Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club

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Il cast della serie "Love Club", creata da Silvia Clo Di Gregorio con Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo.

Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino e un master in Advanced Cinematography a Milano, ma continua a studiare.

Spicca come regista nella scena videomusicale indipendente e l’abbiamo vista tutti sorridere e ballare nell’iconico videoclip Oroscopo di Calcutta, diretto da Francesco Lettieri. In qualità di sceneggiatrice, con Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo ha creato Love Club, la serie in quattro episodi diretta da Mario Piredda e disponibile su Prime Video.

Parlami del tuo rapporto con la forma videoclip, che ha caratterizzato l’inizio del tuo percorso.

La musica è sempre stata familiare per me, a casa si suonava e si cantava sempre. Suonicchiavo anche io, non tanto bene, ma sapevo le basi. Inserirmi nel mondo del videoclip è stata una sfida continua, riuscire a creare con poco budget delle piccole storie, con scenografie fatte in casa, un approccio “do it yourself” che ha settato anche il mio stile. Anche se dovessi avere milioni di euro per il mio primo film [ride ndr], la scenografia sarebbe artigianale, legata a un mondo indie che mi appartiene, che mi ricorda un po’ il realismo magico di Julio Cortàzar e l’immaginario infantile che non mi ha mai abbandonato.

Di te si dice che fai parte di quella manciata di persone che hanno inventato la scena romana indipendente. A distanza di qualche anno, come è cambiata quella scena?

Alle Mura organizzavo Margarina, un evento mensile dove si esibivano donne musiciste, tra cui Laila Al Habash, Chiara Monaldi, Iruna, In.versione Clotinsky e tante altre. Vivevo a San Lorenzo e c’era davvero un bel giro tra lì e il quartiere Pigneto. Sapevo che era un momento florido per la musica e quindi anche per i videoclip, si respirava tanta libertà nella creazione artistica, e lo si può vedere sia dagli album usciti negli anni 2016-2017 sia nella regia dei videoclip di quel periodo. C’era una bellissima atmosfera, io facevo ancora gavetta per i più “grandi” come Motta, Thegiornalisti e iniziavo a fare regia o fotografia per i più “piccoli”, all’epoca i Pinguini Tattici Nucleari, Giorgio Poi e Frah Quintale, e c’erano amici e nuove voci come Galeffi, Vanbasten, Canova, Gazzelle, I Cani e tanti altri. La scena indie non esiste più, è stato un periodo molto breve, e lo dico non solo perché la maggior parte di loro lavorano con le major, chi come artista chi come autore o entrambe le cose, ma anche perché anche a livello di locali hanno chiuso davvero la maggior parte dei magici luoghi dove si suonava (e questo non vale solo per Roma, ma anche per Milano e altre città d’Italia).

Pollo all’ananas ’98 è il tuo primo cortometraggio: perché hai scelto di raccontare proprio una storia di immigrazione ambientata in un ristorante cinese di provincia?

Pollo all’ananas ’98 l’ho scritto a 25 anni, durante la pandemia. L’abbiamo girato a giugno 2022 in due giorni e mezzo a Torino, è stato prodotto da Cattive Produzioni e Spicy Storm Production con il finanziamento del Mic e della Piemonte Torino Film Commission. In realtà deve ancora uscire, siamo alla ricerca dell’anteprima per i festival. Come ogni primo corto, non è perfetto, ma quando lo guardo mi dà una gioia immensa. Anche questa storia è ispirata alla mia infanzia: siamo nel 1998 e i miei genitori, immigrati dal centro-sud al nord, sono tra i pochi che frequentano il ristorante cinese di Verbania. Per festeggiare la promozione di mia sorella siamo andati a mangiare cinese, insieme ai miei nonni. Questo ricordo è ovviamente solo l’ispirazione iniziale del corto, che prende una piega molto diversa, spingendosi verso un finale grottesco, ironico e artigianale, proprio nel mio stile.

Quale tabù ti piacerebbe infrangere sul grande schermo?

