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Raffa, il documentario definitivo su Raffaella Carrà

Adesso possiamo dirlo. Gli ultimi due anni di cinema ci hanno regalato tre pietre miliari tra i documentari biopic che sintetizzano un quadro ricchissimo sull’industria culturale italiana. Tutti doc monografici diretti da grandi registi, tutti con un taglio raffinato che sorvola il genere tenendo incollati al grande schermo anche gli spettatori meno avvezzi al documentario. Sono Ennio di Giuseppe Tornatore, sul genio e la composizione di Ennio Morricone; Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, sul comico e cineasta Massimo Troisi; e adesso Raffa di Daniele Luchetti, sull’artista e autrice Raffaella Carrà, con la vita e l’ascesa di Raffaella Pelloni.   

Il regista romano ha deciso di affrontare questa sfida in maniera cronologica, così con le sue poderose tre ore di montaggio finale assistiamo agli esordi partendo dalla formazione della giovane Raffaella fino ed oltre il successo, cioè il passaggio all’icona. Migliaia di ore di contributi sono state visionate dalla squadra di Luchetti e oltre al repertorio televisivo e cinematografico sulla Carrà si susseguono immagini mai viste dalle tournée estere e dalla vita privata. Dolcissima punteggiatura finzionale di Luchetti quella di una bimba che interpreta la giovane Raffella in un vecchio cinema di Bologna, tra sogni ritmati in bianco e nero e futuro radioso. A testimoniarne l’inossidabile dirompenza artistica non solo le condivisioni, gli aneddoti e i pareri di attrici come Loles Leon e Loretta Goggi, registi come Emanuele Crialese e Marco Bellocchio, musicisti come Tiziano Ferro e Bob Sinclair, ma anche showman come Fiorello e Renzo Arbore. Solo per citare alcuni nomi di una lunghissima lista tra autori televisivi, produttori, ballerini, coreografi, costumisti, vecchie fiamme romagnole e parenti. Uno su tutti il nipote Matteo Pelloni. Ognuno ad aggiungere la propria tessera a un mosaico di oltre cinquant’anni di carriera.

L’immagine che Luchetti sottolinea è doppia. Da una parte la Carrà, il nome d’arte che l’ha resa famosa, l’artista che provava per ore, che dimagriva due chili a ogni spettacolo e che ha saputo reinventarsi in Italia quanto in Spagna, nel Sudamerica e addirittura in Fininvest. Quella delle sfide, alcune non vinte, ma molte conquistate, perfezionista e fiduciosa nei suoi collaboratori e nei corpi di ballo. L’artista che ha segnato la televisione insieme a Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Quella che ha beffato la censura Rai negli anni di Canzonissima e che mostrando il suo corpo in modo rivoluzionario iniziò a entrare anche nei cuori della proto-comunità LGBTQ+ combattendo pregiudizi e moralismi parlando di amore libero attraverso il Tuca Tuca e tante altre canzoni e interpretazioni come Luca e Pedro. A proposito, le rielaborazioni e le musiche originali del film sono di Theo Teardo, che ha fatto un pregevolissimo lavoro rievocativo sulle melodie della Carrà. Carrà che fu anche l’artista a deporre simbolicamente due dittature, nella sua insospettabile scia di paillettes. Si trattava di Franco in Spagna nel 1975 e Pinochet in Cile nel 1990, affiancando il proprio successo esplosivo in questi paesi con la morte di entrambe quelle epoche oscure.

Dall’altra c’è Raffaella Pelloni, donna cresciuta sulle sponde adriatiche che si è sacrificata in toto per dare spazio alla Carrà. Pelloni come donna di famiglia, azdora romagnola, spirito matriarcale legatissima ai figli del fratello quanto alla madre e alla nonna, quella donna che le trasmise il sacro fuoco dell’arte, da bambina. È un ottimo fil rouge questo contrasto tra Carrà e Pelloni, tra artista e donna, non solo chiave narrativa, portandoci quasi a indagare su Raffaella attraverso le voci commosse, come quella di Ferro, o incantate come quella di Crialese, su chi fosse la donna dal caschetto biondo più famoso d’Europa. Spesso torna attraverso le sue tante interviste un desiderio di maternità mai appagato, forse motore e freno della sua esistenza più intima.

Raffa di Daniele Luchetti
Raffaella Carrà con Gianni Boncompagni.

Forse più di tutti ha carpito l’essenza della Carrà Caterina Rita, autrice, biografa e storica collaboratrice di Raffaella. Sono le sue riflessioni a costituire le migliori sintesi tra le testimonianze, ma segnaliamo anche Enzo Paolo Turchi, suo primo ballerino dal bianco e nero profondamente legato a lei, e poi l’autore Salvo Guercio, anche tra le firme della sceneggiatura. La Carrà non è stata un semplice personaggio televisivo ma un’icona investita da un successo quasi planetario. Rappresenta un fenomeno pop unico, sociologico se guardiamo al mito che ha lasciato in Sudamerica, e il lavoro certosino di Luchetti le rende un giusto omaggio. Magari arretrando di fronte alla vendita di lacrime nei primissimi piani di Pronto Raffaella negli anni ’80 o davanti allo sfruttamento Auditel delle famiglie separate in Carramba che sorpresa nei ’90. Ma quale icona non ha lati oscuri? E a proposito di ombre e luci, c’è un momento durante uno scroscio di applausi in cui la Carrà è sudata, felicemente stravolta e avvolta da un mantello rosso di paillettes che ricorda Elvis.

