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Stefania Covella

Maddalena Stornaiuolo, che racconta una Napoli senza sconti

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Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da vivere, un bambino vestito da Hulk che non ha la forza di difendere nessuno.

Maddalena è attrice, acting-coach, regista, imprenditrice e fondatrice della compagnia teatrale Vodisca Teatro e della scuola di recitazione La scugnizzeria. Con Sufficiente, il suo primo cortometraggio diretto insieme ad Antonio Ruocco, ha ricevuto il Premio Speciale ai Nastri d’Argento 2020 ed è in giro per festival con il suo secondo lavoro, Coriandoli (2021). La forza di questi shortfilm sta nella sottrazione e nello sguardo onesto e partecipato, nella regia tesa al mettere al centro i giovani protagonisti e le loro storie raccontate in prima persona, senza sconti. Solida e instancabile, Maddalena ha cambiato il volto di un territorio dimenticato da tutti, compiendo un lavoro enorme di recupero e riqualificazione del tessuto sociale.

La scugnizzeria non è solo una scuola ma un progetto votato all’inclusione, aperto al territorio e a persone di tutte le età, alle quali offri numerose opportunità a prezzi popolari. Hai portato il cinema sul territorio e i ragazzi via dalla strada.

La scugnizzeria è un progetto che è nato solamente cinque anni fa, ma è un sogno che coltivavamo da tempo, solo che tra un lavoro e l’altro era veramente complicato trovare uno spazio che potesse ospitare una grande quantità di ragazzi. Poi, quando sono rimasta incinta di mia figlia, mi sono dovuta fermare, non potevo essere sui set né tanto meno fare spettacoli a teatro. Allora mi sono detta che era il momento giusto per creare La scugnizzeria. Ci siamo messi alla ricerca degli spazi e li abbiamo trovati dove speravamo. Sono arrivati tantissimi ragazzi, all’inizio da Scampia, da Melito, dalla periferia limitrofa e poi da ogni punto della città. Questa è stata una vittoria, non volevamo solo avvicinare i ragazzi del quartiere ma creare una mescolanza, delle connessioni.

Maddalena Stornaiuolo Scampia
Le Vele di Scampia.

Non parliamo solo di corsi di recitazione ma anche di produzione, da qui ha preso forma Sufficiente. Gaetano è un pluriripetente che si presenta agli esami di terza media e aspira alla licenza con un voto sufficiente, qualcosa che significhi “abbastanza”. È un corto sul pregiudizio, sulla società escludente, sugli adulti che non tutelano e sui figli che pagano per gli errori di tutti. Perché hai scelto di raccontare proprio questa storia?

Siamo partiti con l’idea di raccontare una situazione che conoscevamo da tanto tempo, perché purtroppo la vicenda – per quanto romanzata – prende spunto da una storia vera, ma volevamo raccontarla da una prospettiva differente. La criminalità è spesso narrata da un solo punto di vista, invece mi interessava dar voce al ragazzo che subisce le conseguenze delle scelte non sue. Volevo che si sentisse preso in considerazione, quando a casa e a scuola questo non era accaduto. Credo che il cinema serva anche a dare voce a chi non ha la possibilità di farsi ascoltare.

Coriandoli è un’altra storia vera, quella di Speranzella che legge sul balcone per non sentire la madre che accoglie in casa i clienti. Una bambina che vede nei libri una via di fuga, che ha paura del rumore delle zip e non mangia perché non vuole che le cresca il seno. Totoriello è vestito da Hulk e vorrebbe avere i superpoteri per difenderla, ma è terrorizzato. Eppure sono a una festa con le giostre, vestiti da Carnevale: hai scelto questa ambientazione per contrasto?

Sì, esatto. L’infanzia e l’adolescenza dovrebbero essere età felici, ricche di scoperte, invece questi due bambini si trovano a fare i conti con un presente feroce e con un futuro incerto, pieno d’ombre. Mi premeva raccontare un’infanzia negata da situazioni di criminalità: non era quello che era accaduto a me ma, se ci penso, non ho ricordi di me in cortile o al parco, non potevo giocare fuori perché i miei avevano troppa paura. Tutta la mia infanzia è trascorsa tra il balcone e le mura domestiche, le uscite erano altrove, non nel rione. Volevo che questo risuonasse nel personaggio di Speranzella, questa chiusura nelle mura di cemento, in quel balcone lunghissimo che da piccola ti sembra sconfinato e invece non è che uno spazio troppo limitato.

Maddalena Stornaiuolo
Maddalena Stornaiuolo.

Hai recitato in Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico, un esempio di teatro e cinema civile, che racconta la storia vera di una ragazza di ventidue anni uccisa dalla camorra nel 2004, nel quartiere di Secondigliano. Cosa ti sei portata dietro da questa esperienza?

Tutto è iniziato durante la prima stagione di Gomorra, quando in parallelo alla messa in onda passavano su Sky Atlantic dei cortometraggi: uno di questi era Centoquattordici diretto da Massimiliano Pacifico che raccontava la storia di Gelsomina Verde, vittima numero centoquattordici dall’inizio della faida di Scampia. In quel corto interpretavo l’amica che raccontava la storia, ma già alla fine delle riprese sentivamo l’esigenza di approfondire quella vicenda: così è nato il lungometraggio dove avevo il ruolo di Gelsomina. Recitare alcune scene mi faceva molto male, a volte la notte non riuscivo a prendere sonno sapendo che all’indomani avrei dovuto interpretarle, ma questo mi ha aiutata a dare il taglio giusto. Si è parlato molto di lei, anche sui giornali e in TV, non sempre in maniera corretta. Poterla raccontare con l’aiuto del fratello, Francesco Verde, è stato il nostro piccolo dono alla memoria di questa ragazza morta in modo feroce. È stato un riscatto, se così si può dire, meritava di essere raccontata nel modo più onesto possibile.

Hai lavorato come acting-coach nella terza stagione della serie L’amica geniale, diretta da Daniele Luchetti, e poi sul set de La vita bugiarda degli adulti, la serie prodotta da Netflix Italia che vede alla regia Edoardo De Angelis. Come è stato lavorare nella serialità italiana?

Lavorare a L’amica geniale è stato non stupendo, di più, qualcosa che avrei desiderato che non finisse mai. Guido de Laurentiis, il produttore, è una delle persone più generose e disponibili che io abbia mia conosciuto, Daniele Luchetti, oltre ad essere un regista strepitoso, è una persona dall’anima buono, ci siamo fatti un sacco di risate e mi ha insegnato tantissime cose. Nella vita bugiarda degli adulti invece sono la acting coach personale di Valeria Golino, l’avevo conosciuta sul set di Fortuna di Nicolangelo Gelormini. Già all’epoca era nata una grande sintonia tra noi, sono davvero contenta di lavorare con lei e di poter assistere al suo processo creativo, è stato molto facile “metterle il napoletano in bocca”. Poi ho scoperto che De Angelis è un regista rock, è adorabile il modo in cui dirige gli attori e riesce a tenere il set. Non ci avevo mai collaborato, è un lusso lavorare con persone con le quali ti trovi così bene, spero di replicare.

Dopo il successo di entrambi i tuoi corti, ti senti pronta a esordire con un lungometraggio?

Per quanto riguarda il lungometraggio siamo in fase di sceneggiatura e abbiamo già degli accordi di produzione. Amo le sfide e questa è forse la sfida più grande, non vedo l’ora di buttarmici a capofitto ma, al momento, sono impegnata come attrice sul set di Mare fuori, sono il nuovo agente di polizia del PM. C’è bisogno di tempo, in questi casi: il mio motto è “senza fretta ma senza sosta” per cui piano piano le cose arrivano, si fanno i passi giusti e nel frattempo si costruisce quello che si vuole.

Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore

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Regista e produttrice appena 25enne, Letizia Zatti ha studiato alla Luchino Visconti di Milano e si è fatta notare al RIFF con la storia di una donna che si introduce di nascosto nella casa del suo ex compagno, quella che un tempo era stata di entrambi. Nel corto Acqua che scorre non porta veleno, Matilde soffre per l’amore perduto e Zatti cuce sulla protagonista una regia intima e sensoriale, utilizza palette di colore e spazi come strumenti narrativi realizzando un equilibrio perfetto tra estetica e contenuto.

