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Stefania Covella

Il true crime non è mai abbastanza

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Al confine tra letteratura e giornalismo, tra narrazione e inchiesta, nel giro di pochi anni il true crime è diventato uno dei territori narrativi più interessanti della cultura pop contemporanea.

Secondo i dati dell’Osservatorio Agicom la cronaca nera è il tema più trattato dalle pagine social e dalle testate giornalistiche. Se da un lato consumiamo ossessivamente queste storie, dall’altro siamo stressati dai contenuti violenti che digeriamo senza elaborarli, vittime della compassion fatigue. Ma nel true crime invece li elaboriamo, lasciamo entrare il male e lo interroghiamo, lo osserviamo da una distanza di sicurezza mediato da altri. Non si è mai trattato di un genere uniforme, il tono poteva variare dal sensazionalista allo spirituale fino al didattico, ma nonostante i penny dreadful e i tascabili dalle copertine schizzate di sangue, l’ideatore riconosciuto del true crime è Truman Capote, autore di A sangue freddo (1966), il resoconto del quadruplice omicidio della famiglia Clutter nel Kansas del 1959. E pensare che per gli scrittori e i critici dell’epoca era uno scandalo che uno scrittore serio si dedicasse a un romanzo-verità, a quello che Norman Mailer definì un «fallimento dell’immaginazione». Tuttavia il true crime vero e proprio – che combina il racconto di un omicidio con la ricostruzione di tipo investigativo – nasce e si sviluppa con il giornalismo moderno e in parallelo con i progressi nell’ambito della scienza forense.

Con l’arrivo in televisione il genere raggiunge picchi mai visti prima, in Italia con Chi l’ha visto? o Storie maledette di Franca Leosini, virali anche sui social, per approdare poi sui nuovi media: podcast, videocast, docu-serie e serie tv. L’onda d’interesse parte tra il 2014 e il 2015 negli Stati Uniti con il podcast Serial della giornalista Sarah König e con la serie Making a Murderer di Netflix. Verso il 2017 arriva sui nuovi media italiani anche grazie al giornalista Pablo Trincia con il suo Veleno, il podcast sul caso dei “diavoli della Bassa modenese” e più di recente con Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps prodotto da Chora Media per Sky e SkyTg24. Sono tanti i giornalisti e scrittori rinomati a essersi lanciati sulle piattaforme audio, come Stefano Nazzi, scrittore ideatore e voce indimenticabile di Indagini de Il Post e autore de Il volto del male (Mondadori, 2023). La passione per il genere ha attirato anche moltissimi creator su piattaforme come Youtube e Twitch, dove la più ascoltata (e vista) è Elisa De Marco, nota come Elisa True Crime. Non restano indietro le piattaforme VOD, con docufilm e docuserie incentrare su casi di crimine realmente accaduti in Italia, come Vatical Girl – La scomparsa di Emanuela Orlandi di Mark Lewis.

Ogni cultura ha le proprie storie di crimini e misteri irrisolti, così i contenuti rispettano perfettamente la formula glocal del successo targato Netflix, non  a caso la piattaforma più attiva nella produzione e distribuzione di questo genere. Dopo tanti casi americani arrivano infatti anche quelli italiani come Marta – Il delitto della Sapienza, diretto da Simone Manetti, sulla studentessa di giurisprudenza uccisa il 9 maggio 1997. Il regista stesso ci ha raccontato la sua esperienza: «È un progetto che mi ha profondamente coinvolto sin dall’inizio. La vicenda affrontava temi complessi, portando con se un dibattito che non si è mai spento, nonostante i molti anni trascorsi dal fatto e dalla chiusura giuridica. Per me un aspetto fondamentale, non solo in questo documentario ma in tutti quelli che dirigo, è mantenere un approccio “atesico” alla narrazione. Questo significa che non prendo parte alla discussione ma cerco di riportare lo spettatore al tempo degli accadimenti per farglieli rivivere come furono vissuti all’epoca rispettando, chiaramente, la verità processuale». Secondo Manetti siamo ben lontani dall’aver raggiunto la saturazione dei contenuti: «Il true crime sembra godere di una popolarità duratura grazie alla sua intrinseca capacità di coinvolgere il pubblico con storie reali affascinanti. La diversità di sottogeneri e la continua evoluzione della narrazione contribuiscono a mantenerlo vivo».

Secondo il giornalista e autore Stefano Nazzi l’interesse per il true crime è sempre esistito: «Cerchiamo di capire e contestualizzare ciò che non capiamo, che ci appare lontano da noi ma ci accorgiamo fare invece parte del mondo. Riuscire a inquadrare un fatto orribile ci aiuta forse a sentirci più uniti e ad averne meno paura». Nel suo libro Il volto del male Nazzi ha trattato in modo analitico e mai banale molti casi di cronaca: «Il male ha molti volti, con un tratto che unisce: le persone che fanno male ad altre persone si sentono solitamente al di sopra degli altri, vedono loro stessi al centro di tutto, il resto dell’umanità è per loro senza valore». Per Elisa De Marco ci interessano «le ragioni che spingono persone “strutturalmente” uguali a noi a commettere delle azioni socialmente impensabili, orribili. La violenza domestica, le relazioni tossiche o abusanti sono questioni diffuse, ma di cui spesso si fa fatica a parlare. Credo che l’interesse nasca proprio lì, cerchiamo un modo per capire, per essere a nostra volta più consapevoli».

Il podcast si conferma uno degli strumenti più amati per gli amanti del true crime. Per Stefano Nazzi «consente di raccontare le storie coinvolgendo chi ascolta grazie alle musiche, al tono della voce, alle pause anche mentre fa altre cose».

true crimeSpesso l’attenzione del pubblico è del tutto focalizzata sulla persona che commette il crimine, soprattutto nel caso dei serial killer: ci si concentra sul loro passato, sul modus operandi e sul fascino che alcuni di loro hanno saputo esercitare durante le indagini e i processi. Non a caso uno dei rischi principali di chi tratta il genere come storyteller è la romanticizzazione del crimine e la mitizzazione dell’assassino, come è accaduto nel caso di Jeffrey Dahmer dopo la serie di Ryan Murphy per Netflix. Ma la vicenda del Cannibale di Milwaukee ha portato anche a una riflessione razziale, sull’impunità che gli è stata a lungo garantita dall’essere bianco e benestante. Analogamente al criminale per cui il mondo dell’intrattenimento ha sfiorato l’ossessione, Ted Bundy, interpretato tra gli altri da Zac Efron nel film Ted Bundy – Fascino criminale, che puntava l’accento su quanto il serial killer fosse di bell’aspetto.

Tutti i nostri intervistati non hanno dubbi, tra gli errori peggiori c’è il sensazionalismo, come spiega Stefano Nazzi: «Il racconto della cronaca è spesso spettacolarizzato, carico di giudizi e del tentativo artificiale di suscitare emozioni quando dovrebbe essere invece il fatto in sé, nella sua crudezza, a suscitare emozioni». Il sensazionalismo è un meccanismo di forzatura emotiva, concorda Simone Manetti, e prosegue la riflessione sulla pericolosità di questo approccio che «può sfociare nella “pornografia del dolore”, ovvero sfruttare il dolore delle vittime a fini di solo intrattenimento. Talvolta si può cadere nell’enfatizzazione del colpevole, trascurando le storie delle vittime. Per evitarlo, bisogna mantenere un approccio equilibrato, rispettoso e imparziale tramite una rigorosa ricerca dei fatti, il coinvolgimento delle vittime quando possibile e la presentazione delle storie in modo che il pubblico possa formarsi le proprie opinioni». Per queste ragioni la verifica dei fatti e il rispetto devono essere al centro del lavoro, spiega Elisa De Marco: «È importante tenere a mente che le storie che si raccontano non sono le nostre, e per questo vanno trattate con il massimo del rispetto e delicatezza. Tutti possiamo commettere degli sbagli nella ricerca delle informazioni, a me per prima è capitato, proprio per questo cerchiamo sempre di verificarle al massimo delle nostre possibilità». Anche Simone Manetti si è avvalso delle testimonianze delle persone coinvolte: «Ho sempre realizzato lavori nei quali erano presenti le varie parti chiamate in causa e insieme a loro ho costruito il racconto e la narrazione. Non ho mai preso un “dolore” per farne un film senza il permesso di chi l’ha provato e sperimentato sulla propria anima».

