiano. Non basta la visione artistica, devi essere una persona di polso, che sa prevedere certe cose, veloce nel fare scelte giuste sul tempo e su cosa tagliare. Quindi bisogna avere una visione d’insieme molto articolata.
Oriana era ossessionata dall’intervista che doveva fare a Marilyn. Cosa ossessiona Alessandra Gonnella?
Tante cose! Perché sono un po’ come Oriana, una persona molto ossessiva! Una persona che mette passione in quello che fa, ne conosco tante persone così, e trovo questo aspetto affascinante quando lo trovo negli altri. Adesso la mia ossessione è fare il primo film. Per ora non riesco a vedere oltre la mia opera prima cinematografica.
Infatti ora quali saranno i tuoi programmi tra scrittura e set?
Ho tanti progetti nel paniere, effettivamente. Ad esempio mi sto dilettando con la scrittura di stand-up comedy, ho iniziato a esibirmi a Londra, e un giorno chissà se potrò diventare anche una stand-up comedian. Forse l’universo mi guiderà, ma intanto cerco di mantenermi determinata su questa romantic comedy tra Londra e l’Italia, vorrei diventasse la mia opera prima. Mi piace l’idea di coniugare due mondi, due sistemi diversi, anche produttivi, che conosco, ho vissuto e sto vivendo. Ma per ora non posso dirne di più.
Attilio non è più un bambino, non ha neanche vent’anni e nella testa una serie di sogni disordinati e inespressi. Le sue giornate estive a ciondolare nei bar con gli amici o a tuffarsi nel mare cristallino di Napoli scorrono tra riflessive ipotesi di futuro e risate intorno a sfide a carte. Fino a quando non viene folgorato da una ragazza, bella quanto intoccabile. Il problema è il lavoro di lei. Perché vive prostituendosi sfruttata da un sistema illegale di cui Attilio stesso fa inevitabilmente parte, quanto suo padre appena uscito di galera, e quanto le immani difficoltà del tirare a campare in questo micro universo urbano raccontato dalla sceneggiatura di Ivan Ferone e Edgardo Pistone. Ciao bambino, opera prima di Pistone, prende dal suo ultimo cortometraggio, Le mosche, ampliandone trama, tiro e cast. Proprio lo street casting basato su dialetto partenopeo, espressività e vitalità effettuato per il suo lungometraggio mostra una collana d’interpreti preziosi quanto sconosciuti. Anastasia è una ventenne disincantata che si destreggia in un oblio forzato, ma proprio l’incontro e l’innamoramento saranno la miccia di un coming of age che si serve di una storia dura raccontata con sobria levità, e soprattutto una confezione registica esteticamente quasi ipnotica. I movimenti eleganti di questo bianco e nero senza tempo di Pistone nobilitano la periferia, in questo caso il rione Traiano di Napoli, lo stesso dove il regista è cresciuto.
Da qui Pistone gira equilibrandosi tra naturale gusto per l’immagine e un’efficacia narrativa che fanno ricordare mani felici come quelle di Emma Dante. Nel realismo morbido di questo autore si nota molto il contrasto tra forma e sostanza. Contrasto che magicamente non crea distanza tra gli elementi, ma li fa danzare insieme, tra le esistenze strizzate ma gaudenti di questi poveri ma belli. Il lirismo visivo a volte si porta ai limiti dello spot da Film Commission, quasi da sguardi sorrentiniani, ma pure queste piacevoli vertigini ne fanno l’ottimo lavoro che è per qualità esecutiva e magniloquenza di certe immagini.
Meritano positiva menzione i protagonisti Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk, entrambi forti delle loro veracità, lui campano, lei ucraina, ma soprattutto della loro età a cavallo tra scoperta e distruzione, coraggio e passione, tragedia e sentimento. Tutto funziona tra loro e intorno a loro, nei tempi e nelle intensità di un humus di umanità dai tanti colori, seppure solo di due sul grande schermo.
Il corto originario, Le mosche, era stato presentato alla Settimana Internazionale della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia nel 2020, vincendo peraltro il Premio per la Miglior Regia; mentre Ciao bambino si è aggiudicato il Premio Miglior Opera Prima alla Festa del Cinema di Roma nel 2024 e il Premio Speciale della Giuria al Tallinn Black Nights Film Festival, in Estonia. Certi film sono come quelle piante che hanno bisogno di spazi ampi per crescere. Questo è ora in sala, ed è proprio uno di quei film che andrebbero goduti sull’ampiezza del grande schermo.
Conviene sempre ragionare con calma sui corti vincitori della Settimana Internazionale della Critica veneziana (SIC 39), che l’anno prossimo compirà appunto i suoi primi 40 anni. Nella selezione lungometraggi sette sono stati i film in concorso, tra i quali l’unico italiano Anywhere Anytime, di Milad Tangshir, di cui abbiamo parlato durante la kermesse, risultato vincitore del Premio Luciano Sovena alla Miglior produzione indipendente, e poi volato al Toronto Film Festival. In più sono passati su questa sponda del Lido due titoli fuori concorso, come eventi di apertura e chiusura.