Nonostante la vocazione registica hai studiato produzione alla Luchino Visconti di Milano. Perché questo percorso?

Sono stata presa alla Visconti a 19 anni, subito dopo il liceo. Ero piccola e quindi ho scelto produzione perché in me convivono creatività e pragmaticità. Col senno di poi è stata la scelta più giusta: mi ha permesso di lavorare su set pubblicitari e cinematografici. L’incontro fondamentale è avvenuto con l’aiuto regista Miguel Lombardi, che venne a farci un corso di aiuto regia. A lui devo praticamente tutta la mia esperienza sui set, è stato il mio maestro. Poi, in realtà, non ho mai avuto il mito della regia. La vocazione registica mi si è rivelata set dopo set, è semplicemente il ruolo in cui più mi sento me stessa. Senza aver studiato produzione però, probabilmente sarebbe stato tutto più improvvisato.

 

In Acqua che scorre non porta veleno Matilde ripercorre gli stessi spazi, annusa l’odore dell’ex dalla sua camicia e si immerge nella vasca piena d’acqua, dove un tempo facevano il bagno insieme. La casa-nido è quasi un terzo personaggio. Che tipo di lavoro hai fatto sugli spazi e con l’attrice protagonista?

È proprio così. La storia narra la fine di una relazione, ma ancora di più narra un legame profondo con la casa. Era questo il tema che volevo approfondire. Ognuno di noi vive la propria casa in modo diverso: c’è chi la considera solo un tetto sotto cui dormire e c’è chi invece cura ogni dettaglio. C’è chi di case ne ha cambiate trenta e chi invece vive tutta la vita nello stesso posto in cui è nato e cresciuto. Io ho vissuto in dodici case diverse nell’arco di 24 anni e quella che si vede nel corto è stata la prima casa che ho veramente sentito mia. L’ho fotografata spesso, per cui scegliere le inquadrature è stato abbastanza facile, la scelta della macchina fissa voleva restituire proprio questo terzo punto di vista, quello delle mura della casa. L’acqua poi è un elemento subdolo: si insinua, penetra lentamente e rovina un’abitazione facendola marcire in profondità. Ma ha anche un alto contenuto simbolico: lenisce, lava, cura. Emilia [Emilia Scarpati Fanetti, l’attrice protagonista] ha da subito capito cosa volevo raccontare, era un tema che sentiva vicino perché aveva vissuto un’esperienza simile. Ho voluto fare tutte le prove in casa, anche quella costumi con gli attori, in modo che avessero familiarità con il luogo.

Acqua che scorre non porta velenoLe cose che ci passano per la mente sono quasi sempre inconfessabili, il voyeurismo di Matilde, la sua difficoltà nel lasciar andare, ci mettono di fronte alla sua ferita. Il tuo è un cinema intimista, fatto di sentimenti quotidiani e cose minuscole. Cosa aspiri a raccontare e in quale forma?

Il cinema che voglio fare è un cinema intimo, ricco di un sottotesto che rende onore più ai volti e alle piccole emozioni che alle grandi gesta. Sono affascinata dalle dinamiche psicologiche che si creano dietro le relazioni umane e ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono. Per ora sento che questa è la mia via: storie semplici ma con un universo dietro, un punto di vista chiaro e una forma estetizzante ma mai fine a se stessa. Ogni giorno che passa cambiamo e ci evolviamo, quindi chissà, un giorno potrei cambiare del tutto approccio.

Cosa ti auguri per il cinema post-pandemico?

Non ho particolari storie che vorrei vedere, tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto. Vorrei vedere film che più che focalizzarsi sul cosa raccontare, si concentrino sul come farlo. Spero vivamente che la visione in sala riesca a sopravvivere nella sua essenza popolare e che non diventi solo per un pubblico d’élite. Fare i film per un’élite non mi interessa, la mia missione è quella di arrivare a tutti.

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Le ninfe dark di Isabella Torre

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Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre ha nel suo carnet anche la collaborazione alla trilogia di Jonas Carpignano (Mediterranea, A Ciambra e A Chiara, fresco di ben 6 candidature ai David di Donatello 2022).

Hai sempre lavorato davanti e dietro lo schermo: regia, produzione e recitazione. Sei alla ricerca della tua dimensione o l’hai trovata nel movimento fluido tra i vari ruoli?

Mi sento di dire di esserci quasi “nata e cresciuta” sul set. Mia madre, costumista di cinema, mi ha portato alle riprese di tutti i suoi film fin da piccolissima ed è per questo che ho sempre ritenuto il set cinematografico un po’ come casa, anche più di quanto non lo fosse la mia casa reale. Per quanto riguarda Ninfe recitare, oltre che dirigere, è stata una necessità quasi pratica (essendo un corto molto sperimentale, girato per sondare il terreno per un lungometraggio sullo stesso soggetto) e interpretare le ninfe è stato un lavoro molto duro: dalla nudità nel gelo di febbraio, alle lunghe notti nel fango e nella terra… non avrei voluto mettere nessun altro in quelle condizioni terribili se non me stessa. In Luna piena invece la necessità era un po’ diversa, più che altro catartica. Questo cortometraggio è molto personale, ispirato a quello che ci è successo mentre giravamo A Chiara di Jonas Carpignano e tutto è cambiato a causa della pandemia. Il bagaglio emotivo che ho affidato a Lina era più che altro il mio, per me aveva senso affrontare questa avventura in prima persona. In futuro deciderò istintivamente come ho fatto sino a ora se sarà il caso di interpretare oltre che dirigere, ma per la versione lungo di Ninfe penso che mi dedicherò unicamente alla regia.

C’è stato un momento decisivo nella tua carriera? Qualcosa che ti ha fatto capire di essere sulla strada giusta?

Vari momenti, direi. Innanzitutto quando ho realizzato che il gruppo di collaboratori che abbiamo creato in questi anni girando i film di Jonas (con cui ho lavorato per tutta la trilogia) è come una vera e propria famiglia. D’altra parte come dicevo prima, il set per me è la mia tana, collaborare con qualcuno con cui ti senti affine e sentire di essere parte di un’operazione comune dà senso a tutto. Un altro momento illuminante è stato mentre giravo Ninfe. C’erano stati dei problemi in un magazzino e tutta la pellicola che avevamo girato era rovinata. L’indomani tornammo per rigirare le scene in quel piccolo villaggio abitato unicamente da una famiglia pastori. Era l’alba e mi aspettavo che ci mandassero a quel paese, invece ci hanno accolto incredibilmente contenti e calorosi; d’improvviso il cielo si fece tutto rosa e l’aria profumava di montagna, girammo in una sorta di idillio. Pensai: “Questa è la magia del cinema”.

Ninfe di Isabella Torre
“Ninfe”, di Isabella Torre.

Come funziona il tuo processo creativo?

Di solito è tutta colpa o merito del mio inconscio. Sono una persona piuttosto inquieta da sempre, il mio mondo interiore può essere sovrastante, se non lo libero rischio davvero e questo è il mio modo per farlo. Poi naturalmente le persone sono l’altra faccia della medaglia: sono piena di personaggi nella mia testa ispirati alle persone che mi capita di conoscere, anche quelli vanno liberati ogni tanto per evitare “assembramenti”.

Ninfe mostra la terra d’Aspromonte come un luogo mistico, incantato e a tratti spaventoso. L’archeologo e i suoi due uomini sono lì per disseppellire un tesoro, ma dal terreno finisce per venir fuori molto di più, tra la nebbia emergono tre ninfe che causano una serie di misteriosi avvenimenti.

L’Aspromonte è un luogo unico. Una terra fatta di contrasti, con atmosfere che ti rapiscono e la nebbia… la nebbia è un’entità a sé. Sono arrivata in Calabria sette anni fa e ho sempre frequentato l’Aspromonte, eppure non c’è una volta che abbia vissuto un’esperienza simile all’altra lassù. La verità è che la potenza della natura di quel posto ha influenzato anche la gente che lo abita, che ne ha assunto le stesse contraddizioni e la stessa unicità. La componente surreale del film è il mio modo per indagare anche a livello sociale e culturale questa terra.

Sia Luna piena che Ninfe hanno in comune una forte simbologia naturale, una forza misteriosa ma reale che ristabilisce l’ordine e riprende il controllo su tutte le cose in modo implacabile.