Raffa – Il ritratto inedito di un’icona senza tempo esce al cinema oggi 6 luglio, per festeggiare i suoi 80 anni che avrebbe compiuto il 18 giugno ma anche a due anni dalla sua scomparsa. Prodotta da Freemantle e distribuita al cinema da Nexo Digital come evento, la sua biografia sarà nelle sale fino al 12 luglio, ed essendo co-prodotta da Disney+ avrà un’ipotizzabile uscita su piattaforma verso fine anno, ma in forma di mini-serie in tre parti, già nettamente distinte nel film. L’ampio ventaglio di sala sicuramente permetterà altre finestre-evento in caso di un successo che è già abbastanza prevedibile. La Carrà fu rifiutata dal grande cinema, pur essendo comparsa in tante pellicole da giovanissima, e anche di questo parla il suo film, di una rinascita continua. Questo doc è l’occasione per ripercorrere la storia di una donna, dell’icona che ha costruito, della musica, della cultura nazional popolare italiana e degli effetti del successo, delle canzoni e delle musiche che ancora oggi animano le nostre feste e dell’affetto tra il pubblico e una star. Tutto, per una volta, non sul piccolo, ma sul grande schermo.  

 

Questo mondo non mi renderà cattivo. Ma ci regala Zerocalcare

S’intitola Questo mondo non mi renderà cattivo la nuova serie Netflix creata da Zerocalcare. Perché dovrebbe renderci cattivi questo mondo? Perché le ingiustizie si nascondono dietro ogni vicissitudine del nostro eroe Zero. Lui oramai è uno scrittore affermato anche se non ha mai dimenticato le sue origini, lottando o resistendo ogni giorno per i propri ideali. Ma più che altro cerca di non svenderli asfaltandoli come intorno accade a troppi. L’ultimo lavoro di Michele Rech guarda proprio al modo in cui si è cambiati crescendo, ma stavolta nel quartiere Rebibbia il passato ritorna indossando la tuta e la faccia da schiaffi di un vecchio amico bullo. Tornano anche gli amici di sempre come Sara e l’inossidabile Secco, ma soprattutto l’Armadillo impersonato da Valerio Mastandrea.

Il mondo di Rebibbia rappresenta un microcosmo italiano capace d’incamerare, rappresentandole, tutte le beghe e le pecche del Paese a partire da un’effettiva imparità di genere che aspira sempre alla parità. Questa volta i temi scottano più del solito, c’è la preoccupazione per termini inquietanti come “sostituzione etnica” intorno a un centro d’accoglienza che rischia la chiusura. Si parla in maniera tragicomica di un’Italia che bolle di rabbia, ma senza perdere mai leggerezza, comicità e poesia l’autore ci porta proprio vicino al fuoco scatenante spiegandocene le dinamiche. La periferia di Zerocalcare trascende dall’esistenzialismo metropolitano assurgendo a commedia di vita e raggiungendo sempre catarsi su amare prese di coscienza.

Se Strappare lungo i bordi si poneva come un coming of age, un diario di rivelazione, accettazione di sé stessi e crescita dei vari personaggi, nel 2023 si fanno i conti con le aspettative tradite dal proprio operato e con certe scelte adulte che potrebbero minare quanto messo insieme finora. Cosa si cela dietro lo sconforto per la sconfitta? E perché nella vita si continua a perdere? Viene da chiedersi di fronte ai personaggi vinti. “A me non me se bevono! Io ho fatto ‘na serie co’ Netflix, ormai faccio come cazzo me pare!” Si lascia sfuggire Zero sfogandosi al telefono con la mamma Chioccia. La sua posizione rispetto allo scenario che ha intorno è ultra-pasoliniana. Nel senso che se quest’ultimo raccontò la periferia vivendola in prima persona ma da estraneo che sceglieva di essere lì, Zero è la mosca bianca che gioca in casa e sceglie di restare per vivere e raccontare il suo habitat sociale dall’interno. L’imbarazzo del successo e la lotta per restare coerenti emergono chiaramente da questa nuova serie.

Poi non manca il carrozzone di battute destinate a diventare tormentoni dei millenial e situazioni paradossali di pura comicità keatoniana. Buster Keaton era il comico triste, che non rideva mai. In un certo modo anche il personaggio fumettistico Zero è così, riuscendo a ottenere sempre il sorriso del suo pubblico. La risata qui però non è l’obiettivo, ma il mezzo, uno dei tanti, quello più facilmente intercettabile in superficie per catapultarci in un mare di contraddizioni sociali, mancanze politiche e insoddisfazioni popolari che ritrae a perfezione il sottobosco emotivo dell’Italia di oggi.