Ed è proprio il “come” l’aspetto cruciale in Only murders in the building, la fortunata serie targata Disney creata da John Hoffman e Steve Martin protagonista con Martin Short e Selena Gomez: i tre personaggi principali sembrano non avere niente in comune se non il fatto di abitare all’Arconia, un palazzo dell’Upper West Side di New York. Presto i tre scoprono di essere tutti fan di un podcast true crime All Is Not Ok in Oklahoma e il ritrovamento di un cadavere proprio all’Arconia dà il via alle indagini e li rende protagonisti del proprio podcast: Only murders in the building. Charles-Haden Savage (Steve Martin) a un certo punto dice «Ogni storia true crime è reale per qualcuno», sintetizzando l’approccio della serie, una comedy venata di mistero che intercetta con leggerezza e lucidità le problematiche insite in un fenomeno che da tempo attraversa in maniera trasversale il mondo dell’entertainment. Disney ha compiuto un passo ulteriore nell’evoluzione del true crime anche grazie alla nuova politica glocal, con nuove produzioni ancorate al territorio italiano, come nel caso di Avetrana – Qui non è Hollywood di Pippo Mezzapesa, coprodotto da Groenlandia e in uscita nei primi mesi del 2024. Infatti la richiesta – e quindi l’offerta – di contenuti cresce anche da noi: il primo novembre è arrivato Sky Crime, in collaborazione con A+E Networks Italia. Roberto Pisoni, Sky Entertainment Content and Channels Senior Director, spiega: «Il true crime è un genere in crescita costante che attrae un pubblico trasversale con podcast, programmi televisivi e serie documentarie di grande successo, perché da una parte rilegge episodi della memoria collettiva con testimonianze nuove, rivelazioni o semplicemente rimettendo in fila i fatti e dall’altra rianalizza i possibili errori nelle indagini o gli esiti giudiziari dubbi. Ci illude di poter trovare finalmente una soluzione per i casi irrisolti o evidentemente ambigui e talvolta lo fa davvero. E poi è un genere ibrido in cui sono ricostruiti e documentati fatti di cronaca reali ma che possono essere narrati con un’efficace dose di drammatizzazione».

In definitiva, superata l’indagine televisiva di bassa qualità, con l’evolversi dei contenitori e dell’attenzione al tema si è evoluto anche il contenuto e soprattutto sono cambiate le modalità con cui il true crime viene narrato, alzando di molto il valore di un prodotto che – con buona pace di una critica – si è fatto sofisticato. A tal punto da essere degno di analisi dai parte dei teorici dei new media, per cui il fascino della cronaca nera risiede anche nella capacità di mostrarci un male diffuso concentrato in un solo evento, mentre la violenza sistemica di solito fa meno notizia di un crimine efferato.

Come scrive Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare, se è vero che le storie ci aiutano a evadere dal quotidiano, le storie dell’orrore ci piacciono perché ci mettono di fronte a una serie di paure e pericoli che possiamo vivere a distanza di sicurezza.  D’altro canto, la massificazione del fenomeno ha portato con sé anche un pubblico più vasto e variegato: che sia interesse per il macabro, curiosità, senso di verità e giustizia o un modo per imparare a cogliere i segnali di pericolo, la maggior parte dei fruitori trova nel true crime un effetto catartico. Secondo le statistiche il crescente interesse del pubblico femminile può essere letto proprio in quest’ottica, ma anche come desiderio di riappropriarsi delle storie in cui le donne sono sempre state oggetti e (quasi) mai soggetti.

Ed è così anche per l’occhio investigativo di Rebecca Makkai, da noi conosciuta per I grandi sognatori (Einaudi, 2021), romanzo finalista al premio Pulitzer, che nella sua nuova suspense novel I Have Some Questions for You (2023 – inedita in Italia) si confronta proprio con l’ossessione per il true crime. L’autrice riflette su alcuni temi etici, come il rischio di oggettivare le vittime soprattutto se sono giovani, bianche e carine. L’ultima riflessione non è nuova, ne ha scritto già Alice Bolin in Dead Girls: Essays on Surviving an American Obsession (2018), mettendo in luce il mito moderno del Dead Girl Show in cui un detective sviluppa il proprio personaggio grazie al sacrificio della vittima perfetta: una donna silente che si fa terreno neutrale e muto innesco della storia. Makkai nel suo romanzo ironizza su un gruppo di dipendenti dal true crime: la sua protagonista è diretta al suo ex college dove terrà un corso sul podcasting. Makkai sceglie un approccio grandangolare e si chiede: può il true crime essere etico? Arrivati alla pagina finale tutte le opzioni restano aperte. È il delitto perfetto, quello in cui alla fine è il lettore (o lo spettatore) ad avere in mano il coltello.

Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club

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Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino e un master in Advanced Cinematography a Milano, ma continua a studiare.

Spicca come regista nella scena videomusicale indipendente e l’abbiamo vista tutti sorridere e ballare nell’iconico videoclip Oroscopo di Calcutta, diretto da Francesco Lettieri. In qualità di sceneggiatrice, con Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo ha creato Love Club, la serie in quattro episodi diretta da Mario Piredda e disponibile su Prime Video.

Parlami del tuo rapporto con la forma videoclip, che ha caratterizzato l’inizio del tuo percorso.

La musica è sempre stata familiare per me, a casa si suonava e si cantava sempre. Suonicchiavo anche io, non tanto bene, ma sapevo le basi. Inserirmi nel mondo del videoclip è stata una sfida continua, riuscire a creare con poco budget delle piccole storie, con scenografie fatte in casa, un approccio “do it yourself” che ha settato anche il mio stile. Anche se dovessi avere milioni di euro per il mio primo film [ride ndr], la scenografia sarebbe artigianale, legata a un mondo indie che mi appartiene, che mi ricorda un po’ il realismo magico di Julio Cortàzar e l’immaginario infantile che non mi ha mai abbandonato.

Di te si dice che fai parte di quella manciata di persone che hanno inventato la scena romana indipendente. A distanza di qualche anno, come è cambiata quella scena?

Alle Mura organizzavo Margarina, un evento mensile dove si esibivano donne musiciste, tra cui Laila Al Habash, Chiara Monaldi, Iruna, In.versione Clotinsky e tante altre. Vivevo a San Lorenzo e c’era davvero un bel giro tra lì e il quartiere Pigneto. Sapevo che era un momento florido per la musica e quindi anche per i videoclip, si respirava tanta libertà nella creazione artistica, e lo si può vedere sia dagli album usciti negli anni 2016-2017 sia nella regia dei videoclip di quel periodo. C’era una bellissima atmosfera, io facevo ancora gavetta per i più “grandi” come Motta, Thegiornalisti e iniziavo a fare regia o fotografia per i più “piccoli”, all’epoca i Pinguini Tattici Nucleari, Giorgio Poi e Frah Quintale, e c’erano amici e nuove voci come Galeffi, Vanbasten, Canova, Gazzelle, I Cani e tanti altri. La scena indie non esiste più, è stato un periodo molto breve, e lo dico non solo perché la maggior parte di loro lavorano con le major, chi come artista chi come autore o entrambe le cose, ma anche perché anche a livello di locali hanno chiuso davvero la maggior parte dei magici luoghi dove si suonava (e questo non vale solo per Roma, ma anche per Milano e altre città d’Italia).

Pollo all’ananas ’98 è il tuo primo cortometraggio: perché hai scelto di raccontare proprio una storia di immigrazione ambientata in un ristorante cinese di provincia?

Pollo all’ananas ’98 l’ho scritto a 25 anni, durante la pandemia. L’abbiamo girato a giugno 2022 in due giorni e mezzo a Torino, è stato prodotto da Cattive Produzioni e Spicy Storm Production con il finanziamento del Mic e della Piemonte Torino Film Commission. In realtà deve ancora uscire, siamo alla ricerca dell’anteprima per i festival. Come ogni primo corto, non è perfetto, ma quando lo guardo mi dà una gioia immensa. Anche questa storia è ispirata alla mia infanzia: siamo nel 1998 e i miei genitori, immigrati dal centro-sud al nord, sono tra i pochi che frequentano il ristorante cinese di Verbania. Per festeggiare la promozione di mia sorella siamo andati a mangiare cinese, insieme ai miei nonni. Questo ricordo è ovviamente solo l’ispirazione iniziale del corto, che prende una piega molto diversa, spingendosi verso un finale grottesco, ironico e artigianale, proprio nel mio stile.

Quale tabù ti piacerebbe infrangere sul grande schermo?

Immagino che per molti già Love Club è pieno di tabù che abbiamo infranto, nonostante non ci fosse nessun intento di sconvolgere. Sono convinta che i corpi di molte persone e le loro scelte di vita sono di per sé un tabù per tanti. Mi piacciono le storie contraddittorie, che non riflettono quello che ti aspetti, che ti risvegliano in qualche modo. Mi accorgo, soprattutto nei libri scritti da voci incredibili come La cronologia dell’acqua, La breve favolosa vita di Oscar Wao, L’interprete dei malanni o Denti bianchi (sono letteralmente gli ultimi libri che ho letto e che mi sono piaciuti), che hanno un fil rouge di autenticità e di arguzia, con storie vicine agli scrittori, spesso le loro, frutto di traumi e ferite.

Quanto credi che i trend, i social e le mode del momento influenzino il tuo lavoro e la tua estetica?

Ci sono dei trend che mi influenzano, ma allo stesso tempo mi distacco dal mondo social perché sono ossessionata da storie e personaggi che non hanno nulla a che fare con quello che va di moda. Da Bridget Jones a Pedro Infante passando per i mormoni e l’immigrazione cinese in Italia. Sono molto umorale e iperattiva, vado a fondo nelle storie, potrei starci anni. Mi piace riprendere quel baule dei travestimenti di quando ero piccola ed essere fluida anche nel mio modo di vestire, di essere, in base a quello che provo.