Anche qui viene tutto dal mio inconscio: il mondo in cui viviamo e le dinamiche che regolano la nostra vita sono motivo di grande ansia per me. Sono profondamente convinta che dovremmo tutti ritornare alla terra, allo scandire del tempo dettato dalla natura. È l’unica vera bussola che potrebbe aiutarci a riprendere le redini delle nostre vite. Mentre giravamo Ninfe ci ritrovammo ad aspettare che la famiglia del villaggio si svegliasse per iniziare a girare: il giorno prima ci avevano detto a che si sarebbero svegliati, ma invece dormivano ancora tutti. Ecco più, tardi risolvemmo l’arcano: loro non cambiano mai l’orologio a seconda dell’ora legale o solare, hanno un unico riferimento per dare inizio alla loro giornata, ovvero, come dicono loro, “le bestie”. Quando si svegliano le capre, inizia la giornata. Non c’è altra convenzionalità a regolare il giorno e la notte. Lo trovo magnifico

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Il cinema reale e intimista di Saverio Cappiello

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Per il giovane regista pugliese Saverio Cappiello la provvidenza è la mano che guida sia il cinema che la vita; la camera può solo fermare gli istanti di felicità concessi poco prima che tutto crolli, attimi che si codificano in un linguaggio cinematografico sperimentale ma sempre puro.

Andando a fondo nei suoi lavori come Mia sorella, Jointly Sleeping in Our Own Beds, La vita mia e Celentano non può andare in barca, scopriamo che il nodo nevralgico, il fulcro del suo cinema reale e intimista, sono le relazioni e a volte il loro fallimento. Al centro delle storie c’è sempre una precisa sfumatura di solitudine che accomuna Pauline, Celentano, Vanni, la nonna che scorda (o dice di aver scordato) le atrocità dei campi di concentramento e Saverio stesso.

Qual è stato il tuo primo approccio al cinema?

Sin dai tempi del liceo ho avuto la necessità di scrivere racconti e poesie. Era un’esigenza forte perché la scrittura era un filtro che mi permetteva di trovare la bellezza nella realtà che mi circondava. Man mano che pubblicavo i miei primi testi su riviste ai tempi dell’Università, ho avuto la prima forte urgenza di cambiare mezzo. Il pubblico che ne usufruiva era assai specifico e mi dispiaceva che questa mia ricerca della bellezza in quei luoghi venisse totalmente persa dalle persone che mi avevano ispirato. Non voglio entrare troppo nel merito, ma penso che il cinema abbia avvicinato i protagonisti all’opera.

In Jointly Sleeping in Our Own Beds, i due protagonisti (tu e Pauline) vivono una relazione molto moderna, via chat e Skype. Ci sono varie gradazioni di distanza tra te e lei: la lingua, lo schermo, la posizione geografica, eppure dormire insieme è una vicinanza così intima da annullare di colpo ogni barriera. Più che un film di critica sociale, mi sembra la visione poetica di un discorso amoroso.

Sì, dici bene. Non volevo raccontare niente di più che una storia d’amore. Sono consapevole che la peculiarità della relazione che ho avuto con Pauline possa suscitare riflessioni sulla società e sono sempre contento di sentirmele dire, ma non è quello che ho voluto raccontare. Anzi, ho cercato di dimostrare che la magia della realtà digitale esiste nella stessa misura della realtà fisica. Forse c’è qualcosa di ancora più bello.

Scena da “Jointly Sleeping in Our Own Beds” di Saverio Cappiello.

Il tuo è un cinema del reale intimistico, caratterizzato da una visione molto personale del presente. Per Pasolini il cinema era un’esplosione del suo amore per la realtà, per Truffaut invece era un tradimento. Tu la realtà la racconti o la tradisci?

I cineasti sono sempre stati ossessionati dalla realtà. Il documentario negli ultimi venti anni – da quando è entrato di prepotenza nei festival e nelle sale – ha mostrato quanto l’idea che avevamo della realtà fosse limitata. In un documentario possono capitare cose impensabili, coincidenze assurde che non potresti mai permetterti di scrivere in un film di finzione perché considerate inverosimili. E la verosimiglianza è un codice che ci siamo costruiti nel cinema per capirci a vicenda agevolmente, ma non ha niente a che fare con ciò che è reale. Siamo ossessionati, come registi, perché tendere alla realtà è come allungare il braccio verso l’infinito. Per me non è raccontabile nella sua interezza ed è presuntuoso pensare di poterla tradire, perché si tradisce già da sola, continuamente.

Ti sei prestato anche come attore per il videoclip di Adesso, brano sanremese di Diodato e Roy Paci che affronta la stessa tematica di Jointly Sleeping, di cui sei tu stesso protagonista. Essere diretto da qualcun altro è un’esperienza che rifaresti?

Non credo di essere un buon attore e nemmeno mi piace particolarmente essere diretto da altri registi, a meno che non mi lascino molta libertà. Le esigenze di quel videoclip però mi avevano dato la possibilità di improvvisare e di lavorare con Sara Mondello. Avevo presentato da pochi mesi Jointly Sleeping a Pesaro ed ero fresco dell’esperienza. Credo, con il videoclip, di aver chiuso il ciclo di ricerche sull’amore a distanza.

Sei co-fondatore del collettivo di registi Santabelva, di che si tratta?

Santabelva è nato quando vivevo a Milano. È un collettivo formato da Niccolò Natali, Henry Albert, Gianvito Cofano, Nikola Lorenzin e me, un patto di sangue dove ci supportiamo sempre, unendo le energie anche sul lavoro, per sentirci meno alienati. Un problema comune quando sei in città come Milano. Con loro ho provato una regia a quattro teste, con il montaggio di un altro Santabelva ad honorem, Alessandro Belotti, su un documentario dal titolo Corpo dei giorni. Il documentario intreccia storie di vari personaggi confinati in un casale sperduto, tra i quali un ex terrorista all’ergastolo.

Mi parli delle esperienze fatte nelle residenze artistiche?

È un’opportunità straordinaria per i giovani autori. Ho realizzato Mia sorella all’interno di una residenza artistica a Enziteto dove, però, giocavo in una zona che conosco molto bene e grazie al quale ho avuto diversi riconoscimenti, tra cui anche la candidatura ai David di Donatello. Una sorpresa, visto che il budget non è mai il forte delle residenze artistiche, ma grazie a questo spirito di adattamento emergono spesso altre qualità dei lavori come la sincerità e l’urgenza. Laguna sud, la residenza artistica di Andrea Segre, è stata un’altra sfida perché andavo in un posto che non conoscevo affatto, Chioggia. Lì ho incontrato Loredano (aka Celentano) che guardava il mare fischiettando un motivo malinconico e in pochi giorni ho creato una storia, girato e montato tutto da solo. Il tutoraggio di Andrea Segre è stato indispensabile, tra l’altro in Celentano non può andare in barca ho lavorato con diversi personaggi comparsi nel suo film Io sono Li.

Scena da “Celentano non può andare in barca” di Saverio Cappiello.

La Calabria Film Commission insieme a Picture Show e Verso Feature sta producendo la tua opera prima, L’altra via, cosa ci puoi dire di questo progetto?

L’altra via è la storia di un incontro tra un calciatore disilluso di serie C, che entra nel mondo del calcioscommesse per mantenere il suo stile di vita, e un ragazzino che vede in lui un idolo, all’oscuro degli affari con la malavita locale. È un film che ha come sfondo i giorni precedenti all’inizio del mondiale di calcio del 1990, nella periferia di Catanzaro. Mi piacerebbe creare un tempo sospeso tra il passato e il presente, un 1990 con i pezzi dei Gazosa alla radio, e la vecchia poesia del calcio dove l’atmosfera viene retta dalle relazioni umane e sospinta da un vento di realismo magico.

Hai altri film in cantiere?