Per il cinema breve alla sezione Sic Short Italian Cinema partecipavano soltanto opere di produzione italiana. Ci sono stati due corti d’apertura, sette in concorso e un titolo di chiusura. Mentre la giuria era composta da: Giulia Achilli, giovane producer con l’Orso d’Argento per Disco Boy nel curriculum; l’eclettico regista Simone Bozzelli, vincitore dell’MTV Music Award 2022 per il videoclip I wanna be your slave dei Måneskin, e del quale già parlammo riguardo alla sua opera prima Patagonia; e infine Elena Ciofalo, project manager dell’associazione AIACE per le attività del Centro Nazionale del Cortometraggio.
Il Premio al Miglior cortometraggio – Frame by Frame è andato a Things That My Best Friend Lost, di Marta Innocenti. Sono messaggi whatsapp quelli che ascoltiamo mentre la regista ci srotola immagini di rave, backstage e soprattutto post party. Le parla un suo amico che li organizza e la invita affettuosamente a tornare ad ogni nuova data. Questo flusso telefonico di coscienza è l’incipit per marcare sul cosiddetto Decreto Rave, diventato legge a fine 2022. Il senso si fa politico passando per un atto che spostava l’attenzione dall’utilizzo e determinazione della proprietà privata in disuso alle feste illegali a base di sostanze psicotrope altrettanto illegali. Il linguaggio utilizzato da Innocenti morde un documentarismo di presenza digitale con voce fuoricampo, una ricostruzione apparentemente elementare che a volte ha sembianze da storia Instagram. Ritmi forsennati ma nei toni morbidi, quasi giocosi di questo amico toscano che messaggia, e tra le spire di suoni aggressivi dalle casse si nasconde invece un naturale bisogno d’aggregazione giovanile, quella stessa voglia di libertà generazionale, cooperazione, ricerca di sé, di liberazione e scarico d’energia che a livello mediatico c’insegnò nel novecento la lezione di Woodstock.
In un certo senso si spinge negli stessi territori formalmente liminali At List I Will Be 8 294 400 Pixel, ma calcando di più la mano. Il corto di Marco Talarico è la soggettiva con la voce di una ragazza. Tutto ciò che vediamo viene da filmati manipolati tramite l’intelligenza artificiale da un ragazzo solitario e nostalgico che fa un viaggio in Georgia, rimodulandoci sopra i ricordi di una realtà su misura. Sembra la prova tecnica per un ideale prequel spin-off di Her, il film di Spike Jonze dove un ramingo cuore solitario s’innamorava della voce del suo sistema operativo. At List I Will Be 8 294 400 Pixel è stato premiato per il Miglior contributo tecnico – Fondazione Fare Cinema. Enigmatico fino al midollo, lungi dall’immediata comprensione senza doverose spiegazioni, e nonostante tutto, persistentemente nebuloso quanto un cyberpunk della prim’ora, risulta oggi più una forma di cinema da laboratorio ancor prima che sperimentale. Quasi un’opera allucinatoria prima che di un lavoro in AI. Una sorta di officina aperta dove lo sguardo si muove come fosse un corpo in piena autopsia. Il piccolo viaggio audiovisivo concettuale si distacca anche dalle raffigurazioni in videoarte, le più sguinzagliate dalle grammatiche di montaggio e messa in scena. Formalmente di potenziale interesse ma dal contenuto scarno e inconcludente. Men che meno andrebbe considerata opera filmica in tre atti o quantomeno legata al raggiungimento di un classico climax. Ma si accomuna con il primo corto per l’utilizzo visivo di soggettive spiazzanti e degli storytelling più da reel sui social che propriamente da racconto cinematografico.
E se il cinema stesse iniziando a rivedere sé stesso unendo la iper-soggettività dello sguardo social alle nuove possibilità di manipolazione offerte dall’AI? Sembrano porci questa domanda i corti premiati alla Settimana della Critica di Venezia. Però a questo proposito, dal punto di vista narrativo risulta più completa l’opera d’apertura e fuori concorso di Andrea Gatopoulos, perché si presenta con una drammaturgia più chiara e lineare. The Eggregores’ Theory percorre l’esplosione distopica di un virus che cambia il mondo contagiandolo attraverso le parole scambiate. Oltre alla tagliente metafora su un’incomunicabilità globale, con il suo corto il regista mette in montaggio immagini ferme in bianco e nero a metà strada tra fotografia e disegno, dove i ritocchi vanno ben oltre il photoshop ma rivelano mutazioni grafiche e morfologiche da AI appunto. Un ottimo utilizzo per scavallare gli altrimenti costosissimi effetti visivi dell’oramai dominante computer graphic e al tempo stesso mantenendo una confezione che potremmo definire digital artigianale.