Così Mastandrea col suo Armadillo dispensa consigli per laurearsi all’Università della Strada mentre i “falliti rancorosi” vengono contrapposti dall’amara riflessione di Calcare a “quelli magnati dar senso de colpa, gli esecrabili, quelli che hanno svoltato da soli”. Svoltare da soli lasciando indietro gli altri, il gruppo. E tra questi Cesare, l’amico bullo, ritornerà da un inferno ancora fumante. Alla fine sono gli amici quelli che contano nella vita di Zero. E il rispetto degli altri, il vero bug, ostacolo, che questo mondo dimentica cercando di renderci cattivi.

Prodotto di punta per la lungimirante Netflix che si è accaparrata il genio di Rech, debutterà dal 9 giugno con tutte le sue sei puntate da circa mezz’ora l’una. La serie di Rech fa bella mostra di un’animazione già iconica e di una regia sempre sua piena di raffinatezze e rimandi stilistici a tanto cinema cult spaziando da Robocop a Guy Ritchie, non evitando mai frecciatine a prodotti della nostra industria culturale, sonnolenti come i Don Matteo o adrenalinici come Breaking Bad, resi parodia di sé stessi nelle locandine che spesso appaiono sullo sfondo. E forse i più gustosi easter egg di questa serie.

 

Denti da squalo, l’opera prima prodotta da Gabriele Mainetti

Con la sua Goon Films ha già co-prodotto i suoi primi due lungometraggi da regista Gabriele Mainetti, ma con Denti da squalo inizia l’avventura da produttore puro lasciando la macchina da presa a Davide Gentile. La sua opera prima viene da soggetto e sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, premiati con il Solinas nel 2015. Walter è un tredicenne minuto ma coriaceo. Ha perso il papà, vive con una madre apprensiva e la sua estate ciondoloni sul litorale vicino Roma si trasformerà in un’avventura indimenticabile quando s’imbatterà in una grande villa abbandonata dove nella piscina vive uno squalo.

Walter ha il volto di Tiziano Menichelli, attore esordiente che a partire dallo sguardo regala al suo personaggio una solida consapevolezza del mondo che lo circonda, più di quanto la sua età dovrebbe fargli dimostrare. Al suo fianco Stefano Rosci nella parte dell’amico scappato di casa, un po’ bullo e un po’ bambacione. L’estate è da sempre considerata un momento di crescita, piccole e grandi prove fino allo scontro con il mondo dei grandi. Fin qui tutto può essere ascritto al classico coming of age, però Mainetti è riuscito a mettere insieme un nuovo discreto esordio registico con gli echi inevitabili di film come Lo Squalo e Free Willy. Addirittura la primissima scena da spiaggia, con rispettosi distinguo dal maestro americano, ricorda quella di Spielberg. Lo squalo simboleggia forza, pericolo e indipendenza selvaggia, ma i due ragazzi dovranno prendersene cura. Mentre la mamma chioccia e nostalgica, Virginia Raffaele, fatina buona in parannanza ma con l’anima malcelatamente ammaccata dal lutto, gravita intorno a questi due Pinocchio e Lucignolo dalla parlata romana. Ragazzi che a volte, in quei viali assolati ricordano per spensieratezza e incoscienza i quattro ragazzotti di Stand by me.

Riferimenti letterari e cinematografici, almeno a detta degli sceneggiatori sono i Goonies, Totti e Italo Calvino. Un bel range assortito, ma in un modo molto curioso se ne trovano effettivamente tracce. Poi arrivano anche i veterani del cast. “Mi è capitato altre volte di lavorare con ragazzi così giovani. Ma lui è  di un’onestà recitativa rara. Di solito i bambini fanno i bambini. Invece lui è stato veramente forte nel proporsi senza filtri, in modo molto maturo. Sei un piccolo DeNiro”. Ha detto Edoardo Pesce a Tiziano Menichelli durante la conferenza stampa di presentazione parlando dell’approccio del giovane attore alla recitazione sul suo personaggio. E proprio Pesce, fedele ai tanti ruoli da duro che il cinema finora gli ha cucito addosso, prende a prestito camicia hawaiana e zoccoli di legno a questo picaresco boss locale, caratterizzandolo con il marchio di fabbrica della sua veracità al tempo stesso minacciosa e ironica, forse coltivata guardando anche lui da ragazzo i film di Scorsese. È marginale la parte di Pesce, come quella di Claudio Santamaria, solo in quanto a minutaggio, ma restano entrambi iconici, sognati e desiderati dai piccoli protagonisti. Santamaria e Pesce costituiscono in un certo senso i due poli per il micromondo dei ragazzi. Presenze più simili a cameo, ma fondamentali per questo racconto che rinfresca l’estate con una poetica naturalistica delle immagini.