C’è un film che ho sempre voluto fare ed è sempre stato in cima ai miei pensieri. È una storia che ho scritto dieci anni fa, una stesura molto sofferta. È tuttora sofferto e complesso il suo adattamento cinematografico che stavo realizzando con Martina Di Tommaso, scomparsa recentemente. Lei più di ogni altro ha creduto in questo soggetto. La bella è una fiaba nera sospesa nel tempo. Parla di Laura che vive a Ponto, una città pugliese, con il fratello Tano. Qui persiste un’antica morale che si tramanda di generazione in generazione e che vede di cattivo occhio l’etica moderna, improvvisamente accelerata dall’arrivo di internet. Laura, dunque, che è figlia di questa nuova etica, si trova a scegliere se credere nella magia e accettare l’antica morale, oppure fuggire distante nella favola della modernità, che si dimostra anch’essa malata e feroce.

Mattia Epifani e il monaco ortodosso formato Instagram

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Il leccese Mattia Epifani, classe ’85, è attivo come regista dal 2010. Rockman, il suo primo documentario, è il progetto che ha dato il via alla collaborazione con Mattia Soranzo e Corrado Punzi della Muud Film. Nel 2015 ha girato Il successore, facendosi notare nei festival del panorama internazionale, a questo lavoro sono seguiti i cortometraggi Et in terra Pacis (2018) e God Dress You (2021), una co-produzione Italia/Grecia in concorso al Clermont-Ferrand. Mattia Epifani porta avanti un’idea di cinema innovativa ma aderente alla realtà, tesa a svelare le verità nascoste dell’animo umano. Un segreto – che sia esso innocuo, minuscolo o pericoloso – è il cuore pulsante di tutte le storie.

In God Dress You racconti la parabola di un monaco ortodosso che mostra sui social la sua passione per l’alta moda. Pater Athanasius venera la bellezza degli oggetti come venera il suo Dio, in un culto capitalistico formato Instagram. Sono le cose i nostri nuovi santi?

In una condizione di isolamento anche le cose più effimere possono essere un mezzo per mantenere un contatto con gli altri e diventare addirittura veicolo di un’ideale di bellezza ultraterrena o per lo meno così la pensa il protagonista Pater Athanasius. Il problema posto da God Dress You non è tanto la sostituzione dell’oggetto della fede, quanto le conseguenze dell’utilizzo dei social. Essendo totalizzanti e invasivi iniziano a nutrirsi del nostro tempo compromettendo l’attenzione, gli equilibri quotidiani, le idee e di conseguenza anche i nostri valori.

L’idea è nata da un articolo di giornale, cosa ti ha colpito di questa storia?

Ci è sembrato da subito un ottimo punto di partenza per raccontare una storia su come la tecnologia trasforma la nostra intimità. Insieme allo sceneggiatore Francesco Lefons, abbiamo pensato alla dimensione del monachesimo ortodosso ed è iniziata poi una ricerca sul campo nelle zone della Grecia occidentale. Siamo stati accolti dai monaci del monastero Panagia Mprousiotissa, a parte il protagonista che è interpretato dal performer Panagiotis Samsarelos, tutti gli altri personaggi sono veri monaci.

Il successore di Mattia Epifani
“Il successore”, documentario di Mattia Epifani.

Qual è il tuo processo creativo?

Parto dall’idea che una storia per essere raccontata, debba avere le potenzialità per essere universalizzata. Anche la più individuale, la più intima, deve sempre fare da specchio a una storia collettiva. Per questo anche vicende come quella di Alfieri Fontana ne Il successore o di Pater Athanasius in God Dress You per me esprimono qualcosa che va al di là di ciò che raccontano. In questa ricerca è necessario sempre partire dalla realtà e mantenere con essa un contatto durante tutta la fase di scrittura, di riprese e anche di montaggio. Ho in questo la fortuna di lavorare con una squadra consolidata che condivide con me questa missione.

Muud Film è un collettivo, lavorano con te il regista Corrado Punzi e il montatore Mattia Soranzo, come nasce e quale idea di cinema portate avanti?

Muud è nata nel 2009 come progetto di formazione audiovisiva, io e Corrado Punzi siamo subentrati qualche anno dopo. Oggi Muud, oltre che una casa di produzione, è una sorta di collettivo allargato del quale fanno parte anche Francesco Lefons, Giorgio Giannoccaro, Gianluigi Gallo e Gabriele Panico. Quello che ci accomuna è la ricerca di un cinema che nasce e si sviluppa a contatto con la realtà. Cerchiamo storie, personaggi o luoghi capaci di rivelare un qualche tipo di verità nascosta, una verità che diventa poi il cuore del film. Un modo di intendere il cinema che si traduce in una pratica quanto più diretta e istintiva possibile, che implica l’impiego di troupe molto ridotte, spesso solo camera e suono.

Stai lavorando a qualcosa?

Insieme a Francesco Lefons sto sviluppando la scrittura di un film ambientato nel Carcere Borgo San Nicola di Lecce e tratto da un romanzo autobiografico. È un progetto nato dall’esperienza fatta come operatore culturale con la compagnia Io ci provo. Durante gli anni di lavoro a Borgo San Nicola ho iniziato a pensare a un film che potesse raccontare l’esperienza detentiva come momento di demolizione dell’individuo e la struttura carceraria come luogo di una possibile ricostruzione del sé. Ho portato avanti nel tempo una ricerca su storie e personaggi appartenenti all’universo carcerario finché non ho incontrato questo libro autobiografico che è la sintesi di tutto quello che vorrei dire su quel mondo.

 

Valia Santella, quando il cinema è scrittura

Valia Santella ha scritto pellicole di successo come Il traditore (trionfatore l’anno scorso ai David di Donatello) e Fai bei sogni di Marco Bellocchio, Euforia di Valeria Golino, Mia madre di Nanni Moretti, Napoli velata di Ferzan Ozpetek. Una carriera svolta tutta sul campo, con una capacità maieutica rara che le ha permesso di tirar fuori i migliori film possibili dalla letteratura, ma anche dai registi che ha affiancato. Il suo ultimo lavoro è la sceneggiatura di Tre piani (qui il trailer), il nuovo film di Nanni Moretti tratto dall’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, scritta con Federica Pontremoli e Nanni Moretti: nel cast lo stesso Moretti, Margherita Buy e Riccardo Scamarcio. I tre piani di un palazzo alle porte di Tel Aviv sono stati trasportati a Roma, come le tre famiglie borghesi protagoniste, per permetterci di scoprire che i tre piani dell’anima non sono dentro di noi, ma nello spazio tra noi e l’altro e nella difficoltà di raccontare delle storie che diventano tali solo se c’è qualcun altro ad ascoltarle.

So che è anche insegnante di sceneggiatura, con un approccio laboratoriale che sono certa sia stato molto apprezzato dai suoi studenti di Bobbio, e che sarà molto apprezzato anche nei suoi corsi futuri, come quelli che terrà alle Officine Mattòli. Cosa può dirmi di questa esperienza?

Sono arrivata alla scrittura cinematografica attraverso un percorso un po’ particolare. Ho iniziato prima a lavorare sul set, come segretaria di edizione e aiuto regista, poi ho firmato alcune regie e, infine, è arrivata la scrittura per altri. Sono sempre stata mossa dalla passione per il cinema, dalla curiosità e dalla voglia di imparare. Ancora oggi queste caratteristiche mi permettono di affrontare il mio lavoro con passione. Durante i corsi di sceneggiatura, dico sempre che io non ho regole o metodi da insegnare, ma, semplicemente, posso mettere la mia esperienza al servizio del lavoro che faremo insieme durante il corso.

Ha una routine, delle abitudini di scrittura? Le riunioni di sceneggiatura ora sono online ma dal vivo immagino che siano fatte da dinamiche molto diverse, da momenti morti, di decompressione.

Non ho una routine. Mi piace lavorare al mattino molto presto, ma ogni tanto mi capita di fare “nottata” come si faceva a scuola. Le riunioni online ci hanno in qualche modo salvato, nel senso che ci hanno permesso di non interrompere il dialogo con il gruppo di scrittura. Alla fin fine, soprattutto tra persone che si conoscono e hanno già lavorato insieme, le dinamiche non cambiano molto e si riesce a lavorare bene comunque. Il problema del lavoro online è che si tende a fare incontri, riunioni, appuntamenti a ciclo continuo, senza soluzione di continuità. Le pause, invece, sono molto importanti, spesso le idee arrivano proprio appena hai lasciato la riunione e stai prendendo l’autobus per tornare a casa. Non uscire più dalla propria casa ci porta a guardare sempre meno il mondo, e questo è gravissimo.