Dopo questa breve divagazione su un fuori concorso che forse un premio lo avrebbe meritato, concludiamo il nostro percorso Sic tra le avanguardie del cinema breve italiano con l’ultimo dei premiati, Nero Argento, vincitore per la Miglior regia – Stadion Video. Quattro giovani writers vivacchiano tra i binari di una grande stazione e la fitta boscaglia che li ospita insieme a fagiani che rischiano pallini dai cacciatori. Siamo sempre ai bordi della legalità, una condizione squatter vissuta con purezza e ingenuità quasi infantili di questi adolescenti che si aggirano come folletti ribelli con le loro anime anarchiche. Da una storia tutto sommato sempliciotta Francesco Manzato mette insieme un piccolo film di finzione che sembra un documentario low budget, di quelli d’assalto. Quasi tutto è in presa diretta e girato con tante soggettive con il telefono. E anche qui l’immediatezza e la malleabilità di questo stile di ripresa, anche partendo dal grande schermo, ci sbatte nel mondo fuori dalla sala, senza più filtri e con nuovi codici. Come un social.
Ha appena compiuto dieci anni Officina Pasolini, il laboratorio artistico alta formazione per giovani e hub culturale della Regione Lazio, diretto da Tiziana Tosca Donati e diviso in tre sezioni: Canzone, diretta da Niccolò Fabi; Teatro, il cui responsabile è l’attore e regista Massimo Venturiello; Multimediale, che forma videomaker e figure professionali in ambito audiovisivo, diretta dalla produttrice Simona Banchi.
Tiziana Tosca Donati, direttrice di Officina Pasolini (ph: Fabio Lovino).
L’offerta formativa prevede un biennio di corso più un anno integrativo che ha l’obiettivo di sostenere economicamente i progetti artistici per un totale di 45 diplomati ammessi. Un percorso che fornisce agli studenti e alle studentesse le competenze professionali e artistiche necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro. Tutto completamente gratuito. Gli ammessi hanno tra i 16 e i 29 anni, ma il bando (consultabile online) permette l’ammissione fino ai 35 anni per particolari meriti artistici. Tra i docenti dell’Officina Roberto (Bob) Angelini, Giovanni Truppi, Walter Pagliaro, Alessandro Chiti, Alessandro Bonifazi, Paolo Ferrari e dal prossimo biennio Daniele Silvestri.
Tra gli ex-studenti Francesco Patanè, attore genovese protagonista di Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa al fianco di Elodie e, prima ancora, coprotagonista con Sergio Castellitto de Il cattivo poeta, di Gianluca Jodice. «Officina è un mondo che ha una grande importanza a Roma e in Italia» ci confida «Permette agli artisti di formarsi in un modo unico perché gli insegnanti mettono al centro l’aspetto umano nella relazione con gli allievi. Ho scelto di fare questo mestiere anche grazie a Massimo Venturiello e Tosca, la direttrice artistica. L’incontro con loro è stato fondamentale per fare di questo gioco che amavo, di questa passione, un vero lavoro». Per sapere ancora di più di questo laboratorio di crescita professionale e artistica abbiamo dialogato con Simona Banchi, produttore di film come Takeaway con Libero De Rienzo o documentari come La maglietta rossa di Mimmo Calopresti e The Beat Bomb di Ferdinando Vicentini su Lawrence Ferlinghetti.
Simona Banchi.
Officina Pasolini: quando e come arrivò l’idea per questo progetto formativo?
Sicuramente arrivò tutto da Tiziana Tosca Donati, Tosca, che aveva già realizzato con il supporto regionale corsi formativi per attori e cantanti. E soprattutto è partito dall’esigenza della Regione per l’impiego intelligente del Fondo Sociale Europeo, quindi dei soldi destinati alla formazione da parte dell’allora Assessorato alla Formazione, in quegli anni presieduto da Massimiliano Smeriglio. Esisteva già la scuola Gian Maria Volontè, prima provinciale e poi regionale, Officina Pasolini nacque due anni dopo. Abbiamo studenti che vengono da tutta Italia e anche da fuori i confini nazionali, ma resta un Progetto della Regione Lazio. L’obiettivo principale è quello di dare ai giovani gli strumenti per professionalizzarsi in mestieri “non convenzionali” come cantanti, attori e videomaker. Abbiamo voluto intestare l’Officina a Pasolini perché era una figura traversale della cultura, si muoveva su più discipline. Un grande scrittore, drammaturgo, regista, poeta e intellettuale.
Del vostro comitato tecnico scientifico ha fatto parte anche Glauco Mauri, da poco scomparso.
Quello per Glauco Mauri, un grandissimo del teatro, è un lutto molto sentito in Officina Pasolini. Tra i nomi che hanno fatto parte del comitato e che purtroppo ora non ci sono più vorrei ricordare anche anche Franca Valeri, Andrea Purgatori, che è stato anche docente di scrittura del corso multimediale; Luciano Sovena, che è stato AD dell’Istituto Luce nonché Presidente di Roma Lazio Film Commission; Armando Pugliese, attore e regista teatrale. Ci lasciano un grande vuoto.