Denti da squaloDistribuito in oltre 200 copie da Lucky Red a partire dal’8 giugno, Denti da squalo potrebbe venir definito favola moderna con l’ambizione di conquistare il pubblico estivo di giovani e non, un po’ come fece lo scorso anno, contro ogni pronostico, l’ultimo lavoro di Cronenberg: Crimes of the future. Ma Denti è decisamente migliore, pur non prodigioso quanto potenzialmente poteva essere. Due ultime menzioni le meritano lo squalo e le musiche. Il primo realizzato fondendo in postproduzione un animatronic di un paio di metri con la classica CGI. Il risultato venuto fuori non delude minimamente, anzi resta ammirevole l’astuzia con la quale la regia ne ha ottimizzato i necessari movimenti e le migliori inquadrature intorno ad essi. Necessità in virtù anche per le seconde, composte da Mainetti insieme a Michele Braga, stesso duo anche in Freaks Out e Lo chiamavano Jeeg Robot. Altro bel marchio di fabbrica che riesce a rendere la giusta magia sonora avvicinando empaticamente lo spettatore alle emozioni dei personaggi sul grande schermo.

Il sol dell’avvenire. Il Moretti che aspettavamo da tanto

Dopo la prova opaca di Tre piani torna da protagonista Nanni Moretti. Dalle prime immagini Il sol dell’avvenire trasmetteva già buone sensazioni, ma alla visione si rivela come una folgorante rinascita. Il suo alter ego è Giovanni, regista autoriale e navigato, che tanto gli somiglia, alle prese con il suo set ambientato nel quartiere Quarticciolo di una Roma del ’56, dove il Partito Comunista raccordava parti importanti della vita e del lavoro delle persone.

Moretti escogita un intreccio di metacinema tra la Roma borghese attuale, popolata di personaggi assortiti, ognuno con la sua piccola fragilità, ognuno con la sua stortura, e il quartiere popolare di quasi settant’anni fa. Da psicoterapeuti che rispondono al telefono durante le sedute a produttori francesi dalla doppia vita; da registi ciecamente dediti a una compiaciuta violenza filmica fino ad attrici impuntate sull’improvvisare oltre il copione. Queste e tante altre le piccole e grandi rigidità e tic Moretti ce li fotografa nella sua nuova galleria con una lucidità giocosa e pedante a fasi alterne.

Il regista si prende cura dello spettatore con lezioni di cinema e sogni politici rivolti al passato togliattiano, ma profondamente attinenti alle tante svolte che hanno portato a oggi. Ma ipotizza pure un Quarticciolo ancora senza luce negli anni Cinquanta, e magari qualcuno potrebbe prendersela per la licenza, più che poetica, cinematografica. Resta il fatto che Moretti mostra a modo suo l’impegno politico attraverso il grande schermo con Silvio Orlando e Barbora Bobulova, segretario di sezione del PCI lui, sua moglie sarta tesserata e militante lei. Grazie a loro, la comunità artistica di un circo ungherese fuggito dalle repressioni sovietiche troverà il sostegno del PCI e del quartiere. Barbora e Silvio sono gli attori che seguono Giovanni, anche se i sabot della prima saranno motivo di reprimende morettiane da consegnare all’immaginario dei fan. 

Tanto autocitazionismo negli stilemi, inevitabile per un grande vecchio – lo fa anche Spielberg nel suo ultimo lavoro – ma anche tanto puro morettismo che inevitabilmente dividerà. Ma la costruzione del pastiche è così complessa e ricca di stratificazioni che potrebbe coinvolgere anche ben oltre il pubblico degli aficionados. Certo, Cannes arriva tra un mese, e l’affermazione sulla Croisette dov’è in concorso, spingerebbe Il sol dell’avvenire ulteriormente. 01 Distribution intanto scommette impegnandoci ben 500 sale.

Ed è una scommessa anche per i produttori. Nel ruolo della moglie produttrice di Giovanni abbiamo una Margherita Buy schiacciata dallo sguardo iperuranico del marito regista. E grazie a lei, Moretti, insieme alle sceneggiatrici Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella, ci schiude le vie alternative, professionali e non, di una donna giunta al capolinea del proprio matrimonio. La fotografia di Michele D’Attanasio esplode meglio che in Tre piani per lscelta del colore. Splendidi poi nella loro leggerezza musicale gli intermezzi sognanti ed estemporanei con Blu Yoshimi e Michele Eburnea, in un’epoca a metà strada tra il ’56 e il nostro 2023. Certo anche Moretti, come tanti registi italiani, non molla il vizietto della cantatina corale in macchina. Ma è con i suoi ben noti cliché che torna in sala un Nanni profondamente autoironico e giocoso, proprio passando attraverso la sua stessa pedanteria. Come il grande soliloquio sul set di un giovane regista assetato di sangue, al quale metterà i bastoni tra le ruote. Scena surreale, ma al tempo stesso lezione di cinema altissima quanto tragicomica perché disseziona il concetto di violenza estetizzata. Una sequenza della quale si parlerà certamente in futuro.