Nell’intervista ai David su Il traditore, Marco Bellocchio parla di una linea sottile tra la psicologia di un mafioso, come Tommaso Buscetta, e la nostra. Che lavoro compie per scrivere di un personaggio così controverso?

Lavorare a un film così importante come Il traditore è stata un’esperienza per me molto formativa. Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca per riuscire ad avvicinare un personaggio così scivoloso e lontano da noi. Da spettatrice non amo i film in cui gli autori prendono una distanza o giudicano i propri personaggi, ma qui la questione era diversa: non si voleva in nessun modo fare l’apologia di Buscetta. Quello che abbiamo provato a fare è stato da una parte cercare gli aspetti della sua vita e della sua personalità che fossero comprensibili a tutti, come il suo rapporto con i figli, con la moglie, con la sua famiglia d’origine e il grande tema del tradimento, dall’altra parte, però, abbiamo messo in evidenza tutte le colpe e i crimini commessi da Buscetta.

Verso il 2010 ha fatto parte del Maude – il Movimento delle lavoratrici dello spettacolo. Sono passati 10 anni, c’è stato il Me Too, ma le statistiche degli studi di genere mostrano un gender gap ancora profondissimo. Cosa ne pensa da professionista e attivista coinvolta?

Il cinema e l’industria cinematografica sono specchio della società che li produce. Se guardiamo le altre industrie italiane, culturali e non, ritroviamo gli stessi problemi. Credo che la questione sia molto profonda e vada affrontata su diversi piani. Da una parte bisogna fare un lavoro culturale che parte dalle scuole, dalle famiglie e dalle relazioni. Dall’altra realmente la politica deve garantire pari opportunità a tutte e tutti.

Valia Santella
Euforia, opera seconda di Valeria Golino, sceneggiata anche da Valia Santella.

Eppure è riuscita a ritagliarsi uno spazio, a lavorare con registe come Valeria Golino e sceneggiatrici come Francesca Marciano e Federica Pontremoli: in che modo sono nate queste collaborazioni?

Lavoro con molte colleghe donne, anzi, forse lavoro più spesso con donne che con uomini, ma quante registe ci sono? Quante direttrici della fotografia? Nell’industria cinematografica questi due ruoli sono considerati ruoli di potere e di responsabilità e vengono affidati ancora troppo poco alle donne. Poi, per come la vedo io, il lavoro da fare è proprio quello di abbattere una certa idea del potere. Troppo spesso si ha ancora un’immagine del regista come un generale che deve comandare il set. Io credo, invece, che i film siano opere collettive, il regista è qualcuno che ha una visione del mondo, un punto di vista che propone ed elabora con i suoi collaboratori.

Nanni Moretti raccontava che all’inizio della sua carriera aspettava che uscissero le recensioni in edicola insieme a un amico, poi ha quasi smesso di leggerle e non ha mai replicato neanche a quelle che sembravano attacchi personali. Che rapporto ha lei con la critica?

Questa domanda apre un discorso molto ampio. Negli ultimi anni, la critica è andata via via sparendo dai quotidiani, e non parlo solo di quella cinematografica, ma anche di quella teatrale, letteraria. Nello stesso tempo sono proliferati blog e siti in cui possono trovarsi cose molto interessanti o molto banali. Diciamo che da spettatrice e lettrice tendo a leggere poco prima di vedere un film o leggere un libro, preferisco non sapere nulla. Rispetto ai film a cui lavoro reagisco in un modo molto prevedibile: sono felice quando se ne parla bene e dispiaciuta, o incazzata, se se ne parla male. Ci sono, però, alcune critiche negative che ti fanno ragionare sul tuo lavoro e, una volta superata la reazione emotiva, possono essere utili, anche se la ferita resta aperta. Bisogna pensare che noi dedichiamo molto tempo alla realizzazione di un film e, quindi, una critica negativa coinvolge non solo il tuo lavoro, ma un pezzo della tua vita.

La maggior parte delle sue sceneggiature sono degli adattamenti, partono dalla letteratura. Cosa deve avere un libro per colpirla e per spingerla a adattarlo?

Credo che gli adattamenti più riusciti siano quelli in cui è evidente l’incontro tra due mondi, due poetiche, due linguaggi. Nella trasposizione cinematografica di un libro molte cose cambiano, e devono cambiare, ma credo che quello che resta integro sia proprio il nucleo più profondo dell’opera di partenza. Pensiamo a un classico come Apocalypse Now rispetto al romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra: diversi contesti storici ma il cuore del racconto è assolutamente lo stesso.

C’è un film o anche una sola scena alla quale è affezionata più di altre? Alla quale ripensa?

Mi capita di ripensare al lavoro che ho fatto precedentemente solo se ho un’occasione per farlo, come un incontro o una lezione, ma non in astratto. Sono affezionata a diversi lavori, anche perché sono legati alla mia vita e alle persone con cui li ho fatti. Più che a una singola scena sono molto legata alla struttura di Mia madre, di Nanni Moretti. È un film che si muove con molta libertà tra presente e passato, realtà, sogni, immaginazione e Moretti riesce a farlo senza che questi passaggi appaiano mai forzati o voluti.

So che non può dire molto, ma da lettrice di Eshkol Nevo ho qualche curiosità sull’adattamento. Come avete scelto Tre piani e cosa lo lega a Nanni Moretti e a lei?

In Tre piani c’è una grandissima tensione morale: i tre personaggi principali si trovano a vivere profondi conflitti etici. Il rigore etico, la responsabilità che ogni essere umano ha nel compiere le proprie scelte, sono temi che hanno sempre fatto parte del cinema di Nanni Moretti e hanno anche contraddistinto la sua partecipazione alla vita pubblica del nostro paese. L’incontro tra questo libro e Nanni è stato immediato.

Cristina Spina: il mondo della danza in 500 Calories

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Regista italiana residente fra Roma e New York, Cristina Spina ha iniziato la sua carriera come danzatrice e attrice, lavorando con Luca Ronconi, Massimo Castri e Carlo Cecchi. E proprio una ballerina è la protagonista del suo ultimo, coraggioso corto, 500 Calories.

Dopo l’esordio sui palcoscenici italiani, Cristina Spina ha debuttato in America quando è stata scelta dalla regista Martha Clarke per un ruolo da protagonista nello spettacolo Kaos di Frank Pugliese al New York Theatre Workshop. Ha proseguito con gli studi alla NYU Tisch School of Arts per iniziare infine a lavorare sui set di Bette Gordon e delle serie House of Cards e City on a Hill. Nel 2016 ha diretto il suo cortometraggio d’esordio E così sia, vincitore del RIFF, e nel 2020 ha scritto e diretto 500 Calories (qui il trailer). Con una regia evocativa e liminale da favola nera Cristina ci parla di un confronto tra un’insegnante e un’ex allieva in cerca di risposte, del trauma generato da un abuso e dai dolori che sopravvivono al tempo tenendoci in ostaggio.

Sei passata dalla danza, al teatro e al cinema, prima come attrice e poi lavorando sui set di film e serie dal successo internazionale. New York ha segnato una svolta nella tua carriera.

Sì, a New York ho incontrato molti professionisti straordinari, non pongono nessun limite alla creatività. Così ho trovato la forza e il coraggio di iniziare a raccontare le mie storie e il cinema per me è il mezzo migliore per esprimere la mia visione. Ma data la mia formazione principalmente teatrale, ho deciso di studiare e, durante una calda estate newyorkese, ho frequentato un corso di regia cinematografica alla Tisch School of Arts di New York e da lì ho capito davvero che volevo essere una regista di cinema. È stato come innamorarsi. Ho subito scritto e diretto E così sia, il mio primo cortometraggio con Tommaso Ragno, Maria Roveran e Sandra Toffolatti, girato in Italia con la fotografia di Stefano Falivene.

Hai continuato a lavorare anche come assistente, che aria si respira sui set americani?

Ho avuto la fortuna di fare un’esperienza magnifica sul set della sesta stagione di House of Cards: ero l’ombra del regista Alik Sakharov, osservavo e imparavo il lavoro di regista di serie TV partecipando al set e alle numerose riunioni che si devono fare con tutti i reparti. Poi, sul set della serie tv City on a Hill ho assistito la regista israeliana Hagar Ben-Asher. Devo dire che l’organizzazione e i talenti che ci sono su questi set sono impressionanti, mi reputo molto fortunata ad aver fatto queste esperienze.