Niccolò Fabi (ph: Chiara Mirelli)
Ora ci sono Carmen Consoli, Gino Castaldo, Steve Della Casa, Luca Verdone. Come si creano i programmi dei vostri corsi?
Sono sempre pensati in base alle esigenze attuali delle professioni. Ad esempio il nostro videomaker è una figura competitiva perché è in grado di gestire una piccola produzione audiovisiva. Inoltre tutti i nostri ragazzi seguono lezioni su sviluppo e produzione. Studiamo i bandi europei, regionali, del Ministero, e poi la produzione con tutto ciò che ruota intorno alla regia. Ma anche postproduzione audio e video, imparando export, conforming, montaggio, color correction e anche un po’ di animazione, dipende dagli studenti. Usciti da qui, poi molti di specializzano. Un mio ex-studente ora è al VFX del Centro Sperimentale; un altro sempre lì ma a Regia; tanti che hanno frequentato la Volonté poi scoprono qui la loro direzione. Molti dopo il nostro biennio tentano il Centro, e almeno uno o due l’anno entrano.
Massimo Venturiello (ph: Giovanni Canitano).
Dieci anni di Officina Pasolini. Sarà senz’altro difficile perché se ne conteranno un’infinità, ma quali sono i momenti più indimenticabili?
Il primo concerto al corso di Canzone fu chiuso da un brano scritto da un ragazzo che ora non c’è più: Federico, era bravissimo e tutti gli hanno voluto bene. Quando suonammo la sua canzone era come se lui fosse ancora qui. I momenti indimenticabili sono sempre legati a un successo dei ragazzi, piccolo o grande che sia. Una mia studentessa ha vinto il concorso a Cinecittà ed è stata assunta per il restauro digitale. Un’altra ha vinto recentemente un bando Rai per programmisti multimediali e ora lavora a Rai Doc. Un altro ragazzo uscito da Canzone, Lorenzo Lepore, ora è un bravissimo cantautore. Spesso se capito sui set di amici e colleghi, trovo qualcuno dei nostri ex allievi che lavora lì. Mi emoziona. La formazione è importante, ma poi l’anello finale è aiutarli a lavorare.
In questi dieci anni la digitalizzazione delle arti ha corso più che mai. Come si fa a stare al passo della tecnologia mantenendo però l’artigianalità e l’umanità di un’arte che deve svilupparsi insieme ai suoi giovani?
Non dimentichiamo che il digitale ha creato anche tante professioni. Spesso i ragazzi oggi sanno già usare la telecamera, hanno già buona manualità con l’audiovisivo, ma si tratta più che altro reel e social. Qui invece si confrontano con lo studio e la narrazione vera, a partire dalla scrittura. L’artigianalità? Se penso al mio lavoro di produttore nel passato mi torna il ricordo dei fax… Ma come facevamo a mandare gli ordini del giorno con i fax? Quindi viva la tecnologia e viva l’intelligenza artificiale, che i ragazzi utilizzano per realizzare cose visive altrimenti impossibili. Insomma, dobbiamo essere noi gli artigiani della tecnologia. Una esercitazione che facciamo spesso è rigirare scene di grandi film, e quest’anno i ragazzi hanno rifatto una sequenza di Matrix. Molta postproduzione video ma ricostruendo le scenografie molto artigianalmente.
Agli anniversari importanti si fanno anche dei bilanci. Guardandosi indietro cosa la emoziona di più, cosa la rende più orgogliosa e cosa vede nel futuro?
I ragazzi, i loro lavori, anche se sgangherati, i complimenti che mi fanno quando mando qualcuno di loro a lavorare da qualche parte. Questo mi rende orgogliosissima e mi fa stare bene. Soprattutto perché ho la fortuna d’insegnare il mio mestiere. Quindi è emozionante tramandarlo. Vedi che così alla fine ritorniamo sempre alla bottega dell’artigiano? E poi il futuro… Il futuro è oggi.
Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo cerca di fare qualcosa per gli invisibili come lui, ma non è mai abbastanza. Anywhere Anytime, opera prima di Milad Tangshir, omaggia il passato di Ladri di biciclette con il presente della consegna a domicilio e prende in prestito da quei grandi sceneggiatori del Novecento (Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico) il congegno narrativo della bici rubata.
Il suo film pedala sull’asfalto degli invisibili, parla di lotta per la sopravvivenza e integrazione dei nuovi vinti, quindi di sfortuna e sfumature che possono far crollare un’esistenza come un castello di carte. Con l’attenzione a un realismo urbano germogliato esteticamente sul solco moderno dei fratelli Dardenne, pesca dalla strada le sue facce e i suoi cromosomi narrativi, in senso pieno. Il regista è un iraniano con un salto nel nostro paese simile a quello di Ferzan Ozpetek. Fino all’arrivo in Italia, nel 2011, aveva inciso tre album con una rock band in Iran, poi qui da noi gli studi di cinema, i primi cortometraggi premiati e la collaborazione con Daniele Gaglianone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a lui e a Giaime Alonge. Il loro script è asciutto, scevro di pietismi e contempla l’importanza della relazioni tra le persone. Che sia amicizia, flirt, lavoro, volontariato, incontri fortuiti con brave persone o incontri con brutti ceffi, il trio di autori ci presenta un affresco molto realistico della Torino di oggi attraverso lo sguardo di un ragazzo straniero.