Immagino che per molti già Love Club è pieno di tabù che abbiamo infranto, nonostante non ci fosse nessun intento di sconvolgere. Sono convinta che i corpi di molte persone e le loro scelte di vita sono di per sé un tabù per tanti. Mi piacciono le storie contraddittorie, che non riflettono quello che ti aspetti, che ti risvegliano in qualche modo. Mi accorgo, soprattutto nei libri scritti da voci incredibili come La cronologia dell’acqua, La breve favolosa vita di Oscar Wao, L’interprete dei malanni o Denti bianchi (sono letteralmente gli ultimi libri che ho letto e che mi sono piaciuti), che hanno un fil rouge di autenticità e di arguzia, con storie vicine agli scrittori, spesso le loro, frutto di traumi e ferite.

Quanto credi che i trend, i social e le mode del momento influenzino il tuo lavoro e la tua estetica?

Ci sono dei trend che mi influenzano, ma allo stesso tempo mi distacco dal mondo social perché sono ossessionata da storie e personaggi che non hanno nulla a che fare con quello che va di moda. Da Bridget Jones a Pedro Infante passando per i mormoni e l’immigrazione cinese in Italia. Sono molto umorale e iperattiva, vado a fondo nelle storie, potrei starci anni. Mi piace riprendere quel baule dei travestimenti di quando ero piccola ed essere fluida anche nel mio modo di vestire, di essere, in base a quello che provo.

Com’è stato co-scrivere Love Club?

Quando Denise Santoro nel gennaio 2021 ha detto a me e a Bex Gunther che forse era arrivato il momento di metterci a scrivere una storia sulla nostra comunità, è stato tutto molto spontaneo, come se fosse ovvio, giusto e naturale. Vivevo in una mansarda a Bee, sopra il Lago Maggiore, in attesa che finisse la pandemia e con Bex ci incontravamo online una o due volte a settimana a scrivere. Abbiamo lavorato tantissimo sull’immaginario di ogni personaggio e del quinto protagonista che è il Love Club stesso, a livello visuale con moodboard, booklet, stili, gusti personali, ma anche sulla musica (c’è la playlist di Love Club su Spotify). Poi quando il progetto si è strutturato con Prime e Tempesta, abbiamo creato noi tre, insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo, una writer’s room meravigliosa. Ci hanno capito subito, e ci hanno aiutato a strutturare al meglio la serie in così poco tempo. In nove mesi abbiamo creato Love Club

Una cosa che si capisce dai tuoi lavori è che non imponi una visione ma ti poni in posizione di ascolto e poi guidi la visione che ti restituiscono le persone: in questo modo quello che crei risulta autentico. Cosa possono fare le nuove generazioni di creativi per restare fedeli al reale?

Hai centrato il punto. Non impongo la mia visione, ci arrivo e guido gli altri. Shi Yang Shi mi ha scritto un messaggio molto bello dopo il lavoro insieme su Pollo all’ananas ’98, ringraziandomi per la mia “morbida determinazione”. Questo per me è oro, creare delle connessioni tra regia e cast, capirsi, comunicare. Riguardo alle nuove generazioni, quello che dico sempre è di studiare tanto, c’è molto da apprendere e tantissimo da fare. Quindi bisogna partire da lì, io non ho mai smesso di studiare, vorrò farlo sempre. Ora sto prendendo un’altra laurea tra la mediologia e il cinema, approfondendo l’immaginario collettivo del cinema messicano.

Nei primi sei minuti della serie compaiono due scene di sesso. So che sul set c’erano degli intimacy coordinators: cosa pensi di queste figure, le userai sui tuoi set in futuro?

Abbiamo spesso ribadito con Bex e Denise quanto fosse importante avere un approccio autentico alla vita amorosa e sessuale della comunità. Abbiamo voluto presentare una coppia lesbica diversa dallo stereotipo delle butch, mostrare che le lesbiche fanno sesso e che va fatto vedere tanto quanto il sesso eterosessuale (lì legato al tema del consenso – nel terzo episodio). Gli intimacy coordinators sono essenziali, mi è capitato come assistente alla regia di finire tra turbini di imbarazzo, poca comunicazione e colpe assurde date alle costumiste (sono loro che forniscono le protezioni e i famosi “sacchetti”), perché mancava una persona che coordinasse. Per me il miglior modo di lavorare è la trasparenza, la comunicazione, il consenso.

Ti senti pronta per realizzare un lungometraggio o vuoi continuare il tuo percorso nella serialità?

Sto scrivendo il mio primo film, una sorta di rom-com molto indie e autoriale sulla storia di un uomo trans, dal titolo Golden Trans Boy. C’è anche qui molto di personale e molta ironia.

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