Com’è stato co-scrivere Love Club?

Quando Denise Santoro nel gennaio 2021 ha detto a me e a Bex Gunther che forse era arrivato il momento di metterci a scrivere una storia sulla nostra comunità, è stato tutto molto spontaneo, come se fosse ovvio, giusto e naturale. Vivevo in una mansarda a Bee, sopra il Lago Maggiore, in attesa che finisse la pandemia e con Bex ci incontravamo online una o due volte a settimana a scrivere. Abbiamo lavorato tantissimo sull’immaginario di ogni personaggio e del quinto protagonista che è il Love Club stesso, a livello visuale con moodboard, booklet, stili, gusti personali, ma anche sulla musica (c’è la playlist di Love Club su Spotify). Poi quando il progetto si è strutturato con Prime e Tempesta, abbiamo creato noi tre, insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo, una writer’s room meravigliosa. Ci hanno capito subito, e ci hanno aiutato a strutturare al meglio la serie in così poco tempo. In nove mesi abbiamo creato Love Club

Una cosa che si capisce dai tuoi lavori è che non imponi una visione ma ti poni in posizione di ascolto e poi guidi la visione che ti restituiscono le persone: in questo modo quello che crei risulta autentico. Cosa possono fare le nuove generazioni di creativi per restare fedeli al reale?

Hai centrato il punto. Non impongo la mia visione, ci arrivo e guido gli altri. Shi Yang Shi mi ha scritto un messaggio molto bello dopo il lavoro insieme su Pollo all’ananas ’98, ringraziandomi per la mia “morbida determinazione”. Questo per me è oro, creare delle connessioni tra regia e cast, capirsi, comunicare. Riguardo alle nuove generazioni, quello che dico sempre è di studiare tanto, c’è molto da apprendere e tantissimo da fare. Quindi bisogna partire da lì, io non ho mai smesso di studiare, vorrò farlo sempre. Ora sto prendendo un’altra laurea tra la mediologia e il cinema, approfondendo l’immaginario collettivo del cinema messicano.

Nei primi sei minuti della serie compaiono due scene di sesso. So che sul set c’erano degli intimacy coordinators: cosa pensi di queste figure, le userai sui tuoi set in futuro?

Abbiamo spesso ribadito con Bex e Denise quanto fosse importante avere un approccio autentico alla vita amorosa e sessuale della comunità. Abbiamo voluto presentare una coppia lesbica diversa dallo stereotipo delle butch, mostrare che le lesbiche fanno sesso e che va fatto vedere tanto quanto il sesso eterosessuale (lì legato al tema del consenso – nel terzo episodio). Gli intimacy coordinators sono essenziali, mi è capitato come assistente alla regia di finire tra turbini di imbarazzo, poca comunicazione e colpe assurde date alle costumiste (sono loro che forniscono le protezioni e i famosi “sacchetti”), perché mancava una persona che coordinasse. Per me il miglior modo di lavorare è la trasparenza, la comunicazione, il consenso.

Ti senti pronta per realizzare un lungometraggio o vuoi continuare il tuo percorso nella serialità?

Sto scrivendo il mio primo film, una sorta di rom-com molto indie e autoriale sulla storia di un uomo trans, dal titolo Golden Trans Boy. C’è anche qui molto di personale e molta ironia.

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Maddalena Stornaiuolo, che racconta una Napoli senza sconti

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Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da vivere, un bambino vestito da Hulk che non ha la forza di difendere nessuno.

Maddalena è attrice, acting-coach, regista, imprenditrice e fondatrice della compagnia teatrale Vodisca Teatro e della scuola di recitazione La scugnizzeria. Con Sufficiente, il suo primo cortometraggio diretto insieme ad Antonio Ruocco, ha ricevuto il Premio Speciale ai Nastri d’Argento 2020 ed è in giro per festival con il suo secondo lavoro, Coriandoli (2021). La forza di questi shortfilm sta nella sottrazione e nello sguardo onesto e partecipato, nella regia tesa al mettere al centro i giovani protagonisti e le loro storie raccontate in prima persona, senza sconti. Solida e instancabile, Maddalena ha cambiato il volto di un territorio dimenticato da tutti, compiendo un lavoro enorme di recupero e riqualificazione del tessuto sociale.

La scugnizzeria non è solo una scuola ma un progetto votato all’inclusione, aperto al territorio e a persone di tutte le età, alle quali offri numerose opportunità a prezzi popolari. Hai portato il cinema sul territorio e i ragazzi via dalla strada.

La scugnizzeria è un progetto che è nato solamente cinque anni fa, ma è un sogno che coltivavamo da tempo, solo che tra un lavoro e l’altro era veramente complicato trovare uno spazio che potesse ospitare una grande quantità di ragazzi. Poi, quando sono rimasta incinta di mia figlia, mi sono dovuta fermare, non potevo essere sui set né tanto meno fare spettacoli a teatro. Allora mi sono detta che era il momento giusto per creare La scugnizzeria. Ci siamo messi alla ricerca degli spazi e li abbiamo trovati dove speravamo. Sono arrivati tantissimi ragazzi, all’inizio da Scampia, da Melito, dalla periferia limitrofa e poi da ogni punto della città. Questa è stata una vittoria, non volevamo solo avvicinare i ragazzi del quartiere ma creare una mescolanza, delle connessioni.

Maddalena Stornaiuolo Scampia
Le Vele di Scampia.

Non parliamo solo di corsi di recitazione ma anche di produzione, da qui ha preso forma Sufficiente. Gaetano è un pluriripetente che si presenta agli esami di terza media e aspira alla licenza con un voto sufficiente, qualcosa che significhi “abbastanza”. È un corto sul pregiudizio, sulla società escludente, sugli adulti che non tutelano e sui figli che pagano per gli errori di tutti. Perché hai scelto di raccontare proprio questa storia?

Siamo partiti con l’idea di raccontare una situazione che conoscevamo da tanto tempo, perché purtroppo la vicenda – per quanto romanzata – prende spunto da una storia vera, ma volevamo raccontarla da una prospettiva differente. La criminalità è spesso narrata da un solo punto di vista, invece mi interessava dar voce al ragazzo che subisce le conseguenze delle scelte non sue. Volevo che si sentisse preso in considerazione, quando a casa e a scuola questo non era accaduto. Credo che il cinema serva anche a dare voce a chi non ha la possibilità di farsi ascoltare.

Coriandoli è un’altra storia vera, quella di Speranzella che legge sul balcone per non sentire la madre che accoglie in casa i clienti. Una bambina che vede nei libri una via di fuga, che ha paura del rumore delle zip e non mangia perché non vuole che le cresca il seno. Totoriello è vestito da Hulk e vorrebbe avere i superpoteri per difenderla, ma è terrorizzato. Eppure sono a una festa con le giostre, vestiti da Carnevale: hai scelto questa ambientazione per contrasto?

Sì, esatto. L’infanzia e l’adolescenza dovrebbero essere età felici, ricche di scoperte, invece questi due bambini si trovano a fare i conti con un presente feroce e con un futuro incerto, pieno d’ombre. Mi premeva raccontare un’infanzia negata da situazioni di criminalità: non era quello che era accaduto a me ma, se ci penso, non ho ricordi di me in cortile o al parco, non potevo giocare fuori perché i miei avevano troppa paura. Tutta la mia infanzia è trascorsa tra il balcone e le mura domestiche, le uscite erano altrove, non nel rione. Volevo che questo risuonasse nel personaggio di Speranzella, questa chiusura nelle mura di cemento, in quel balcone lunghissimo che da piccola ti sembra sconfinato e invece non è che uno spazio troppo limitato.

Maddalena Stornaiuolo
Maddalena Stornaiuolo.

Hai recitato in Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico, un esempio di teatro e cinema civile, che racconta la storia vera di una ragazza di ventidue anni uccisa dalla camorra nel 2004, nel quartiere di Secondigliano. Cosa ti sei portata dietro da questa esperienza?

Tutto è iniziato durante la prima stagione di Gomorra, quando in parallelo alla messa in onda passavano su Sky Atlantic dei cortometraggi: uno di questi era Centoquattordici diretto da Massimiliano Pacifico che raccontava la storia di Gelsomina Verde, vittima numero centoquattordici dall’inizio della faida di Scampia. In quel corto interpretavo l’amica che raccontava la storia, ma già alla fine delle riprese sentivamo l’esigenza di approfondire quella vicenda: così è nato il lungometraggio dove avevo il ruolo di Gelsomina. Recitare alcune scene mi faceva molto male, a volte la notte non riuscivo a prendere sonno sapendo che all’indomani avrei dovuto interpretarle, ma questo mi ha aiutata a dare il taglio giusto. Si è parlato molto di lei, anche sui giornali e in TV, non sempre in maniera corretta. Poterla raccontare con l’aiuto del fratello, Francesco Verde, è stato il nostro piccolo dono alla memoria di questa ragazza morta in modo feroce. È stato un riscatto, se così si può dire, meritava di essere raccontata nel modo più onesto possibile.