Tangshir ha preso dalla strada gran parte del cast. Dei non-attori, un po’ come Garrone per Io capitano. Ibrahima Sambou è il protagonista, il ragazzo che cerca solo di cavarsela. La sua limpidezza nella nostra Italia così contraddittoria ha l’asprezza di una realtà che Sambou per primo ha visto con i suoi occhi ben prima di qualsiasi set.
A prescindere dal classico percorso dell’eroe costruito per l’intrattenimento narrativo, il film apre uno squarcio su una realtà difficile, pur senza mettere lo spettatore troppo disagio, facendogli assaggiare senza rischio quelle situazioni a tenaglia da una poltrona vellutata rinfrescata da aria condizionata. E anche senza caricare sensi di colpa sul pubblico, questo cinema mostra il mondo di oggi e le sue nuove storture subite da speranza e buona fede operosa. Il filo rosso di queste tematiche parte da lontano, cinematograficamente da De Sica passando per le crune di tanti autori e tante epoche. Dai Petri ai Loach, ai più recenti Vicari, Riondino e Garrone. Fino alla bella sorpresa Tangshir. Proprio a questo punto, nell’incontro tra realtà e narrazione, il cinema diventa strumento necessario di coscienza civile. Anywhere Anytime si avvale oltretutto di una colonna sonora fatta di rumbe jazz che ci immergono in ritmi sincopati e imprevedibili come la vita in strada. È stato presentato a Venezia per la Settimana della Critica, l’unico italiano in concorso, e uscirà al cinema l’11 settembre.
È uno dei pochi in Italia a fare orgogliosamente cinema horror e qui ci spiega perché. E già che c’eravamo gli abbiamo chiesto cosa lega la sua carriera di regista a quella di musicista (Tiromancino vi dice qualcosa?). Con il suo nuovo film horror, The Well (in streaming da oggi sulle principali piattaforme), la vicenda di una restauratrice ingaggiata da una donna molto facoltosa per riportare alla luce un antico quadro nel suo palazzo, Federico Zampaglione affronta un viaggio inquietante e violento agli antipodi con la musica dei suoi Tiromancino. Tanto che è arrivato anche il divieto ai minori di 18 anni, una garanzia per gli appassionati del genere. Lo abbiamo incontrato per parlare del suo cinema e del contatto tra le sue due carriere. È un artista poliedrico a cui piace stupirsi e, partendo dal suo cinema, si è aperto riflettendo tanto sul suo film spietato quanto sulla sua famiglia allargata. La sua ex-compagna Claudia Gerini e sua figlia Linda Zampaglione sono state per la prima volta insieme su un set, rivelando collegamenti inediti tra l’amore per le fiabe nerissime e la musica, che in fondo riesce a legare sempre tutto.
Vieni definito un regista horror ma non hai girato film solo di quel genere. Non lo era Nero Bifamiliare, ma neanche Morrison. Sei un regista che sta facendo un suo percorso attraverso i generi.
Sì, anche se devo dirti che alla fine mi sento davvero nel mio quando faccio horror. Mi piace fare cose cupe, dark, dove posso utilizzare un altro approccio, mi danno una marcia in più perché fondamentalmente mi diverto molto di più a lavorare su questi temi.
Il tuo The Well è un horror che si rifà alla Casa delle finestre che ridono di Avati. Ma io ci ho visto anche Cabin Fever di Eli Roth e addirittura un pizzico di Ghostbusters 2 per via del quadro che viene restaurato.
Guardo tantissimi film, quindi le ispirazioni arrivano sia dal passato che dal presente. Sono uno spettatore appassionato e gran parte dei film sono cinema di genere. Devo essere sincero, non sono un grande amante dei drammi all’italiana, perché li sento lontani da me: certo, ho amato alcune commedie, ma il mio cuore batte horror. Sin da ragazzino ho seguito questo genere e sto lavorando su un mio stile sempre più personale dove dentro puoi trovare elementi che si ispirano al grande cinema dark del passato, non solo italiano. In The Well, ad esempio, ci sono elementi classici che si rifanno al gotico e componenti oscure, violente e disturbanti che fanno riferimento più a un linguaggio contemporaneo.
Senza spoilerare, penso che nel tuo film ci sia un importante riferimento all’edonismo e al narcisismo di oggi.