il sol dell'avvenire
Silvio Orlando e Barbora Bobulova,

Il sol dell’avvenire si scopre come il lavoro più complesso e multiforme di Moretti. Quindi giù con stilettate folgoranti al mercato delle piattaforme streaming; lo sguardo sensibile contro pregiudizi sull’omosessualità; la riflessione sull’accettazione di coppie etero con età molto distanti; le co-distribuzioni internazionali “strada facendo” necessarie alla sopravvivenza di un set; il musical come punteggiatura estetica; dire qualcosa di sinistra attraverso il cambiamento sociale a prescindere dalle bandiere rosse; la sostituzione della vespa coi monopattini elettrici; l’egocentrismo pervicace dei vecchi, registi e non; l’impiego di grandi attori europei come Mathieu Amalric, Jerzy Stuhr, Zsolt Anger; e alcune curiose preveggenze. Una è il pericoloso orso fuggito dal circo, sembra scritto apposta pensando al triste caso JJ4. Invece il film è stato girato l’anno scorso, in estate, e con la sua vitalità fa centro perché fa ridere e commuovere.

 

 

Il ritorno di Casanova. Salvatores torna a volare alto

Due storie parallele si rincorrono in questo nuovo lavoro di Gabriele Salvatores, che dopo Comedians continua a seguire la strada della bottega dei sogni. Se nel film del 2021 setacciava un laboratorio attoriale, i drammi da spogliatoio e le ambizioni di un gruppo d’attori, con Il ritorno di Casanova sdoppia la sua attenzione su un regista di successo e lunga esperienza giunto a una resa dei conti con la propria vita, parallelamente al Casanova imbolsito del suo film da ultimare.

In questo raffinato snodo di metacinema i timonieri sono Toni Servillo, avvolto con il suo regista Leo Bernardi da un bianco e nero che ridisegna morbidamente il piano della vita reale, e Fabrizio Bentivoglio, il Casanova decadente del film di Bernardi, che respira a colori le sue ultime avventure tra vizi sopiti e amare constatazioni. Bernardi è un uomo solo con la sua fredda domotica e il suo montatore e amico accogliente interpretato da Natalino Balasso. L’incontro con una contadina molto più giovane di lui, durante il set, gli ha cambiato l’esistenza facendogli perdere ogni certezza. Così come Casanova, spirito avvizzito e squattrinato nuovamente investito dal desiderio. Entrambi i personaggi dovranno vedersela col tempo che passa, anzi, già passato, così Salvatores intreccia una doppia riflessione sulla vecchiaia e la passione per una donna molto più giovane. Ognuno di loro confligge con un giovane antagonista, che sia un ufficiale spadaccino o un regista all’opera seconda poco importa, perché in regista di Mediterraneo sfodera un’opera solida e densissima.

Il ritorno di Casanova Pieno d’idee registiche ben realizzate, colpi di scena gustosi, ricollocazioni di attori comici – Ale & Franz in testa – momenti magici tra Servillo e Serraiocco da cinema francese vecchio stile, citazioni di Banksy e un velo di nostalgia che sfiora ogni momento del suo procedere, questo Casanova tra le mani di Salvatores brilla di maturità. Forse anche troppa, ma solo nel senso di un pubblico di riferimento che tenderà a escludere probabilmente il giusto appeal di massa per i giovani in sala. Sulla carta fuori target.

Fino a pochi anni fa una durata di un’ora e mezza non avrebbe destato interesse, ma al tempo della competizione più ardua contro le serie tv, questo film dimostra pragmaticamente come si possa raccontare in maniera concisa, profonda, sfaccettata, complessa, e soprattutto completa, una doppia storia. Due pletore di personaggi che ruotano armonicamente nella sceneggiatura firmata da Umberto Contarello, Sara Mosetti e dallo stesso Salvatores. Uno dei rari registi di casa nostra a destreggiarsi senza rete tra i generi, non sempre con risultati felici (come i due Ragazzi invisibili), ma affamato di novità e generoso con le nuove sfide, il regista milanese sembra aver trovato una nuova dimensione di saggezza matura nel raccontare il mondo artistico dal quale proviene.   

Infatti c’è una piccola perla venuta fuori dalla masterclass di Bentivoglio al Bari International Festival, dove è stato presentato ufficialmente il film. L’attore ha voluto rivelare un particolare inedito: “Quando Gabriele mi diede da leggere la sceneggiatura, il mio personaggio era genericamente indicato come ‘l’attore che interpreta Casanova’. Terminato di leggerla, lo chiamai al telefono e gli dissi: il mio personaggio si chiama Federico Lolli, come quello che avevo interpretato in Turné. E lui mi ha risposto: ‘mi hai fatto venire i brividi!’. Questa cosa è rimasta tra me e lui, nessuno della troupe ne è mai venuto a conoscenza. Ma è per dire che nel film c’è un sottotesto, quello per cui in un certo modo esso racconta tutta la nostra vita!”.