Hai lavorato come acting-coach nella terza stagione della serie L’amica geniale, diretta da Daniele Luchetti, e poi sul set de La vita bugiarda degli adulti, la serie prodotta da Netflix Italia che vede alla regia Edoardo De Angelis. Come è stato lavorare nella serialità italiana?

Lavorare a L’amica geniale è stato non stupendo, di più, qualcosa che avrei desiderato che non finisse mai. Guido de Laurentiis, il produttore, è una delle persone più generose e disponibili che io abbia mia conosciuto, Daniele Luchetti, oltre ad essere un regista strepitoso, è una persona dall’anima buono, ci siamo fatti un sacco di risate e mi ha insegnato tantissime cose. Nella vita bugiarda degli adulti invece sono la acting coach personale di Valeria Golino, l’avevo conosciuta sul set di Fortuna di Nicolangelo Gelormini. Già all’epoca era nata una grande sintonia tra noi, sono davvero contenta di lavorare con lei e di poter assistere al suo processo creativo, è stato molto facile “metterle il napoletano in bocca”. Poi ho scoperto che De Angelis è un regista rock, è adorabile il modo in cui dirige gli attori e riesce a tenere il set. Non ci avevo mai collaborato, è un lusso lavorare con persone con le quali ti trovi così bene, spero di replicare.

Dopo il successo di entrambi i tuoi corti, ti senti pronta a esordire con un lungometraggio?

Per quanto riguarda il lungometraggio siamo in fase di sceneggiatura e abbiamo già degli accordi di produzione. Amo le sfide e questa è forse la sfida più grande, non vedo l’ora di buttarmici a capofitto ma, al momento, sono impegnata come attrice sul set di Mare fuori, sono il nuovo agente di polizia del PM. C’è bisogno di tempo, in questi casi: il mio motto è “senza fretta ma senza sosta” per cui piano piano le cose arrivano, si fanno i passi giusti e nel frattempo si costruisce quello che si vuole.

Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore

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Regista e produttrice appena 25enne, Letizia Zatti ha studiato alla Luchino Visconti di Milano e si è fatta notare al RIFF con la storia di una donna che si introduce di nascosto nella casa del suo ex compagno, quella che un tempo era stata di entrambi. Nel corto Acqua che scorre non porta veleno, Matilde soffre per l’amore perduto e Zatti cuce sulla protagonista una regia intima e sensoriale, utilizza palette di colore e spazi come strumenti narrativi realizzando un equilibrio perfetto tra estetica e contenuto.

Nonostante la vocazione registica hai studiato produzione alla Luchino Visconti di Milano. Perché questo percorso?

Sono stata presa alla Visconti a 19 anni, subito dopo il liceo. Ero piccola e quindi ho scelto produzione perché in me convivono creatività e pragmaticità. Col senno di poi è stata la scelta più giusta: mi ha permesso di lavorare su set pubblicitari e cinematografici. L’incontro fondamentale è avvenuto con l’aiuto regista Miguel Lombardi, che venne a farci un corso di aiuto regia. A lui devo praticamente tutta la mia esperienza sui set, è stato il mio maestro. Poi, in realtà, non ho mai avuto il mito della regia. La vocazione registica mi si è rivelata set dopo set, è semplicemente il ruolo in cui più mi sento me stessa. Senza aver studiato produzione però, probabilmente sarebbe stato tutto più improvvisato.

 

In Acqua che scorre non porta veleno Matilde ripercorre gli stessi spazi, annusa l’odore dell’ex dalla sua camicia e si immerge nella vasca piena d’acqua, dove un tempo facevano il bagno insieme. La casa-nido è quasi un terzo personaggio. Che tipo di lavoro hai fatto sugli spazi e con l’attrice protagonista?

È proprio così. La storia narra la fine di una relazione, ma ancora di più narra un legame profondo con la casa. Era questo il tema che volevo approfondire. Ognuno di noi vive la propria casa in modo diverso: c’è chi la considera solo un tetto sotto cui dormire e c’è chi invece cura ogni dettaglio. C’è chi di case ne ha cambiate trenta e chi invece vive tutta la vita nello stesso posto in cui è nato e cresciuto. Io ho vissuto in dodici case diverse nell’arco di 24 anni e quella che si vede nel corto è stata la prima casa che ho veramente sentito mia. L’ho fotografata spesso, per cui scegliere le inquadrature è stato abbastanza facile, la scelta della macchina fissa voleva restituire proprio questo terzo punto di vista, quello delle mura della casa. L’acqua poi è un elemento subdolo: si insinua, penetra lentamente e rovina un’abitazione facendola marcire in profondità. Ma ha anche un alto contenuto simbolico: lenisce, lava, cura. Emilia [Emilia Scarpati Fanetti, l’attrice protagonista] ha da subito capito cosa volevo raccontare, era un tema che sentiva vicino perché aveva vissuto un’esperienza simile. Ho voluto fare tutte le prove in casa, anche quella costumi con gli attori, in modo che avessero familiarità con il luogo.

Acqua che scorre non porta velenoLe cose che ci passano per la mente sono quasi sempre inconfessabili, il voyeurismo di Matilde, la sua difficoltà nel lasciar andare, ci mettono di fronte alla sua ferita. Il tuo è un cinema intimista, fatto di sentimenti quotidiani e cose minuscole. Cosa aspiri a raccontare e in quale forma?

Il cinema che voglio fare è un cinema intimo, ricco di un sottotesto che rende onore più ai volti e alle piccole emozioni che alle grandi gesta. Sono affascinata dalle dinamiche psicologiche che si creano dietro le relazioni umane e ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono. Per ora sento che questa è la mia via: storie semplici ma con un universo dietro, un punto di vista chiaro e una forma estetizzante ma mai fine a se stessa. Ogni giorno che passa cambiamo e ci evolviamo, quindi chissà, un giorno potrei cambiare del tutto approccio.

Cosa ti auguri per il cinema post-pandemico?

Non ho particolari storie che vorrei vedere, tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto. Vorrei vedere film che più che focalizzarsi sul cosa raccontare, si concentrino sul come farlo. Spero vivamente che la visione in sala riesca a sopravvivere nella sua essenza popolare e che non diventi solo per un pubblico d’élite. Fare i film per un’élite non mi interessa, la mia missione è quella di arrivare a tutti.

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Le ninfe dark di Isabella Torre

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Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre ha nel suo carnet anche la collaborazione alla trilogia di Jonas Carpignano (Mediterranea, A Ciambra e A Chiara, fresco di ben 6 candidature ai David di Donatello 2022).

Hai sempre lavorato davanti e dietro lo schermo: regia, produzione e recitazione. Sei alla ricerca della tua dimensione o l’hai trovata nel movimento fluido tra i vari ruoli?

Mi sento di dire di esserci quasi “nata e cresciuta” sul set. Mia madre, costumista di cinema, mi ha portato alle riprese di tutti i suoi film fin da piccolissima ed è per questo che ho sempre ritenuto il set cinematografico un po’ come casa, anche più di quanto non lo fosse la mia casa reale. Per quanto riguarda Ninfe recitare, oltre che dirigere, è stata una necessità quasi pratica (essendo un corto molto sperimentale, girato per sondare il terreno per un lungometraggio sullo stesso soggetto) e interpretare le ninfe è stato un lavoro molto duro: dalla nudità nel gelo di febbraio, alle lunghe notti nel fango e nella terra… non avrei voluto mettere nessun altro in quelle condizioni terribili se non me stessa. In Luna piena invece la necessità era un po’ diversa, più che altro catartica. Questo cortometraggio è molto personale, ispirato a quello che ci è successo mentre giravamo A Chiara di Jonas Carpignano e tutto è cambiato a causa della pandemia. Il bagaglio emotivo che ho affidato a Lina era più che altro il mio, per me aveva senso affrontare questa avventura in prima persona. In futuro deciderò istintivamente come ho fatto sino a ora se sarà il caso di interpretare oltre che dirigere, ma per la versione lungo di Ninfe penso che mi dedicherò unicamente alla regia.

C’è stato un momento decisivo nella tua carriera? Qualcosa che ti ha fatto capire di essere sulla strada giusta?

Vari momenti, direi. Innanzitutto quando ho realizzato che il gruppo di collaboratori che abbiamo creato in questi anni girando i film di Jonas (con cui ho lavorato per tutta la trilogia) è come una vera e propria famiglia. D’altra parte come dicevo prima, il set per me è la mia tana, collaborare con qualcuno con cui ti senti affine e sentire di essere parte di un’operazione comune dà senso a tutto. Un altro momento illuminante è stato mentre giravo Ninfe. C’erano stati dei problemi in un magazzino e tutta la pellicola che avevamo girato era rovinata. L’indomani tornammo per rigirare le scene in quel piccolo villaggio abitato unicamente da una famiglia pastori. Era l’alba e mi aspettavo che ci mandassero a quel paese, invece ci hanno accolto incredibilmente contenti e calorosi; d’improvviso il cielo si fece tutto rosa e l’aria profumava di montagna, girammo in una sorta di idillio. Pensai: “Questa è la magia del cinema”.

Ninfe di Isabella Torre
“Ninfe”, di Isabella Torre.