Certo, c’è una critica al potere, una critica al denaro a tutti i costi. Provo a sondare quanto essere così assetati di potere e ricchezza renda più mostri dei mostri. Questa è la metafora dietro il film. È il mio messaggio riguardo alla ricerca disperata di edonismo di una bellezza fine a se stessa, masturbatoria. Anche in Shadows c’era una critica, in quel caso diretta alla guerra e ai suoi orrori. In tanti momenti l’horror ha rappresentato uno specchio per la società raccontando le brutture del mondo che ci circonda. Anche a me piace usare l’horror come metafora della vita. Ma la verità è che la vita è diventata molto più horror dell’horror. I fatti di cronaca che leggiamo oggi sono talmente efferati e crudeli che se li inserissi in una sceneggiatura nessuno vorrebbe produrla.
Oramai possiamo definire Claudia Gerini la tua attrice feticcio. Al suo fianco stavolta c’è Lauren LaVera, che ricorda straordinariamente la Jessica Harper di Suspiria. E poi c’è tua figlia, per la prima volta sullo schermo.
Con Claudia c’è affiatamento perché abbiamo fatto tre film insieme. Lei conosce il genere e di conseguenza si sa muovere bene in questo contesto. Lauren invece è un’attrice americana molto talentuosa, emersa con Terrifier 2 e adesso farà anche il 3. Ha un viso particolarmente ingenuo e delicato. Sembra fatto apposta per questo genere, con quegli occhioni da cui viene fuori il terrore puro. Con mia figlia Linda avevamo fatto insieme alcuni cortometraggi in pandemia: mi ero già accorto che era molto sveglia, il cinema l’aveva nel Dna. Però il rapporto sul set è stato molto equilibrato con tutti gli attori. Con Linda mi sono comportato da regista con un’attrice. Poi dopo le riprese tornavamo a essere padre e figlia.
Rispetto agli altri generi, cosa ti piace di più dell’horror come strumento per raccontare storie?
È qualcosa che fa parte dell’animo umano. In tutti noi c’è la paura. Il terrore di entrare in contatto con qualcosa che ti spaventa. L’horror raccoglie emozioni forti anche lontane, nascoste, che uno si porta dietro fin da ragazzino. Così, puntando su paure recondite, angosce, profondità insondabili, anche senza troppe parole con l’horror puoi catapultare lo spettatore direttamente in quel territorio.
E qual è la tua peggiore paura, cosa ti terrorizza di più?
Ne accennavo prima. Ciò che mi terrorizza veramente è proprio la realtà. Le notizie di cronaca, la follia dilagante tra le persone, soprattutto all’interno dei nuclei familiari. Essendo padre di una ragazzina di 15 anni ovviamente mi spaventa quello che leggo tutti i giorni. A volte non ci dormo. La fantasia, i mostri, non sono niente rispetto a questo.
Tu che ci stai dentro, cosa trovi ci sia in comune tra queste due cose così diverse e distanti, la tua musica e l’horror?
Sicuramente la passione che ci metto e soprattutto la capacità di creare un’atmosfera. Credo che questa sia proprio la cosa che mi riesce meglio. Quando scrivo musica mi piace tessere un’atmosfera che fa entrare subito l’ascoltatore in un mondo. Già prima d’iniziare a cantare creo quel tipo d’atmosfera: pensa al pianoforte di Per me è importante o la partenza dei violini di Due destini. Ecco, da lì inizia un ambiente sonoro dove ti lascio entrare senza farti uscire. Il semplice ritornello da cantare non m’interessa. Lo stesso vale per il cinema. Mi piace far entrare lo spettatore, e una volta dentro si deve fare tutto il viaggio fino alla fine.
Da musicista e da regista, come si svolge il lavoro per le colonne sonore?
Spesso non le compongo io o comunque non interamente. Intanto devi trovare musicisti con i quali avere sintonia perché dovranno sviluppare le tue indicazioni. Ad esempio puoi chiedere qualcosa d’inquietante, ma con richiami all’esoterico o alla stregoneria. Immediatamente nella testa del musicista si affacciano strumenti, cori e sonorità che possono dare un suono a queste parole. Sai, per passare da un’atmosfera malinconica a una tesa basta una nota: se cambi quella nota cambia tutto. Spesso giro sul set con la musica già composta, soprattutto nelle scene senza dialoghi, e l’attore ci si accorda subito sopra come fosse uno strumento. Questo vale anche per la troupe. Tutti lavorano in maniera facilitata all’interno di un’atmosfera ben precisa perché riescono ad accordarsi insieme sulla “temperatura” che volevo raggiungere.
L’horror americano ultimamente ha preso la strada del disagio estraniante con autori come Ari Aster. Qual è invece secondo te la direzione dell’horror italiano?
Intanto bisogna dire che nel cinema italiano non si vedono molti horror. Non ne esce quasi mai nessuno. Non abbiamo vere correnti, ma sprazzi, casi isolati perché l’industria predilige il prodotto americano e internazionale. Vale anche per action, fantascienza e cartoni animati. In questo invece io mi sento molto libero da caste, salotti e premi. Se faccio horror il mio dovere è quello di spaventare, terrorizzare, scioccare, disturbare. È il dovere di un bravo regista horror.