 

Educazione fisica: un esercizio di stile tra lupi, agnelli e genitori

Proviene da un testo teatrale il nuovo film di Stefano Cipani, dopo il premiato Mio fratello rincorre i dinosauri. La palestra di Giorgio Scianna, pièce del 2012, con trattamento per il cinema e sceneggiatura di Damiano e Fabio D’Innocenzo diventa così il muscolare e provocatorio film Educazione fisica, al cinema dal 16 marzo. I genitori di tre ragazzi vengono stranamente convocati dalla preside nella palestra della scuola. Una brutale violenza sessuale è stata subita da una compagna di classe, secondo la confessione fiume della ragazzina scioccata proprio alla direttrice. Inizia così uno sconcertante colloquio, un falò delle vanità e del compromesso destinato ad assumere le fattezze di un vero e proprio thriller.

Il padre business-man con tendenze bulle e razziste ha spalle, faccia tosta e un sovrappeso studiato di Claudio Santamaria. La madre del secondo ragazzo è divorziata, apparentemente fragile ma all’occorrenza calcolatrice, con lo sguardo tagliente di Raffaella Rea. La coppia placida e un po’ stagionata del terzo invece, lei prudente, lui fiducioso, è composta da Angela Finocchiaro e Sergio Rubini. Il regista in una sua dichiarazione ha confessato d’essersi ispirato ai cartoni animati anni ’70 di Ralph Bakshi, al cinema di Buñuel e al punk. Infatti la messa in scena decadente, le geometrie degli attrezzi rugginosi e le ombre delle ventole per il ricambio d’aria sugli intonaci vecchi e bicolore mettono lo spettatore nel mezzo di una disputa senza esclusione d’idee per farla far franca ai propri figli. Cipani ci mostra ad arte lo scontro tra i genitori e la direttrice in un cane mangia cane volto a scoprire i lati più inconfessabili del perbenismo borghese. È un confronto dove un lupo potrebbe finire come un agnello, e dove l’agnello potrebbe rivelarsi lupo.

Educazione fisica
Giovanna Mezzogiorno.

Cardine di tutto si rivela proprio questa direttrice che dovrà farsi carico di tutte le ansie dei suoi interlocutori. Giovanna Mezzogiorno ne mette in scena la seraficità turbata, il senso del dovere e l’ottimistica ingenuità di fronte a genitori che altaleneranno tra vittimismo, pressappochismo e malcelata perfidia i loro discorsi difensivi. Educazione fisica si stampa in mente come piccola vetrina sulle brutture del genitore medio nel nostro tempo. Indaga con originalità sul tanto decantato “buon senso” e gioca sadicamente con uno degli scenari più contrarianti: la violenza carnale praticata da minorenni figli di coppie “per bene”.

È questa la stonatura sociale che il film abbraccia intrappolando tra le sue spire lo spettatore. Il senso di claustrofobia emotiva nonostante lo spazio ampio della palestra colpisce forte allo stomaco. E per quanto una storia così secca non possa evitare di sembrare mero esercizio di stile, mette in scena cinque personaggi in maniera quasi pirandelliana. La regia riesce così a danzare tra dialoghi serrati e tagli d’inquadratura che nelle sfocature di controcampi e personaggi sullo sfondo trasmettono un senso di disagio perché nei dialoghi si mescolano sapientemente le buone intenzioni, il male e il senso di giustizia come fossero un mazzo di carte truccate e dal punteggio incerto fino alla fine.

 

Mixed by Erry: quei bravi ragazzi di Sydney Sibilia

Chi tra i nati prima del 1985 non ha mai ascoltato un’audiocassetta musicale non originale, registrata? Magari doppiata da un amico o comprata su una bancarella. O forse solo decantata da genitori nostalgici ancora fieri di antichi stereo e oramai sorpassati soprammobili al tempo di Spotify. Gli album e le compilation pirata di una volta, quei supporti fisici che erano la musica negli anni ’80, videro il fenomeno tutto partenopeo di Mixed by Erry. Tre ragazzi, i fratelli Frattasio, iniziarono quasi per caso a copiare e vendere cassette musicali a Forcella, poi l’exploit che divenne business perché nelle personalizzazioni di Erry, i loro amici si ritrovavano canzoni extra e rimandi ad artisti e generi musicali nuovi per approfondirli con altri acquisti. Altre cassette. Altro business.

Anche con il suo precedente L’incredibile storia dell’Isola delle Rose il regista Sydney Sibilia raccontava di un curioso evento di cronaca, a cavallo tra anarchia e poesia. Qui invece Erry, Enrico, insieme ai suoi fratelli Peppe e Angelo infrange con spensieratezza tutte le regole sul Diritto d’Autore, materia che in quegli anni ancora non acquisiva l’istituzionalità delle maiuscole.

Questo film ci parla a diversi livelli. C’è la storia di una famiglia che vive d’espedienti, tre fratelli legatissimi e in ascesa un po’ come Quei bravi ragazzi di Scorsese, ma in salsa comedy. Luigi D’Oriano, Erry, potrebbe corrispondere al De Niro leader; Giuseppe Arena, Peppe, il fratello maggiore e anche il più posato e responsabile, a Liotta; e alla scheggia impazzita Pesci somiglia per certi versi il personaggio del piccolo di casa, quindi Emanuele Palumbo. I tre giovani talenti innestano un motore dai tempi comici perfetti. Il gatto e la volpe a due tempi, sono però Adriano Pantaleo, nei panni del papà traffichino dei ragazzi, e Fabrizio Gifuni, manager milanese e inamidato che li porterà oltre ogni sogno più sfrenato. La loro nemesi trova invece il muso e l’irresistibile toupet di Francesco Di Leva nei panni del finanziere che indaga sui protagonisti.