Come funziona il tuo processo creativo?

Di solito è tutta colpa o merito del mio inconscio. Sono una persona piuttosto inquieta da sempre, il mio mondo interiore può essere sovrastante, se non lo libero rischio davvero e questo è il mio modo per farlo. Poi naturalmente le persone sono l’altra faccia della medaglia: sono piena di personaggi nella mia testa ispirati alle persone che mi capita di conoscere, anche quelli vanno liberati ogni tanto per evitare “assembramenti”.

Ninfe mostra la terra d’Aspromonte come un luogo mistico, incantato e a tratti spaventoso. L’archeologo e i suoi due uomini sono lì per disseppellire un tesoro, ma dal terreno finisce per venir fuori molto di più, tra la nebbia emergono tre ninfe che causano una serie di misteriosi avvenimenti.

L’Aspromonte è un luogo unico. Una terra fatta di contrasti, con atmosfere che ti rapiscono e la nebbia… la nebbia è un’entità a sé. Sono arrivata in Calabria sette anni fa e ho sempre frequentato l’Aspromonte, eppure non c’è una volta che abbia vissuto un’esperienza simile all’altra lassù. La verità è che la potenza della natura di quel posto ha influenzato anche la gente che lo abita, che ne ha assunto le stesse contraddizioni e la stessa unicità. La componente surreale del film è il mio modo per indagare anche a livello sociale e culturale questa terra.

Sia Luna piena che Ninfe hanno in comune una forte simbologia naturale, una forza misteriosa ma reale che ristabilisce l’ordine e riprende il controllo su tutte le cose in modo implacabile.

Anche qui viene tutto dal mio inconscio: il mondo in cui viviamo e le dinamiche che regolano la nostra vita sono motivo di grande ansia per me. Sono profondamente convinta che dovremmo tutti ritornare alla terra, allo scandire del tempo dettato dalla natura. È l’unica vera bussola che potrebbe aiutarci a riprendere le redini delle nostre vite. Mentre giravamo Ninfe ci ritrovammo ad aspettare che la famiglia del villaggio si svegliasse per iniziare a girare: il giorno prima ci avevano detto a che si sarebbero svegliati, ma invece dormivano ancora tutti. Ecco più, tardi risolvemmo l’arcano: loro non cambiano mai l’orologio a seconda dell’ora legale o solare, hanno un unico riferimento per dare inizio alla loro giornata, ovvero, come dicono loro, “le bestie”. Quando si svegliano le capre, inizia la giornata. Non c’è altra convenzionalità a regolare il giorno e la notte. Lo trovo magnifico

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Il cinema reale e intimista di Saverio Cappiello

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Per il giovane regista pugliese Saverio Cappiello la provvidenza è la mano che guida sia il cinema che la vita; la camera può solo fermare gli istanti di felicità concessi poco prima che tutto crolli, attimi che si codificano in un linguaggio cinematografico sperimentale ma sempre puro.

Andando a fondo nei suoi lavori come Mia sorella, Jointly Sleeping in Our Own Beds, La vita mia e Celentano non può andare in barca, scopriamo che il nodo nevralgico, il fulcro del suo cinema reale e intimista, sono le relazioni e a volte il loro fallimento. Al centro delle storie c’è sempre una precisa sfumatura di solitudine che accomuna Pauline, Celentano, Vanni, la nonna che scorda (o dice di aver scordato) le atrocità dei campi di concentramento e Saverio stesso.

Qual è stato il tuo primo approccio al cinema?

Sin dai tempi del liceo ho avuto la necessità di scrivere racconti e poesie. Era un’esigenza forte perché la scrittura era un filtro che mi permetteva di trovare la bellezza nella realtà che mi circondava. Man mano che pubblicavo i miei primi testi su riviste ai tempi dell’Università, ho avuto la prima forte urgenza di cambiare mezzo. Il pubblico che ne usufruiva era assai specifico e mi dispiaceva che questa mia ricerca della bellezza in quei luoghi venisse totalmente persa dalle persone che mi avevano ispirato. Non voglio entrare troppo nel merito, ma penso che il cinema abbia avvicinato i protagonisti all’opera.

In Jointly Sleeping in Our Own Beds, i due protagonisti (tu e Pauline) vivono una relazione molto moderna, via chat e Skype. Ci sono varie gradazioni di distanza tra te e lei: la lingua, lo schermo, la posizione geografica, eppure dormire insieme è una vicinanza così intima da annullare di colpo ogni barriera. Più che un film di critica sociale, mi sembra la visione poetica di un discorso amoroso.

Sì, dici bene. Non volevo raccontare niente di più che una storia d’amore. Sono consapevole che la peculiarità della relazione che ho avuto con Pauline possa suscitare riflessioni sulla società e sono sempre contento di sentirmele dire, ma non è quello che ho voluto raccontare. Anzi, ho cercato di dimostrare che la magia della realtà digitale esiste nella stessa misura della realtà fisica. Forse c’è qualcosa di ancora più bello.

Scena da “Jointly Sleeping in Our Own Beds” di Saverio Cappiello.

Il tuo è un cinema del reale intimistico, caratterizzato da una visione molto personale del presente. Per Pasolini il cinema era un’esplosione del suo amore per la realtà, per Truffaut invece era un tradimento. Tu la realtà la racconti o la tradisci?

I cineasti sono sempre stati ossessionati dalla realtà. Il documentario negli ultimi venti anni – da quando è entrato di prepotenza nei festival e nelle sale – ha mostrato quanto l’idea che avevamo della realtà fosse limitata. In un documentario possono capitare cose impensabili, coincidenze assurde che non potresti mai permetterti di scrivere in un film di finzione perché considerate inverosimili. E la verosimiglianza è un codice che ci siamo costruiti nel cinema per capirci a vicenda agevolmente, ma non ha niente a che fare con ciò che è reale. Siamo ossessionati, come registi, perché tendere alla realtà è come allungare il braccio verso l’infinito. Per me non è raccontabile nella sua interezza ed è presuntuoso pensare di poterla tradire, perché si tradisce già da sola, continuamente.

Ti sei prestato anche come attore per il videoclip di Adesso, brano sanremese di Diodato e Roy Paci che affronta la stessa tematica di Jointly Sleeping, di cui sei tu stesso protagonista. Essere diretto da qualcun altro è un’esperienza che rifaresti?

Non credo di essere un buon attore e nemmeno mi piace particolarmente essere diretto da altri registi, a meno che non mi lascino molta libertà. Le esigenze di quel videoclip però mi avevano dato la possibilità di improvvisare e di lavorare con Sara Mondello. Avevo presentato da pochi mesi Jointly Sleeping a Pesaro ed ero fresco dell’esperienza. Credo, con il videoclip, di aver chiuso il ciclo di ricerche sull’amore a distanza.

Sei co-fondatore del collettivo di registi Santabelva, di che si tratta?

Santabelva è nato quando vivevo a Milano. È un collettivo formato da Niccolò Natali, Henry Albert, Gianvito Cofano, Nikola Lorenzin e me, un patto di sangue dove ci supportiamo sempre, unendo le energie anche sul lavoro, per sentirci meno alienati. Un problema comune quando sei in città come Milano. Con loro ho provato una regia a quattro teste, con il montaggio di un altro Santabelva ad honorem, Alessandro Belotti, su un documentario dal titolo Corpo dei giorni. Il documentario intreccia storie di vari personaggi confinati in un casale sperduto, tra i quali un ex terrorista all’ergastolo.

Mi parli delle esperienze fatte nelle residenze artistiche?

È un’opportunità straordinaria per i giovani autori. Ho realizzato Mia sorella all’interno di una residenza artistica a Enziteto dove, però, giocavo in una zona che conosco molto bene e grazie al quale ho avuto diversi riconoscimenti, tra cui anche la candidatura ai David di Donatello. Una sorpresa, visto che il budget non è mai il forte delle residenze artistiche, ma grazie a questo spirito di adattamento emergono spesso altre qualità dei lavori come la sincerità e l’urgenza. Laguna sud, la residenza artistica di Andrea Segre, è stata un’altra sfida perché andavo in un posto che non conoscevo affatto, Chioggia. Lì ho incontrato Loredano (aka Celentano) che guardava il mare fischiettando un motivo malinconico e in pochi giorni ho creato una storia, girato e montato tutto da solo. Il tutoraggio di Andrea Segre è stato indispensabile, tra l’altro in Celentano non può andare in barca ho lavorato con diversi personaggi comparsi nel suo film Io sono Li.

Scena da “Celentano non può andare in barca” di Saverio Cappiello.

La Calabria Film Commission insieme a Picture Show e Verso Feature sta producendo la tua opera prima, L’altra via, cosa ci puoi dire di questo progetto?

L’altra via è la storia di un incontro tra un calciatore disilluso di serie C, che entra nel mondo del calcioscommesse per mantenere il suo stile di vita, e un ragazzino che vede in lui un idolo, all’oscuro degli affari con la malavita locale. È un film che ha come sfondo i giorni precedenti all’inizio del mondiale di calcio del 1990, nella periferia di Catanzaro. Mi piacerebbe creare un tempo sospeso tra il passato e il presente, un 1990 con i pezzi dei Gazosa alla radio, e la vecchia poesia del calcio dove l’atmosfera viene retta dalle relazioni umane e sospinta da un vento di realismo magico.