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Diciannove anni, Leonardo ha le idee ancora poco chiare sul futuro. Studia lettere, ma dalla Sicilia a Londra e poi Siena sembra si areni tra i suoi libri d’epoca, un rapporto difficile con le aspettative materne, con i professori e le sessioni d’esame. In più la vita da fuorisede gli gira intorno come una trottola che lui schiva nella sua camera in affitto, comfort zone dove si rintana insieme alle sue pulsioni.
Diciannove è il lungometraggio d’esordio alla regia di Giovanni Tortorici, talento del 1996 scoperto da Luca Guadagnino, che lo ha prodotto insieme a Malcolm Pagani tra Italia e Inghilterra. Scheggia di coming of age e motore di una diaspora generazionale, indispone e fa tenerezza questo ragazzotto educato e saccente che perde treni e cova aspirazioni ancora incerte, così sicuro di sé riguardo alla letteratura tanto da mettersi frontalmente contro i docenti, ma allo stesso tempo perso in mondi che assaggia sfuggente dai baci di ragazze conosciute in disco. Si percepisce da ogni fotogramma il senso di spaesamento di quell’anno precedente i venti, che si scontra con le inflessibilità professorali e i problemi d’incomunicabilità. E Manfredi Marini veste il personaggio donando a questo film la giusta forza fragile di quell’età.
È in concorso nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia 81Diciannove. La sceneggiatura saltella capricciosa e provocatoria insieme alle indecisioni e gli svarioni di Leonardo. A volte le sue vicissitudini ricordano certe atmosfere da Nouvelle Vague, forse meta agognata nella chiusura irrisolta, in certe andature narrative montate a schiaffo. Una svogliatezza formale che può esser letta in vari modi.
Le inquadrature di Tortorici sembrano incantarsi su dettagli di cielo, vicoli e contrade. Come un continuo prender e perder tempo che rappresenta in piena soggettiva quel numero dell’anima. Tempi apparentemente morti che danno respiro alla formazione del protagonista. Poi sprazzi ironici, incontri che impennano su discorsi surreali alla Tutti giù per terra di Davide Ferrario. Gli scontri intellettuali sulle sue visioni letterarie, il rifiuto rivoluzionario di ammirare certi grandi lo fanno apparire comunque un pulcino mordace in un mondo millenario come Siena che mastica da sempre storia e persone. Sta qui la tenerezza per questo personaggio così fresco e acerbo che ci presenta Tortorici. Ma abbiamo anche tante, troppe sospensioni sui vari piani narrativi, mai realmente chiusi e spesso inseriti senza nessi. Insomma, si pasticcia un po’. Come nella vita scombussolata di un diciannovenne, del resto.
Romano vissuto anche fra Londra, Parigi, Madrid e la Romania, Andrea Baroni ha scommesso tutto sulla sua passione per il cinema. Tra i suoi primi corti annovera una commedia agrodolce, 9 su 10. Adesso è alla sua opera prima, Amen, che dopo il Premio Interfedi al Torino Film Festival 2023 è ora in sala con Fandango.
Tre sorelle adolescenti, isolate in una campagna quasi senza tempo, devono sottostare alle imposizioni religiose e moraliste di padre e nonna nonostante la scoperta dell’altro sesso. Baroni ha esplorato il tema del limite attraverso un dramma bucolico e sensuale scritto, prodotto e girato in soli 45 giorni a zero budget. Un linguaggio estetico raffinato e materico che ha come protagoniste le tre sorelle – Grace Ambrose, Francesca Carrain e Valentina Filippeschi – e annovera nel suo cast anche Luigi Di Fiore e Silvia D’Amico.
Nel tuo film esplori il concetto di limite. Qual è la tua visione di limite, tra il film e la realtà di oggi? È la domanda che mi ha portato a scrivere Amen. La mia attuale idea di limite appartiene al mio far parte di una società occidentale, europea e molto bianca. E questo lo vivo come un limite assoluto, in questo momento, perché so che esiste un altro mondo che forse, prima della globalizzazione, mi avrebbe raccontato cose molto diverse da quelle che vivo qui. Penso che il mio limite ora sia non ragionare su cosa ci sia oltre il limite, oltre il confine. Una cosa necessaria che invece ho esplorato girando Amen.
Hai chiuso i tuoi personaggi in un recinto emotivo muovendoli fra spiritualità, peccato e senso di colpa. L’imposizione religiosa mi è servita come mezzo per creare il tipo di società che impone leggi. La giornata delle ragazze, le figlie di Armando, è scansionata dall’attività religiosa. Così in questa gabbia fatta di confessioni, preghiere mattutine, catechismo e lavoro nei campi ho potuto far crescere il senso di colpa fortemente presente nella dottrina cattolica. Credo sia una molla molto importante della nostra società, siamo mossi più spesso dal senso di colpa che da una volontà positiva. E ho voluto applicare questa dinamica ai miei personaggi.