Citando Wisława Szymborska, che ha ispirato un tuo spettacolo teatrale: «Tutte le nostre faccende, diurne e notturne, sono politiche». Pensi che il tuo cinema sia politico?

Condivido con Szymborska che ogni faccenda sia in qualche modo politica, la scelta di vita, il tipo di lavoro che si vuole fare; creare film di qualità in un mondo che pensa solo al consumismo e al denaro è di per sé un atto politico. Ma penso anche che l’arte non debba essere politica nel senso stretto del termine.

In 500 Calories parli di un abuso che la protagonista ha subìto da bambina. Il confronto tra l’ex allieva di danza Tères e la sua insegnante Evangeline è molto forte.

È un progetto a cui tengo molto, nel corto ho raccontato solo un momento della storia, l’incontro dopo 20 anni tra l’insegnante e l’allieva: mi interessava il rapporto tra due donne di generazioni diverse, esplorare come l’insegnante, pur sapendo, non abbia mai detto nulla diventando complice dell’abuso. Mentre realizzavo il corto sapevo già che avrebbe fatto parte di un progetto più grande, perché la storia è densa e piena di imprevisti. Ho iniziato a scriverla sette anni fa, ma soltanto ora sono pronta a raccontarla nella versione estesa.

Il cortometraggio è di ispirazione autobiografica?

Sì, l’ispirazione nasce da un evento realmente accaduto quando avevo tredici anni. La mia insegnante di danza classica mi mandò da un dietologo che mi prescrisse una dieta da 500 calorie, persi 10 chili nel giro di tre mesi per poter essere ammessa all’esame di fine anno della scuola di ballo. Poi nel giro di tre mesi ne ho ripresi 15 di chili, e la storia continua, ma mi fermo qui. Un’altra fonte d’ispirazione per la trasformazione in lungometraggio viene anche dal caso delle ginnaste americane abusate dal medico Larry Nassar.

La tua esperienza nei vari mestieri del cinema che tipo di regista ti ha resa?

Venendo dal teatro ed essendo anche attrice, amo lavorare con gli attori: secondo me bisogna rispettare le diversità di approccio al lavoro, cogliere l’invisibile, sorprendere sempre e farsi sorprendere. Per il resto la pre-produzione è molto importante per me: storyboard, ricerca visuale, entrare in sintonia con il direttore della fotografia, scegliere le location e la troupe. Cerco sempre di circondarmi di persone che stimo e ammiro, la collaborazione con il compositore Rossano Baldini, per la colonna sonora originale, in questo senso è stata una scoperta bellissima. Quando giro praticamente non dormo mai, sono troppo eccitata, ci sono talmente tante cose da fare.

Stai lavorando anche al lungometraggio Rose is a Rose, di cosa tratta? Hai altri progetti?

È una dramedy, parla di immigrazione e sfata il mito del sogno americano. Racconta quanto sia difficile essere un’artista immigrata a New York, rivela intimamente il senso di struggimento e solitudine che una metropoli del genere può suscitare in una ragazza straniera. Alba Rohrwacher e Bobby Cannavale hanno già dato la disponibilità per il cast. Ho anche iniziato a scrivere un trattamento per una serie, spero presto di trovare produttori ispirati e agguerriti!

Il Collettivo Asterisco e la mucca più famosa di Instagram

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Paolo Bonfadini, Irene Cotroneo e Davide Morando sono tre giovani sognatori che hanno unito le forze per farsi spazio ai margini dei due poli istituzionali del cinema e della TV. Facendosi strada nella periferia del cinema italiano, hanno dato il via a un’attività itinerante e dinamica che si è poi concretizzata nel Collettivo Asterisco: una realtà giovane e fluida che ha permesso al trio di lavorare a videoclip, commercial, documentari e il mockumentary Gea – L’ultima mucca. Con equilibrio e lavoro di squadra, il collettivo è riuscito a restituire al giovane cinema indipendente una promessa di sincera leggerezza.

Come nasce Collettivo Asterisco?

Paolo Bonfadini: L’idea del collettivo è nata durante il primo lockdown, io e Davide scrivevamo già insieme da tempo e con Irene ho lavorato costantemente durante il triennio alla Scuola di Cinema Luchino Visconti. Abbiamo deciso di creare qualcosa che ci desse un’identità unica per lavorare ai progetti che avevamo in mente ed è nato Asterisco. Diciamo che è stato il naturale sviluppo della nostra collaborazione come trio, siamo abituati a condividere sempre idee e progetti nuovi e con l’esperienza abbiamo trovato la giusta alchimia.

Tutti e tre ricoprite vari ruoli, come è organizzato il vostro lavoro?

Paolo Bonfadini: Mi occupo principalmente di regia e di scrittura, il mio percorso è molto legato alla narrazione, ma sono anche musicista. Il nostro approccio è fluido, forse anche per questo ci troviamo a nostro agio con la forma del collettivo, cerchiamo di metterci sempre a disposizione l’uno dell’altra. Il nostro ultimo cortometraggio – Gea – ci rappresenta molto in questo senso: è diretto, sincero, colorato. Cerchiamo di trasmettere al pubblico lo stesso entusiasmo un po’ avventuroso con cui ci accostiamo al lavoro e quando ci riusciamo andiamo a letto felici. Tranne Davide, lui resta sveglio a montare.

Davide Morando: La struttura del collettivo Asterisco è molto chiara per noi: tutti possono dire la propria opinione e l’idea migliore vince sempre. Cerchiamo di lavorare con quest’ottica mantenendo ordine e precisione. Io mi occupo di regia e montaggio, ho iniziato come montatore diversi anni fa e questo mi dà un vantaggio anche nel lavoro di regista perché riesco ad avere una visione molto chiara del film, il che aiuta a ottimizzare i tempi.

Irene Cotroneo: Io seguo la parte di produzione ma ricopro soprattutto il ruolo di aiuto regia. Il cinema per me è stata una svolta, mi ha fatto capire cosa voglio davvero fare nella vita. Ho iniziato con piccoli set pubblicitari per poi lavorare su grandi produzioni televisive, cosa che mi ha aiutata ad adattarmi a progetti molto diversi tra loro. Per Gea mi sono ritrovata nell’insolita veste di regista insieme a Davide e Paolo. Non è facile dirigere un film con tre teste che hanno idee diverse, ma siamo riusciti a trovare il nostro equilibrio. C’è di buono proprio il fatto che siamo in tre: se c’è qualche dubbio, vince la maggioranza!

Siete riusciti a ritagliarvi uno spazio creativo atipico, puntando sulla varietà delle vostre competenze e su una certa mobilità.

Davide Morando: Tra di noi scherziamo spesso sul fatto che “viviamo in autostrada”. Siamo sempre in viaggio. In un certo senso ci consideriamo un collettivo itinerante, ci piace scoprire sempre nuovi luoghi dove poter girare. Abbiamo sviluppato molte competenze diverse perché siamo accomunati dalla curiosità, ci piace studiare, se c’è qualcosa che non sappiamo fare ci sbattiamo la testa fino a che non abbiamo imparato a padroneggiarla. Però quello che ci guida in ogni nostro lavoro è l’amore per le storie.

In Gea scompaiono 300 mucche a Serravalle Langhe, tutte tranne una: appunto Gea. Quando la sua pagina Instagram diventa più popolare di quella di Barack Obama, il suo staff organizza una visita ufficiale affinché l’ex presidente – noto amante delle mucche – possa conoscere Gea. Da dove nasce questa idea?

Paolo Bonfadini: Il film è nato durante la partecipazione a un festival estivo dedicato al mockumentary: a fine agosto 2020 siamo arrivati a Serravalle Langhe e in una settimana abbiamo ideato, scritto, girato e montato il cortometraggio. È stata una settimana frenetica e bellissima, una sfida da ogni punto di vista. Gea è un film indipendente nel vero senso della parola, totalmente libero. L’idea è nata dai nostri feed di Instagram: sembra assurdo ma i social sono pieni di profili dedicati ad animali con migliaia di follower. Il film ha un tono favolistico ma, allo stesso tempo, ci interessava raccontare il paese e le persone che abbiamo incontrato nel modo più genuino e sincero possibile. Quindi in fin dei conti è tutto vero tranne Gea.