Hai altri film in cantiere?

C’è un film che ho sempre voluto fare ed è sempre stato in cima ai miei pensieri. È una storia che ho scritto dieci anni fa, una stesura molto sofferta. È tuttora sofferto e complesso il suo adattamento cinematografico che stavo realizzando con Martina Di Tommaso, scomparsa recentemente. Lei più di ogni altro ha creduto in questo soggetto. La bella è una fiaba nera sospesa nel tempo. Parla di Laura che vive a Ponto, una città pugliese, con il fratello Tano. Qui persiste un’antica morale che si tramanda di generazione in generazione e che vede di cattivo occhio l’etica moderna, improvvisamente accelerata dall’arrivo di internet. Laura, dunque, che è figlia di questa nuova etica, si trova a scegliere se credere nella magia e accettare l’antica morale, oppure fuggire distante nella favola della modernità, che si dimostra anch’essa malata e feroce.

Mattia Epifani e il monaco ortodosso formato Instagram

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Il leccese Mattia Epifani, classe ’85, è attivo come regista dal 2010. Rockman, il suo primo documentario, è il progetto che ha dato il via alla collaborazione con Mattia Soranzo e Corrado Punzi della Muud Film. Nel 2015 ha girato Il successore, facendosi notare nei festival del panorama internazionale, a questo lavoro sono seguiti i cortometraggi Et in terra Pacis (2018) e God Dress You (2021), una co-produzione Italia/Grecia in concorso al Clermont-Ferrand. Mattia Epifani porta avanti un’idea di cinema innovativa ma aderente alla realtà, tesa a svelare le verità nascoste dell’animo umano. Un segreto – che sia esso innocuo, minuscolo o pericoloso – è il cuore pulsante di tutte le storie.

In God Dress You racconti la parabola di un monaco ortodosso che mostra sui social la sua passione per l’alta moda. Pater Athanasius venera la bellezza degli oggetti come venera il suo Dio, in un culto capitalistico formato Instagram. Sono le cose i nostri nuovi santi?

In una condizione di isolamento anche le cose più effimere possono essere un mezzo per mantenere un contatto con gli altri e diventare addirittura veicolo di un’ideale di bellezza ultraterrena o per lo meno così la pensa il protagonista Pater Athanasius. Il problema posto da God Dress You non è tanto la sostituzione dell’oggetto della fede, quanto le conseguenze dell’utilizzo dei social. Essendo totalizzanti e invasivi iniziano a nutrirsi del nostro tempo compromettendo l’attenzione, gli equilibri quotidiani, le idee e di conseguenza anche i nostri valori.

L’idea è nata da un articolo di giornale, cosa ti ha colpito di questa storia?

Ci è sembrato da subito un ottimo punto di partenza per raccontare una storia su come la tecnologia trasforma la nostra intimità. Insieme allo sceneggiatore Francesco Lefons, abbiamo pensato alla dimensione del monachesimo ortodosso ed è iniziata poi una ricerca sul campo nelle zone della Grecia occidentale. Siamo stati accolti dai monaci del monastero Panagia Mprousiotissa, a parte il protagonista che è interpretato dal performer Panagiotis Samsarelos, tutti gli altri personaggi sono veri monaci.

Il successore di Mattia Epifani
“Il successore”, documentario di Mattia Epifani.

Qual è il tuo processo creativo?

Parto dall’idea che una storia per essere raccontata, debba avere le potenzialità per essere universalizzata. Anche la più individuale, la più intima, deve sempre fare da specchio a una storia collettiva. Per questo anche vicende come quella di Alfieri Fontana ne Il successore o di Pater Athanasius in God Dress You per me esprimono qualcosa che va al di là di ciò che raccontano. In questa ricerca è necessario sempre partire dalla realtà e mantenere con essa un contatto durante tutta la fase di scrittura, di riprese e anche di montaggio. Ho in questo la fortuna di lavorare con una squadra consolidata che condivide con me questa missione.

Muud Film è un collettivo, lavorano con te il regista Corrado Punzi e il montatore Mattia Soranzo, come nasce e quale idea di cinema portate avanti?

Muud è nata nel 2009 come progetto di formazione audiovisiva, io e Corrado Punzi siamo subentrati qualche anno dopo. Oggi Muud, oltre che una casa di produzione, è una sorta di collettivo allargato del quale fanno parte anche Francesco Lefons, Giorgio Giannoccaro, Gianluigi Gallo e Gabriele Panico. Quello che ci accomuna è la ricerca di un cinema che nasce e si sviluppa a contatto con la realtà. Cerchiamo storie, personaggi o luoghi capaci di rivelare un qualche tipo di verità nascosta, una verità che diventa poi il cuore del film. Un modo di intendere il cinema che si traduce in una pratica quanto più diretta e istintiva possibile, che implica l’impiego di troupe molto ridotte, spesso solo camera e suono.

Stai lavorando a qualcosa?

Insieme a Francesco Lefons sto sviluppando la scrittura di un film ambientato nel Carcere Borgo San Nicola di Lecce e tratto da un romanzo autobiografico. È un progetto nato dall’esperienza fatta come operatore culturale con la compagnia Io ci provo. Durante gli anni di lavoro a Borgo San Nicola ho iniziato a pensare a un film che potesse raccontare l’esperienza detentiva come momento di demolizione dell’individuo e la struttura carceraria come luogo di una possibile ricostruzione del sé. Ho portato avanti nel tempo una ricerca su storie e personaggi appartenenti all’universo carcerario finché non ho incontrato questo libro autobiografico che è la sintesi di tutto quello che vorrei dire su quel mondo.

 

Valia Santella, quando il cinema è scrittura

Valia Santella ha scritto pellicole di successo come Il traditore (trionfatore l’anno scorso ai David di Donatello) e Fai bei sogni di Marco Bellocchio, Euforia di Valeria Golino, Mia madre di Nanni Moretti, Napoli velata di Ferzan Ozpetek. Una carriera svolta tutta sul campo, con una capacità maieutica rara che le ha permesso di tirar fuori i migliori film possibili dalla letteratura, ma anche dai registi che ha affiancato. Il suo ultimo lavoro è la sceneggiatura di Tre piani (qui il trailer), il nuovo film di Nanni Moretti tratto dall’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, scritta con Federica Pontremoli e Nanni Moretti: nel cast lo stesso Moretti, Margherita Buy e Riccardo Scamarcio. I tre piani di un palazzo alle porte di Tel Aviv sono stati trasportati a Roma, come le tre famiglie borghesi protagoniste, per permetterci di scoprire che i tre piani dell’anima non sono dentro di noi, ma nello spazio tra noi e l’altro e nella difficoltà di raccontare delle storie che diventano tali solo se c’è qualcun altro ad ascoltarle.

So che è anche insegnante di sceneggiatura, con un approccio laboratoriale che sono certa sia stato molto apprezzato dai suoi studenti di Bobbio, e che sarà molto apprezzato anche nei suoi corsi futuri, come quelli che terrà alle Officine Mattòli. Cosa può dirmi di questa esperienza?

Sono arrivata alla scrittura cinematografica attraverso un percorso un po’ particolare. Ho iniziato prima a lavorare sul set, come segretaria di edizione e aiuto regista, poi ho firmato alcune regie e, infine, è arrivata la scrittura per altri. Sono sempre stata mossa dalla passione per il cinema, dalla curiosità e dalla voglia di imparare. Ancora oggi queste caratteristiche mi permettono di affrontare il mio lavoro con passione. Durante i corsi di sceneggiatura, dico sempre che io non ho regole o metodi da insegnare, ma, semplicemente, posso mettere la mia esperienza al servizio del lavoro che faremo insieme durante il corso.

Ha una routine, delle abitudini di scrittura? Le riunioni di sceneggiatura ora sono online ma dal vivo immagino che siano fatte da dinamiche molto diverse, da momenti morti, di decompressione.

Non ho una routine. Mi piace lavorare al mattino molto presto, ma ogni tanto mi capita di fare “nottata” come si faceva a scuola. Le riunioni online ci hanno in qualche modo salvato, nel senso che ci hanno permesso di non interrompere il dialogo con il gruppo di scrittura. Alla fin fine, soprattutto tra persone che si conoscono e hanno già lavorato insieme, le dinamiche non cambiano molto e si riesce a lavorare bene comunque. Il problema del lavoro online è che si tende a fare incontri, riunioni, appuntamenti a ciclo continuo, senza soluzione di continuità. Le pause, invece, sono molto importanti, spesso le idee arrivano proprio appena hai lasciato la riunione e stai prendendo l’autobus per tornare a casa. Non uscire più dalla propria casa ci porta a guardare sempre meno il mondo, e questo è gravissimo.

Nell’intervista ai David su Il traditore, Marco Bellocchio parla di una linea sottile tra la psicologia di un mafioso, come Tommaso Buscetta, e la nostra. Che lavoro compie per scrivere di un personaggio così controverso?