Amen ha avuto una genesi record di 45 giorni. Quali sono state le difficoltà che hai dovuto risolvere intorno a te? Come hai portato le attrici in questa storia? Intanto ho dimenticato tutti i miei desiderata, le inquadrature che avrei voluto fare, i problemi e i miei limiti aiutando troupe e attori ad ambientarsi in un contesto estremamente difficile. Il primo obiettivo era quello che gli attori creassero una sorta di famiglia. Abbiamo vissuto il set come una comune, ma non mi bastava, così ho voluto seguire le simpatie e antipatie che si creavano fuori dal set assecondandole. Quello che vedete è in parte frutto di questa genesi distorta.
Quindi hai tenuto a distanza sul set gli attori che avevano personaggi in conflitto? Un po’come si fa con i villain? In realtà no, non c’è stato bisogno di farlo. C’era già una sorta di distanza tra le tre ragazze che interpretano le sorelle e loro padre. Ho solo dovuto accendere la miccia tra gli attori e ha funzionato per ottenere la giusta tensione. Anche per tutta la troupe è stato molto difficile ambientarsi in una situazione produttivamente ostica. Da regista che affronta la sua opera prima e vuole girare sette inquadrature a scena, ho dovuto ridimensionarmi e capire come funzionava il mondo. Questo ha portato tutti a una grande elasticità per arrivare a finire Amen.
Hai anche lavorato molto con la luce naturale, soprattutto in esterni. Fra le nostre reference fotografiche c’era un horror, Midsommar, perché intendevo raccontare qualcosa di orrorifico alla luce del sole. Non volevo notturni – non potevamo neanche permetterceli – ma scene negative e diurne. Altro esempio di gioco con il limite imposto. Con il direttore della fotografia abbiamo pensato di ottenere questo effetto in maniera direi molto artigianale, con una serie di specchi che riflettevano i raggi del sole creando effetti di luce che santificassero i personaggi. Per esempio, all’inizio il personaggio di Grace Ambrose, Sara, è nell’uliveto e, per un gioco di specchi che riflettevano la luce solare, ha dietro di sé una specie di aureola.
Anche questo è dire delle cose senza usare parole ma immagini. E di parole ce ne sono poche, spesso anche citazioni molto precise delle Sacre Scritture. Nella prima parte del film le citazioni sono necessarie per creare il contesto che poi mi dà la possibilità di curvare. La parte di catechesi e preghiera nasconde e allo stesso tempo suggerisce che le mie tre ragazze stanno decidendo o meno di oltrepassare quel limite. Dicono una cosa, ma attraverso le immagini ne fanno altre. Sogno di fare film muti, quasi senza dialoghi, ma qui ho usato la parola per mentire. Ciò che secondo me, l’essere umano fa spesso.
In questo paradigma, la menzogna potrebbe essere lo strumento per superare i limiti?
La parola genera la bugia, quindi mente. Il problema della comunicazione e dell’incomunicabilità è alla base dei personaggi che penso e scrivo. Non a caso sono un fan sfegatato dei fratelli Coen, che raccontano spesso questi temi. Attraverso la parola si può modificare la realtà, riuscire a coprire ciò che realmente pensiamo. I miei personaggi fanno proprio questo, tranne una delle sorelle, molto dritta, pura.
Amen potrebbe definirsi un coming of age, ma è soprattutto un film di sorellanza e resistenza. Come hai gestito nella tua scrittura questo aspetto? Ho seguito la linea dettata da ogni personaggio. Intercettare la pulsione del singolo mi ha aiutato. Ester, ad esempio, la secondogenita interpretata da Francesca Carrain, è una provocatrice nata che forse dovrebbe fuggire lontano. Ma non lo fa, perché come anche noi nelle nostre vite, abbiamo dei legami tossici da cui fatichiamo a liberarci. Vorremmo fuggire, dovremmo. Eppure non lo facciamo. C’è una specie di ricatto del sangue e della terra, perciò le tre sorelle non tradiscono realmente la loro origine. Quando successivamente ho visto Kynodontas di Yorgos Lanthimos, dove la situazione di chiusura è simile, ho capito quanto il microcosmo familiare potesse essere allegoria.
Quali sono i tuoi film del cuore? Il tuo cinema di riferimento e quello al quale aspiri?
Quello a cui aspiro lo sto ancora capendo. Da adolescente avevo un’adorazione per Nanni Moretti, ma non sarei mai in grado di lavorare come lui. Vado pazzo per Werner Herzog, Fitzcarraldo è uno dei film della mia infanzia. Ma ci sono anche Michael Haneke e Yasujirō Ozu. Poi sono diventato onnivoro, fino all’horror, che potrebbe contaminare pesantemente il mio prossimo lavoro; mi piacciono gli autori estremamente tragici. Però negli ultimi anni rivedo spesso anche LaLaLand, per il tema centrale dell’ambizione su cui Damien Chazelle aveva già lavorato in Whiplash. In ogni caso, quando scrivo e giro si cancella tutto per lavorare sulla sensazione che si genera in quel momento magico.