Con leggerezza Sibilia sfiora anche stragi di camorra di quegli anni senza mai perdere il timone della commedia intelligente e d’intrattenimento. Ci mostra il celebre fuoco d’artificio, il Pallone di Maradona, prima che venisse battezzato, gli interni del Teatro Ariston di Sanremo durante il Festival, immagini dal primo scudetto del Napoli e di repertorio fuse con il lavoro scenografico dal sapore pop niente male di Tonino Zera. Apre al pubblico del 2023 e soprattutto ai suoi millenials i vicoli di una storia tappezzata di poster di Cioè sui muri delle camerette degli adolescenti, motorini, cuffiette e musica. Racconta l’esigenza della musica, la mancanza della musica dove non c’erano negozi di dischi, la proverbiale arte di arrangiarsi del Sud e quella fiducia nel futuro che caratterizzava quegli anni. In verità i Frattasio sono stati antesignani di Napster, ma utilizzavano già rimandi e suggerimenti in stile Spotify. Del resto Erry lo dice candidamente: “Io volevo solo fare il Dj”.

Mixed by ErryIl film targato Groenlandia, quindi della premiata ditta Sydney Sibilia – Matteo Rovere, esce al cinema il 2 marzo. Belle queste nuove scorpacciate vintage di anni ’80 che mostrano Napoli nella sua vitalità, nei suoi colori e nelle sue speranze. A partire dalla Mano di Dio di Sorrentino, la serie La vita bugiarda degli adulti, e approdando ora a Mixed by Erry. Chissà cosa ne avrebbe pensato Nanni Loy, che di truffaldine trovate napoletane ne raccontò così tante proprio in quegli anni.

 

Monica Galantucci e la sua M74 Post: “La mia rivoluzione nella post-produzione”

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Il mercato dell’audiovisivo sta vivendo un momento di grande espansione, rendendo sempre più necessario un attento lavoro di post-produzione su film e serie TV. Nascono nuove realtà altamente specializzate come M74 Post, uno studio giovane che si occupa di effetti visivi e post produzione e che, tra gli altri, ha già nel suo portfolio serie come Boris 4, Il nostro generale, Le fate ignoranti, Call my agent; e film come I migliori giorni, Lamborghini, The Land of Dream, Pantafa. Founder e anima del progetto è Monica Galantucci, che ha voluto radicare la sua società nel centro di Roma, nel quartiere Prati, principale polo del settore audiovisivo.

Come nasce M74 Post?

Nasce dopo anni d’esperienza nel settore. Personalmente ho cominciato come producer degli effetti visivi, poi sono diventata supervisor, ma anche questo ruolo cominciava a starmi stretto. Così ho deciso di fondare un’azienda tutta mia. M74 è nata nel settembre 2019 e dopo mesi di ristrutturazione, siamo entrati nella nuova sede appena due giorni prima del lockdown. Nonostante la pandemia, abbiamo portato avanti i nostri progetti da remoto, fortunatamente già da fine aprile abbiamo avuto la possibilità di far tornare gli artisti in presenza.

I progetti che seguite sono molto vari. Serie come Vita da Carlo, Il santone e Zero; film per piattaforme come Lasciarsi un giorno a Roma o Divin Codino; ma anche film in sala come Belli ciao, Tapirulan, Si vive una sola volta. Senza contare, spot, opere prime, e sfide internazionali come quella teatrale di Chiusi fuori.

Proprio nel caso di quest’ultimo che hai citato il regista Giorgio Testi ha voluto insieme Colin Firth e Stefano Accorsi. Però uno era in teatro a Firenze, mentre l’altro in studio a Londra. Noi con il nostro lavoro e in piena pandemia li abbiamo messi insieme sullo stesso palco in un corto ispirato all’opera Aspettando Godot di Samuel Beckett.

Come si collega la post-produzione al set di un film nell’epoca digitale?

Anche se il nostro lavoro viene fatto in post, gli interventi vengono stabiliti in pre-produzione: è in questa fase infatti, che occorre confrontarsi con il cliente per capire quali siano le sue aspettative ed accompagnarlo nella giusta direzione. Ci sono scelte che devono essere fatte prima dello shooting, e in accordo con gli altri reparti.

M74 Post
L’evento natalizio 2022 con lo staff di M74 Post.

Siamo ad un 2023 appena iniziato, col Covid alle spalle e un linguaggio che si è evoluto, è cambiando. Si fa cinema per piattaforme tv, le serie si stanno trasformando e troviamo moltissimi effetti visivi anche in prodotti insospettabili come le commedie. Spesso il pubblico neanche lo sa. Quali sono le nuove esigenze del mercato audiovisivo, le nuove sfide alle quali rispondere?