Vi siete dunque ritrovati a lavorare con persone che non avevano mai recitato prima.

Irene Cotroneo: Sì, l’intero cast del film è composto da abitanti del paese senza alcuna esperienza nella recitazione, si sono trovati a dover raccontare in modo convincente una versione surreale della loro realtà quotidiana. Ci hanno sorpreso positivamente e a molti spettatori è rimasto il dubbio che la storia fosse in gran parte vera.

Come avete trovato Edo, il protagonista del cortometraggio?

Davide Morando: Non dimenticherò mai la prima volta che abbiamo incontrato Edo. Stavamo girovagando per il paese per delle ricerche, abbiamo visto un uomo dall’altra parte della strada, stava tagliando l’erba a torso nudo con dei jeans sgualciti, l’immancabile panama in testa e degli occhiali che gli coprivano tutta la faccia. Ci ha sorriso ed è stato un colpo di fulmine. Abbiamo passato giornate ad ascoltare le sue storie e quell’energia è diventata il cardine del nostro film.

A cosa state lavorando adesso?

Davide Morando: Ve lo sveliamo in anteprima, stiamo preparando il lungometraggio di Gea. Inoltre, stiamo progettando un lungometraggio di genere thriller/mistery intitolato Gotland. La storia ruota attorno al mistero di un labirinto ed è ispirata ad un luogo realmente esistente: il Labirinto della Masone di Fontanellato. Stiamo lavorando alla storia con l’aiuto di Paolo Borraccetti e il supporto di Officine – Fare Cinema e siamo in cerca di un produttore. Gea e Gotland sono due film agli antipodi, sia per genere che per necessità produttive, ma quello che li accomuna è la voglia di far sentire la nostra voce nel panorama del cinema di genere italiano. Nessuna pressione, insomma.

La guerra dello streaming: Amazon, Netflix e la Coda Lunga

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Le piattaforme OTT (Over The Top) permettono agli spettatori di vedere quello che vogliono, dove vogliono e quando vogliono. E mentre il mercato del video on demand si fa sempre più affollato, la sfida al vertice resta quella tra Netflix e Amazon Prime Video. C’è un concetto economico che spiega agevolmente il successo di queste due piattaforme di streaming sul mercato globale: quello di Long Tail. Il termine Coda Lunga è stato impiegato per la prima volta nel 2004 da Chris Anderson, saggista statunitense e giornalista dell’Economist.

Per spiegare questo concetto è necessario rifarsi al contesto storico. In un periodo caratterizzato dall’economia dell’abbondanza e dalla rivoluzione digitale, come quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni, la legge economica è quella che potremmo definire della “taglia unica”: ovvero, le strategie di marketing puntano a individuare dei prodotti capaci di adattarsi alle esigenze di un’ampia fetta di mercato. Oggi però sono in crescita alternative che cercano di guadagnare spazio: la teoria della Long Tail spiega proprio come l’attenzione dei consumatori sia cambiata, finendo per spostarsi lentamente dalle hit ai prodotti di nicchia. Se le hit all’interno di un grafico sulle vendite sono la testa (un picco) e le nicchie la coda (lente ma costanti), noteremo come quest’ultima tenda all’infinito, producendo una grande quantità di vendite ma spalmate nel tempo.

Sia Amazon che Netflix sono riuscite a trasferire nei propri piani marketing questo diverso concetto economico, applicandolo alla vendita degli abbonamenti. Come afferma Anderson, siamo passati da un mercato di massa a una massa di mercati: se l’economia classica si fondava sulla scarsità, nella nostra epoca caratterizzata dall’abbondanza i prodotti di massa sono destinati a essere sorpassati da quelli di nicchia e le nicchie, sommate fra loro, superano i numeri del mainstream. Questo elemento, secondo la teoria economica del giornalista statunitense, potrebbe portare Amazon Video a battere sulla lunga distanza Netflix, che per ora regna incontrastato.

In Italia, stando ai dati Auditel raccolti durante il lockdown, nel corso dell’anno il numero di visualizzazioni dei contenuti proposti dalle piattaforme streaming è raddoppiato. E, secondo i dati rilasciati dal sito di monitoraggio flussi Reelgood, durante il terzo trimestre del 2020 Netflix ha raggiunto il 25% dei flussi rispetto al 21% ottenuto da Prime Video. L’analisi di Sensemakers con i dati Auditel e Audience Analytics di Comscore confermano la crescita sia di Netflix che di Amazon Video. Entrambi i player però si dichiarano disinteressati ai volumi di traffico – il corrispettivo degli ascolti televisivi – mentre puntano ad aumentare il numero di abbonati e quindi a far parlare di sé il più possibile, per rafforzare la propria brand identity.

streaming illustrazione di Mattia Distaso
La guerra dello streaming, illustrazione per Fabrique du Cinéma di Mattia Distaso.

Le strategie impiegate dai due player sono però molto diverse: Netflix sa cosa il pubblico desidera grazie al suo algoritmo rivoluzionario, punta sulla quantità e l’hype creato attraverso i social e attua una politica di espansione geografica per raggiungere l’ampiezza di mercato di Amazon. La piattaforma di Jeff Bezos invece segue una strategia completamente diversa, entra di traverso nel mercato video e ha come obiettivo il mantenere la retention, cioè assicurarsi che il cliente resti all’interno del proprio universo: per questo punta su titoli recenti ed esclusivi in aggiunta a tutta un’altra serie di servizi inclusi nell’abbonamento, trascurando un po’ il piano comunicativo. Amazon vuole produrre meno e meglio della concorrenza, coinvolgendo i grandi paesi europei, come ha dichiarato Georgia Brown (direttrice delle produzioni originali di Amazon per l’Europa) a Screen International, laddove Netflix punta a dei contenti sì locali ma con un appeal internazionale.

Diverso è anche l’approccio ai social: mentre Netflix usa una strategia pervasiva ma dal tone of voice divertente e informale, Amazon applica un approccio mirato e discreto. Se i dati dell’audience del colosso californiano sono blindatissimi, non accade la stessa cosa per i suoi profili social che, proprio tramite il tasso di engagement e il numero di interazioni, mostrano in modo trasparente il livello di coinvolgimento del pubblico. In questo modo, Netflix incoraggia attraverso i social la produzione di una grande quantità di contenuti generati dagli utenti stessi, i cosiddetti User Generated Content (UGC), spingendo gli utenti a un dialogo continuo con i profili ufficiali dell’azienda. La strategia social di Netflix differisce quindi per la capacità di rendersi virale, creando un tasso di engagement altissimo. Amazon Prime Video è in ascesa, ma continua ad avere problemi a raggiungere i numeri della piattaforma rivale anche perché la sua social strategy rimane vaga, rendendo meno riconoscibile la sua identità. Prime Video così si riduce a essere un vantaggio aggiuntivo all’interno di un ecosistema più ampio di servizi, un’appendice periferica, nonostante la qualità dei contenuti sia molto più alta della media.

Secondo gli analisti, Prime Video potrebbe riguadagnare terreno con relativa facilità scommettendo su show di punta dall’appeal globale e trasformandosi in un servizio distinto dall’abbonamento Prime: acquisterebbe in autonomia e riconoscibilità, a patto di continuare a investire nei media digitali. Infatti, nel corso del 2019, Amazon ha quadruplicato la spesa per i media, superando come principale inserzionista di servizi streaming Netflix che invece, come Hulu, si è ritrovato a tagliare oltre il 40% degli investimenti, secondo quanto segnalato nella ricerca MediaRadar di MarketingDive.

Non è un caso che l’aumento della spesa media di Amazon per promuovere i servizi video arrivi proprio mentre il mercato dei servizi OTT diventa sempre più affollato e competitivo, rendendo la ricerca dell’attenzione dello spettatore ancora più urgente che in passato. Ad aumentare gli investimenti non sono solo Amazon, Apple e Disney ma le stesse società di social media come Facebook: tutti stanno investendo nella programmazione originale allo scopo di mantenere gli utenti coinvolti nelle app mobili il più a lungo possibile, intenti a produrre contenuti e a generare intrattenimento come accade su Instagram tramite IGTV e Instagram Stories.