Lavorare a un film così importante come Il traditore è stata un’esperienza per me molto formativa. Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca per riuscire ad avvicinare un personaggio così scivoloso e lontano da noi. Da spettatrice non amo i film in cui gli autori prendono una distanza o giudicano i propri personaggi, ma qui la questione era diversa: non si voleva in nessun modo fare l’apologia di Buscetta. Quello che abbiamo provato a fare è stato da una parte cercare gli aspetti della sua vita e della sua personalità che fossero comprensibili a tutti, come il suo rapporto con i figli, con la moglie, con la sua famiglia d’origine e il grande tema del tradimento, dall’altra parte, però, abbiamo messo in evidenza tutte le colpe e i crimini commessi da Buscetta.

Verso il 2010 ha fatto parte del Maude – il Movimento delle lavoratrici dello spettacolo. Sono passati 10 anni, c’è stato il Me Too, ma le statistiche degli studi di genere mostrano un gender gap ancora profondissimo. Cosa ne pensa da professionista e attivista coinvolta?

Il cinema e l’industria cinematografica sono specchio della società che li produce. Se guardiamo le altre industrie italiane, culturali e non, ritroviamo gli stessi problemi. Credo che la questione sia molto profonda e vada affrontata su diversi piani. Da una parte bisogna fare un lavoro culturale che parte dalle scuole, dalle famiglie e dalle relazioni. Dall’altra realmente la politica deve garantire pari opportunità a tutte e tutti.

Valia Santella
Euforia, opera seconda di Valeria Golino, sceneggiata anche da Valia Santella.

Eppure è riuscita a ritagliarsi uno spazio, a lavorare con registe come Valeria Golino e sceneggiatrici come Francesca Marciano e Federica Pontremoli: in che modo sono nate queste collaborazioni?

Lavoro con molte colleghe donne, anzi, forse lavoro più spesso con donne che con uomini, ma quante registe ci sono? Quante direttrici della fotografia? Nell’industria cinematografica questi due ruoli sono considerati ruoli di potere e di responsabilità e vengono affidati ancora troppo poco alle donne. Poi, per come la vedo io, il lavoro da fare è proprio quello di abbattere una certa idea del potere. Troppo spesso si ha ancora un’immagine del regista come un generale che deve comandare il set. Io credo, invece, che i film siano opere collettive, il regista è qualcuno che ha una visione del mondo, un punto di vista che propone ed elabora con i suoi collaboratori.

Nanni Moretti raccontava che all’inizio della sua carriera aspettava che uscissero le recensioni in edicola insieme a un amico, poi ha quasi smesso di leggerle e non ha mai replicato neanche a quelle che sembravano attacchi personali. Che rapporto ha lei con la critica?

Questa domanda apre un discorso molto ampio. Negli ultimi anni, la critica è andata via via sparendo dai quotidiani, e non parlo solo di quella cinematografica, ma anche di quella teatrale, letteraria. Nello stesso tempo sono proliferati blog e siti in cui possono trovarsi cose molto interessanti o molto banali. Diciamo che da spettatrice e lettrice tendo a leggere poco prima di vedere un film o leggere un libro, preferisco non sapere nulla. Rispetto ai film a cui lavoro reagisco in un modo molto prevedibile: sono felice quando se ne parla bene e dispiaciuta, o incazzata, se se ne parla male. Ci sono, però, alcune critiche negative che ti fanno ragionare sul tuo lavoro e, una volta superata la reazione emotiva, possono essere utili, anche se la ferita resta aperta. Bisogna pensare che noi dedichiamo molto tempo alla realizzazione di un film e, quindi, una critica negativa coinvolge non solo il tuo lavoro, ma un pezzo della tua vita.

La maggior parte delle sue sceneggiature sono degli adattamenti, partono dalla letteratura. Cosa deve avere un libro per colpirla e per spingerla a adattarlo?

Credo che gli adattamenti più riusciti siano quelli in cui è evidente l’incontro tra due mondi, due poetiche, due linguaggi. Nella trasposizione cinematografica di un libro molte cose cambiano, e devono cambiare, ma credo che quello che resta integro sia proprio il nucleo più profondo dell’opera di partenza. Pensiamo a un classico come Apocalypse Now rispetto al romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra: diversi contesti storici ma il cuore del racconto è assolutamente lo stesso.

C’è un film o anche una sola scena alla quale è affezionata più di altre? Alla quale ripensa?

Mi capita di ripensare al lavoro che ho fatto precedentemente solo se ho un’occasione per farlo, come un incontro o una lezione, ma non in astratto. Sono affezionata a diversi lavori, anche perché sono legati alla mia vita e alle persone con cui li ho fatti. Più che a una singola scena sono molto legata alla struttura di Mia madre, di Nanni Moretti. È un film che si muove con molta libertà tra presente e passato, realtà, sogni, immaginazione e Moretti riesce a farlo senza che questi passaggi appaiano mai forzati o voluti.

So che non può dire molto, ma da lettrice di Eshkol Nevo ho qualche curiosità sull’adattamento. Come avete scelto Tre piani e cosa lo lega a Nanni Moretti e a lei?

In Tre piani c’è una grandissima tensione morale: i tre personaggi principali si trovano a vivere profondi conflitti etici. Il rigore etico, la responsabilità che ogni essere umano ha nel compiere le proprie scelte, sono temi che hanno sempre fatto parte del cinema di Nanni Moretti e hanno anche contraddistinto la sua partecipazione alla vita pubblica del nostro paese. L’incontro tra questo libro e Nanni è stato immediato.

Cristina Spina: il mondo della danza in 500 Calories

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Regista italiana residente fra Roma e New York, Cristina Spina ha iniziato la sua carriera come danzatrice e attrice, lavorando con Luca Ronconi, Massimo Castri e Carlo Cecchi. E proprio una ballerina è la protagonista del suo ultimo, coraggioso corto, 500 Calories.

Dopo l’esordio sui palcoscenici italiani, Cristina Spina ha debuttato in America quando è stata scelta dalla regista Martha Clarke per un ruolo da protagonista nello spettacolo Kaos di Frank Pugliese al New York Theatre Workshop. Ha proseguito con gli studi alla NYU Tisch School of Arts per iniziare infine a lavorare sui set di Bette Gordon e delle serie House of Cards e City on a Hill. Nel 2016 ha diretto il suo cortometraggio d’esordio E così sia, vincitore del RIFF, e nel 2020 ha scritto e diretto 500 Calories (qui il trailer). Con una regia evocativa e liminale da favola nera Cristina ci parla di un confronto tra un’insegnante e un’ex allieva in cerca di risposte, del trauma generato da un abuso e dai dolori che sopravvivono al tempo tenendoci in ostaggio.

Sei passata dalla danza, al teatro e al cinema, prima come attrice e poi lavorando sui set di film e serie dal successo internazionale. New York ha segnato una svolta nella tua carriera.

Sì, a New York ho incontrato molti professionisti straordinari, non pongono nessun limite alla creatività. Così ho trovato la forza e il coraggio di iniziare a raccontare le mie storie e il cinema per me è il mezzo migliore per esprimere la mia visione. Ma data la mia formazione principalmente teatrale, ho deciso di studiare e, durante una calda estate newyorkese, ho frequentato un corso di regia cinematografica alla Tisch School of Arts di New York e da lì ho capito davvero che volevo essere una regista di cinema. È stato come innamorarsi. Ho subito scritto e diretto E così sia, il mio primo cortometraggio con Tommaso Ragno, Maria Roveran e Sandra Toffolatti, girato in Italia con la fotografia di Stefano Falivene.

Hai continuato a lavorare anche come assistente, che aria si respira sui set americani?

Ho avuto la fortuna di fare un’esperienza magnifica sul set della sesta stagione di House of Cards: ero l’ombra del regista Alik Sakharov, osservavo e imparavo il lavoro di regista di serie TV partecipando al set e alle numerose riunioni che si devono fare con tutti i reparti. Poi, sul set della serie tv City on a Hill ho assistito la regista israeliana Hagar Ben-Asher. Devo dire che l’organizzazione e i talenti che ci sono su questi set sono impressionanti, mi reputo molto fortunata ad aver fatto queste esperienze.

Citando Wisława Szymborska, che ha ispirato un tuo spettacolo teatrale: «Tutte le nostre faccende, diurne e notturne, sono politiche». Pensi che il tuo cinema sia politico?

Condivido con Szymborska che ogni faccenda sia in qualche modo politica, la scelta di vita, il tipo di lavoro che si vuole fare; creare film di qualità in un mondo che pensa solo al consumismo e al denaro è di per sé un atto politico. Ma penso anche che l’arte non debba essere politica nel senso stretto del termine.

In 500 Calories parli di un abuso che la protagonista ha subìto da bambina. Il confronto tra l’ex allieva di danza Tères e la sua insegnante Evangeline è molto forte.

