Michele Riondino: “Palazzina Laf e la mia Taranto degli anni ’90”

Palazzina Laf
Michele Riondino e Vanessa Scalera in "Palazzina Laf".

 Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo tra demansionamento e licenziamento, e su un operaio “promosso” con la mansione di spiare lì i suoi colleghi. In sala dal 30 novembre il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il regista ha condiviso con noi alcuni retroscena sul film.

Quest’anno hai compiuto vent’anni di carriera. Quella della regia era una tua vecchia idea o l’hai messa a fuoco col tempo?

Non avevo mai realmente pensato d’imboccare questa strada. Però è anche vero che in questi vent’anni sono poche le volte che mi sono ritrovato sul set e a viverlo soltanto da attore. Grammatica, fotografia e geometrie cinematografiche le ho sempre trovate stimolanti. Come mettermi al fianco dei professionisti che ho incontrato: operatori, macchinisti, DOP e tutti i tecnici che il cinema lo fanno con le proprie mani.

Sia per la vitalità del tema che per lo stile, Palazzina Laf mi fa pensare a Ken Loach e a Lina Wertmuller. A quali cineasti ti sei ispirato?

La mia passione è per il cinema degli anni ’70, quello più attivista. Sono legato ai film di Pietro Germi, Elio Petri, Mario Monicelli, Lina Wertmuller e tutto quel cinema che ci ha raccontato le storie di uomini e di lavoratori, me lo porto dietro anche da attore. In generale i miei titoli-guida sono La classe operaia, Todo modo, A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma per questo film in specifico i miei riferimenti sono stati tre: I compagni di Mario Monicelli, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Fantozzi di Luciano Salce.

A proposito di compagni, Elio Germano, Vanessa Scalera e Paolo Pierobon sono stati i tuoi compagni di viaggio. Come vi siete scelti?

La mia esigenza era quella di creare una compagnia d’attori teatrali: ho girato in cinque settimane, ma ne serviva almeno una di prove per lavorare con gli attori nel luogo della palazzina. Volevo avere la possibilità di creare un’unione di gruppo, sia perché era la mia prima esperienza da regista sia perché il teatro è il mio habitat naturale. Con Elio il primo approccio è stato quello verso un amico, un collega, un compagno che condivide con me idee e opinioni. Gli ho fatto semplicemente leggere la sceneggiatura, come a Daniele Vicari. Volevo sapere cosa ne pensassero. Con Elio non abbiamo mai parlato del suo personaggio, ma mi ha dato subito la sua disponibilità perché voleva far parte del film, la definizione del ruolo è venuta dopo. Per quanto riguarda invece Vanessa Scalera, il suo ruolo è stato scritto pensando proprio a lei: non era scontato partecipasse ma ha accettato subito, un vero regalo. Lo stesso con Paolo Pierobon. Alla nostra prima telefonata mi fa: “Ecco, mi vuoi far fare la parte del cattivo del nord, eh?”. E in effetti era così.

Le musiche del tuo film sono firmate da Theo Teardo e da Diodato con un pezzo originale. Hai dato loro particolari indicazioni sulle atmosfere sonore di cui avevi bisogno?

Theo si è occupato della colonna sonora, ma i due brani editi inseriti sono di Bloodhound Gang e Andrea Laszlo. Invece La mia terra di Diodato è una canzone originale. Di questo corredo musicale fanno parte anche tre marce funebri bandistiche che rappresentano la tradizione tarantina nelle processioni della Settimana Santa. La reference che avevo dato a Theo è Fantozzi: mi servivano musiche che potessero esasperare i paradossi ed evidenziare il grottesco della vicenda.

«Ma voi vi chiedete mai perché vicino alla più grande acciaieria d’Europa non ci sta manco una fabbrica di forchette? Mi sa che la ricchezza va tutta da un’altra parte. A noi ci resta solo la monnezza». La frase di uno dei personaggi sintetizza lo sfruttamento economico, l’impoverimento di un territorio e l’inquinamento selvaggio.

È la più importante del film, secondo me, e riassume esattamente il mio pensiero sulla questione tarantina. Il film racconta fatti successi tra l’97 e il ’98 ma ci sono diversi indizi che portano gli spettatori ai giorni nostri perché la Palazzina Laf è solo uno dei problemi relativi a Taranto. Il mio pensiero è quello di chi oggi combatte per far emergere la verità territoriale, la nostra verità che oggi non è ancora rappresentata e raccontata come si deve.

Da attore hai lavorato con registi come Martone, Vicari, Bellocchio, Risi, e Capitani. Poi dirigi Palazzina Laf. E fuori dai set sei impegnato con il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Quanto è importante produrre cinema civile oggi?

Faccio parte dell’attivismo tarantino, organizzo il Primo Maggio e partecipo alle manifestazioni perché sono un cittadino che vota ed esprime il proprio parere. Ci ho messo sette anni a fare un film su Taranto per raccontare al meglio una storia che potesse rappresentare un punto di vista oggettivo, politico, ideologico se vogliamo, ma fondamentale per capire la questione tarantina per la quale mi sto spendendo da tanto tempo. Diciamo che sono un diesel che ha bisogno di tempo per avviarsi.

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