Puntare però sulle strategie di marketing più che sui contenuti finirà per creare un’assuefazione nello spettatore, che sarà spinto a ricercare una più alta qualità nelle nicchie – nella coda lunga dell’economia – proprio come sostiene Anderson. Se in questa guerra dello streaming Netflix si rivelasse la testa e Prime Video la coda, allora il futuro delle piattaforme OTT potrebbe ancora sorprenderci.  

Streaming Revolution. Ritratto di un cinema in fiamme

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Premessa necessaria: l’8 marzo chiudevano i musei, i teatri e qualsiasi luogo di assembramento, anche il cinema si fermava per decreto ministeriale e le uscite venivano rimandate o tempestivamente spostate dalle sale allo streaming digitale. Lo stesso è capitato il 3 ottobre, a causa della cosiddetta “seconda ondata”.

Nel 2019 l’incasso al botteghino internazionale era salito a 31,1 miliardi di dollari, nel 2020 il bilancio appare a oggi disastroso, l’industria cinematografica tradizionale è in grande difficoltà e il pubblico resta chiuso nelle proprie case – lontano dalle sale – costretto dagli eventi ad adattarsi a uno stile di vita che privilegia le soluzioni digitali. Nell’era della streaming TV i grandi player dei media come Netflix e Apple TV+ si sono trovati costretti a rivedere le proprie strategie: la giornalista Ester Corvi, nel saggio Streaming Revolution (Dario Flaccovio Editore), ripercorre i passaggi fondamentali della rivoluzione in atto, raccontandone i protagonisti, le peculiarità tecnologiche e i riflessi sulla creatività e sui principali soggetti dell’economia immateriale. Secondo Ester Corvi, sono molti i cambiamenti in atto: «La streaming revolution incide su tutti gli snodi della catena del valore dell’industria cinematografica, con conseguenze più forti per la distribuzione, che deve adottare strategie nuove per tenere il passo con i rapidi cambiamenti in atto. Finora abbiamo visto molta resistenza, ma anche tentavi di apertura, che vanno però pensati in una logica più complessiva di rinnovamento e rilancio del settore».

Mentre l’Italia è sul crinale di questo cambiamento, altrove esiste già un nuovo modo di produrre cinema: la blockchain, una tecnologia basata su un registro digitale aperto e distribuito, in grado di memorizzare record di dati in modo sicuro, verificabile e permanente. Si tratta di una tecnologia rivoluzionaria, figlia del misterioso Satoshi Nakamoto, pseudonimo (forse) di un gruppo di informatici legati alla genesi della criptovaluta più famosa del mondo, il bitcoin. Nata per cambiare il mondo della finanza, si è rivelata così versatile da poter essere applicata a qualsiasi campo, compreso quello dell’entertainment. Nasce così, all’estero, una nuova figura professionale: quella del virtual producer. Gli investitori si sono accorti che i modelli di business che sfruttano l’advertising non sempre premiano i contenuti. Il cinema, agli occhi di un algoritmo, resta un rischio e per questo sono diventate necessarie nuove soluzioni capaci di scuotere le fondamenta di un sistema ormai dissestato.

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Illustrazione di Mattia Distaso

In Italia la blockchain è già utilizzata nei settori finanziari di numerose aziende, dalle banche alle piccole startup, ma è ancora pressoché sconosciuta in altri ambiti. Pioniera dell’applicazione di questa tecnologia all’entertainment nel nostro Paese è Tixter, fondata nel 2018, una piattaforma che permette di investire nel cinema, produrre, trovare la troupe, fare product placement e prenotare la première di un film. I creativi possono proporre pitch, soggetti, sceneggiature e storyboard, i professionisti offrirsi per girare i film e gli investitori scommettere sui progetti più redditizi. La blockchain applicata al settore cinematografico si propone di trovare una soluzione alle problematiche più impellenti dell’industria audiovisiva come la scarsa trasparenza, la mancanza di liquidità e i costi di intermediazione, tutti i “colli di bottiglia” in cui si trovano spesso intrappolate le produzioni indipendenti.

Anche se in Italia questa tecnologia è ancora in via di sviluppo, ha l’ambizione di rinnovare in pochi anni tutta la filiera cinematografica. Il sistema infatti potrebbe essere applicato anche ai finanziamenti pubblici, come il tax credit, innovando l’erogazione dei finanziamenti statali. Inoltre, uno dei vantaggi da non sottovalutare è il sofisticato sistema di analisi delle performance delle opere, fino a ora impossibile per i servizi streaming e appannaggio dei soli gestori di piattaforme – dai dati blindatissimi – come Netflix. Ma soprattutto la blockchain è una valida risorsa contro la pirateria e potrebbe rivelarsi un sistema molto efficace di salvaguardia dei diritti sulle opere creative. Come sottolinea Francesco Perciballi, co-fondatore e CEO di Tixter «la blockchain è sicuramente il futuro per i diritti d’autore; permetterà la diffusione delle opere, in chiaro, senza nessuna possibilità di plagio. Chiunque, cliccando, potrà valutare se un prodotto è un plagio, e sarà un futuro di sicurezza per gli autori che potranno sfruttare piattaforme come Tixter. Gli stessi big brand non potranno giocare sporco, produrre qualcosa di copiato sarebbe per loro un duro colpo di immagine». Per il buon funzionamento del sistema è però necessario un consenso globale, e se il Festival di Cannes non ha ancora superato pienamente l’agilità di Netflix e il suo far a meno delle uscite tradizionali in sala, è difficile capire come potrebbe reagire a queste tecnologie e al loro approccio radicale. Una riserva ancora più significativa per il nostro mercato: come specifica infatti Perciballi «il mercato italiano, pre-Covid, non era per niente pronto. Noi ad esempio abbiamo avuto molte difficoltà a far capire che non siamo una piattaforma di crowdfunding, ma di stabilizzazione del prodotto. Avevamo scommesso che entro il 2025 il mercato sarebbe crollato, perché non più sostenibile. Il Covid ha anticipato il tutto, e per fortuna, diciamo così, eravamo già pronti».

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Illustrazione di Mattia Distaso

La causa di questo crollo secondo Perciballi è da ricercare nel famigerato assistenzialismo del sistema produttivo italiano, basato sui fondi pubblici, che però non è un modello sostenibile a lungo; mentre la blockchain punta a quella che il CEO definisce «una democratizzazione dei processi di domanda e offerta» e una redistribuzione corretta degli utili. Per questo Perciballi azzarda l’idea di un vero e proprio Risorgimento del cinema italiano, il perché è semplice: «paradossalmente il Covid ha creato il mercato di cui avevamo bisogno», come tutti i grandi sconvolgimenti socio-globali ha mutato i nostri bisogni e accelerato i processi che ci spingono ad adattarci a nuove soluzioni. Della stessa opinione è il blockchain manager ed esperto di distribuzione digitale Andrea Ricciardi, che in più offre una previsione: «La blockchain, ovunque venga applicata, è portatrice di un significativo cambio di paradigma e non tutti sono disposti ad accettarlo. È molto probabile, come già accaduto in altri settori, che il pioniere sia un produttore italiano indipendente, che ha difficoltà a crearsi uno spazio in un sistema come il nostro». Una visione molto lucida della realtà, se teniamo conto del fatto che raggiungere il budget è ancora la parte più difficile della trafila necessaria per arrivare a girare un film, soprattutto per gli autori esordienti del cinema indipendente italiano. Ricciardi sottolinea che «applicare smart contracts per la suddivisione degli incassi, che siano utili o diritti, tra esercente, distributore, produttore e talent, consentirà assoluta trasparenza e la certezza che i pagamenti avvengano senza lungaggini o sorprese, mentre il sistema spesso grava sugli anelli più deboli della catena produttiva».

Dire che la blockchain sia la soluzione a un sistema produttivo chiuso e assistenzialista forse è un azzardo, ma di certo la sola ipotesi farà tremare le pareti dorate delle roccaforti produttive vecchio stampo, o almeno di chi non sarà pronto a innovarsi. Si apriranno altre porte, modi nuovi di fare e vedere film, e se questo si rivelerà solo un passaggio dalle catene produttive fisiche a quelle streaming, ce lo dirà solo il tempo.