È un progetto a cui tengo molto, nel corto ho raccontato solo un momento della storia, l’incontro dopo 20 anni tra l’insegnante e l’allieva: mi interessava il rapporto tra due donne di generazioni diverse, esplorare come l’insegnante, pur sapendo, non abbia mai detto nulla diventando complice dell’abuso. Mentre realizzavo il corto sapevo già che avrebbe fatto parte di un progetto più grande, perché la storia è densa e piena di imprevisti. Ho iniziato a scriverla sette anni fa, ma soltanto ora sono pronta a raccontarla nella versione estesa.

Il cortometraggio è di ispirazione autobiografica?

Sì, l’ispirazione nasce da un evento realmente accaduto quando avevo tredici anni. La mia insegnante di danza classica mi mandò da un dietologo che mi prescrisse una dieta da 500 calorie, persi 10 chili nel giro di tre mesi per poter essere ammessa all’esame di fine anno della scuola di ballo. Poi nel giro di tre mesi ne ho ripresi 15 di chili, e la storia continua, ma mi fermo qui. Un’altra fonte d’ispirazione per la trasformazione in lungometraggio viene anche dal caso delle ginnaste americane abusate dal medico Larry Nassar.

La tua esperienza nei vari mestieri del cinema che tipo di regista ti ha resa?

Venendo dal teatro ed essendo anche attrice, amo lavorare con gli attori: secondo me bisogna rispettare le diversità di approccio al lavoro, cogliere l’invisibile, sorprendere sempre e farsi sorprendere. Per il resto la pre-produzione è molto importante per me: storyboard, ricerca visuale, entrare in sintonia con il direttore della fotografia, scegliere le location e la troupe. Cerco sempre di circondarmi di persone che stimo e ammiro, la collaborazione con il compositore Rossano Baldini, per la colonna sonora originale, in questo senso è stata una scoperta bellissima. Quando giro praticamente non dormo mai, sono troppo eccitata, ci sono talmente tante cose da fare.

Stai lavorando anche al lungometraggio Rose is a Rose, di cosa tratta? Hai altri progetti?

È una dramedy, parla di immigrazione e sfata il mito del sogno americano. Racconta quanto sia difficile essere un’artista immigrata a New York, rivela intimamente il senso di struggimento e solitudine che una metropoli del genere può suscitare in una ragazza straniera. Alba Rohrwacher e Bobby Cannavale hanno già dato la disponibilità per il cast. Ho anche iniziato a scrivere un trattamento per una serie, spero presto di trovare produttori ispirati e agguerriti!

Il Collettivo Asterisco e la mucca più famosa di Instagram

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Paolo Bonfadini, Irene Cotroneo e Davide Morando sono tre giovani sognatori che hanno unito le forze per farsi spazio ai margini dei due poli istituzionali del cinema e della TV. Facendosi strada nella periferia del cinema italiano, hanno dato il via a un’attività itinerante e dinamica che si è poi concretizzata nel Collettivo Asterisco: una realtà giovane e fluida che ha permesso al trio di lavorare a videoclip, commercial, documentari e il mockumentary Gea – L’ultima mucca. Con equilibrio e lavoro di squadra, il collettivo è riuscito a restituire al giovane cinema indipendente una promessa di sincera leggerezza.

Come nasce Collettivo Asterisco?

Paolo Bonfadini: L’idea del collettivo è nata durante il primo lockdown, io e Davide scrivevamo già insieme da tempo e con Irene ho lavorato costantemente durante il triennio alla Scuola di Cinema Luchino Visconti. Abbiamo deciso di creare qualcosa che ci desse un’identità unica per lavorare ai progetti che avevamo in mente ed è nato Asterisco. Diciamo che è stato il naturale sviluppo della nostra collaborazione come trio, siamo abituati a condividere sempre idee e progetti nuovi e con l’esperienza abbiamo trovato la giusta alchimia.

Tutti e tre ricoprite vari ruoli, come è organizzato il vostro lavoro?

Paolo Bonfadini: Mi occupo principalmente di regia e di scrittura, il mio percorso è molto legato alla narrazione, ma sono anche musicista. Il nostro approccio è fluido, forse anche per questo ci troviamo a nostro agio con la forma del collettivo, cerchiamo di metterci sempre a disposizione l’uno dell’altra. Il nostro ultimo cortometraggio – Gea – ci rappresenta molto in questo senso: è diretto, sincero, colorato. Cerchiamo di trasmettere al pubblico lo stesso entusiasmo un po’ avventuroso con cui ci accostiamo al lavoro e quando ci riusciamo andiamo a letto felici. Tranne Davide, lui resta sveglio a montare.

Davide Morando: La struttura del collettivo Asterisco è molto chiara per noi: tutti possono dire la propria opinione e l’idea migliore vince sempre. Cerchiamo di lavorare con quest’ottica mantenendo ordine e precisione. Io mi occupo di regia e montaggio, ho iniziato come montatore diversi anni fa e questo mi dà un vantaggio anche nel lavoro di regista perché riesco ad avere una visione molto chiara del film, il che aiuta a ottimizzare i tempi.

Irene Cotroneo: Io seguo la parte di produzione ma ricopro soprattutto il ruolo di aiuto regia. Il cinema per me è stata una svolta, mi ha fatto capire cosa voglio davvero fare nella vita. Ho iniziato con piccoli set pubblicitari per poi lavorare su grandi produzioni televisive, cosa che mi ha aiutata ad adattarmi a progetti molto diversi tra loro. Per Gea mi sono ritrovata nell’insolita veste di regista insieme a Davide e Paolo. Non è facile dirigere un film con tre teste che hanno idee diverse, ma siamo riusciti a trovare il nostro equilibrio. C’è di buono proprio il fatto che siamo in tre: se c’è qualche dubbio, vince la maggioranza!

Siete riusciti a ritagliarvi uno spazio creativo atipico, puntando sulla varietà delle vostre competenze e su una certa mobilità.

Davide Morando: Tra di noi scherziamo spesso sul fatto che “viviamo in autostrada”. Siamo sempre in viaggio. In un certo senso ci consideriamo un collettivo itinerante, ci piace scoprire sempre nuovi luoghi dove poter girare. Abbiamo sviluppato molte competenze diverse perché siamo accomunati dalla curiosità, ci piace studiare, se c’è qualcosa che non sappiamo fare ci sbattiamo la testa fino a che non abbiamo imparato a padroneggiarla. Però quello che ci guida in ogni nostro lavoro è l’amore per le storie.

In Gea scompaiono 300 mucche a Serravalle Langhe, tutte tranne una: appunto Gea. Quando la sua pagina Instagram diventa più popolare di quella di Barack Obama, il suo staff organizza una visita ufficiale affinché l’ex presidente – noto amante delle mucche – possa conoscere Gea. Da dove nasce questa idea?

Paolo Bonfadini: Il film è nato durante la partecipazione a un festival estivo dedicato al mockumentary: a fine agosto 2020 siamo arrivati a Serravalle Langhe e in una settimana abbiamo ideato, scritto, girato e montato il cortometraggio. È stata una settimana frenetica e bellissima, una sfida da ogni punto di vista. Gea è un film indipendente nel vero senso della parola, totalmente libero. L’idea è nata dai nostri feed di Instagram: sembra assurdo ma i social sono pieni di profili dedicati ad animali con migliaia di follower. Il film ha un tono favolistico ma, allo stesso tempo, ci interessava raccontare il paese e le persone che abbiamo incontrato nel modo più genuino e sincero possibile. Quindi in fin dei conti è tutto vero tranne Gea.

Vi siete dunque ritrovati a lavorare con persone che non avevano mai recitato prima.

Irene Cotroneo: Sì, l’intero cast del film è composto da abitanti del paese senza alcuna esperienza nella recitazione, si sono trovati a dover raccontare in modo convincente una versione surreale della loro realtà quotidiana. Ci hanno sorpreso positivamente e a molti spettatori è rimasto il dubbio che la storia fosse in gran parte vera.

Come avete trovato Edo, il protagonista del cortometraggio?

Davide Morando: Non dimenticherò mai la prima volta che abbiamo incontrato Edo. Stavamo girovagando per il paese per delle ricerche, abbiamo visto un uomo dall’altra parte della strada, stava tagliando l’erba a torso nudo con dei jeans sgualciti, l’immancabile panama in testa e degli occhiali che gli coprivano tutta la faccia. Ci ha sorriso ed è stato un colpo di fulmine. Abbiamo passato giornate ad ascoltare le sue storie e quell’energia è diventata il cardine del nostro film.

A cosa state lavorando adesso?

Davide Morando: Ve lo sveliamo in anteprima, stiamo preparando il lungometraggio di Gea. Inoltre, stiamo progettando un lungometraggio di genere thriller/mistery intitolato Gotland. La storia ruota attorno al mistero di un labirinto ed è ispirata ad un luogo realmente esistente: il Labirinto della Masone di Fontanellato. Stiamo lavorando alla storia con l’aiuto di Paolo Borraccetti e il supporto di Officine – Fare Cinema e siamo in cerca di un produttore. Gea e Gotland sono due film agli antipodi, sia per genere che per necessità produttive, ma quello che li accomuna è la voglia di far sentire la nostra voce nel panorama del cinema di genere italiano. Nessuna pressione, insomma.