La prima strategia è agire in tempo. Come hai detto, è evidente che l’andamento del settore cinema è in forte crescita e di conseguenza anche quello della post produzione e degli effetti visivi. Le produzioni sono tante e sempre più veloci purtroppo. L’intervallo tra pre-produzione e post-produzione si è notevolmente assottigliato. Quindi lavorare tanto e ad un ritmo serrato mantenendo uno standard molto alto non è facile. È questa la grande sfida: mantenere la qualità in tempi strettissimi.

C’è un episodio che puoi raccontarmi su un cambio di programma poi risolto e migliorato dalla vostra post-produzione?

Una volta è capitato che l’attore protagonista non potesse essere sul set il giorno di riprese poiché affetto da Covid. Quindi abbiamo risolto con un replacement del viso. Bloccare un set può essere molto costoso, operazioni come quella che abbiamo fatto danno la possibilità di girare comunque, risparmiando in costi e tempi.

Come nasce la necessità di un effetto e come funziona la relazione professionale e umana con i registi?

Il regista viene da noi, ci spiega la sua idea e noi cerchiamo di realizzarla al meglio, rispettando il budget di produzione. Come primo step leggiamo la sceneggiatura facendo uno spoglio sui possibili interventi visual. Ci si riunisce poi di nuovo con il regista per discutere nel dettaglio il progetto e prendere le decisioni finali per procedere. Il fascino del nostro lavoro è anche quello di poter lavorare con i vari reparti e creare una vera e propria sinergia.

Com’è organizzata M74 rispetto alle diverse tipologie di servizi che completate con i vostri interventi digitali?

Il nostro core business è sicuramente quello degli effetti visivi, possiamo seguire progetti che richiedono l’ausilio del 2De del 3D e di animazione. Abbiamo un reparto di Motion Design. Anche il reparto video è ben strutturato con 2 Colorist, (oltre ai freelance che chiamiamo al bisogno), il reparto Delivery e QC. Ci occupiamo della sola parte video, per l’audio, quando necessario possiamo contare su partner esperti del settore. La nostra è un’azienda innovativa, che punta al mercato internazionale. Credo molto nella crescita dei miei collaboratori, non solo da un punto di vista professionale, ma anche dal punto di vista umano, e tutti abbiamo frequentato corsi di comunicazione, gestione del tempo e lavoro di gruppo.

Romantiche. Pilar Fogliati è “un sacco bella”

Quest’inverno ha tenuto compagnia al pubblico delle piattaforme con una serie commedia sull’anima gemella da trovare entro Natale per sfidare la propria famiglia. Ma in Odio il Natale era solo protagonista Pilar Fogliati. Nel suo film Romantiche invece fa molto di più. Scrive la sceneggiatura con Giovanni Veronesi e Giovanni Nasta, esordisce dietro la macchina da presa, ma soprattutto interpreta le quattro protagoniste con le caratteristiche che ricalcano il suo famoso video virale dove s’immergeva in parlate e tipologie di ragazze romane a seconda dei quartieri e delle estrazioni sociali. Un inconsueto e gustoso reel di quelli che restano impressi.

Roma si fa crocevia delle avventure e disavventure di queste quattro ragazze di belle speranze, ognuna molto diversa dalle altre, ma tutte in cerca di realizzare i propri sogni o mantenere il proprio status. C’è Tazia, fidanzata determinata e bulletta di Roma Nord che insieme alle sue amiche parioline dovrà affrontare una sfida inaspettata; Michela, giovane e morigerata negoziante, prepara il suo matrimonio a Guidonia cercando di sopravvivere ai parenti del promesso sposo; la logorroica Eugenia invece fugge da Palermo per diventare sceneggiatrice nella città del cinema; e infine Uvetta, giovane nobile un po’ boccalona, deciderà di tuffarsi nel mondo del lavoro per conoscere gente nuova. O cambiar vita, chissà.   

Ha trent’anni Pilar Fogliati, quanto Carlo Verdone quando uscì Un sacco bello quasi 40 anni fa. Altra epoca, tre personaggi maschili, ma stessa esigenza di portare al cinema i tic della propria generazione, del proprio tempo e della loro stessa città. Roma appunto. Fogliati, divide tutto in capitoli netti, scrolla visivamente le sue protagoniste sulla home di un social per proporci le storie delle sue quattro romane, ma soprattutto le raccorda attraverso lo studio della psicoterapista Barbora Bobulova, dove tutte loro finiranno per raccontarsi e cercare di riprendere le redini ognuna della propria vita un po’ scombussolata.

Un pizzico buonista negli intenti, ma bilanciata grazie ad alcuni sketch spietati e gustosi, Fogliati sbeffeggia il mondo dei sogni di gloria legati al cinema; scoperchia punzecchiandole certe ipocrisie dei ricchi, che siano nobili o soltanto borghesi; e con leggerezza racconta il modernissimo tabù del denaro e altre paure e rigidità della classe lavoratrice. Fa parlare la provincia microimprenditrice quanto i quartieri agiati, fino ai non luoghi nobili dove il lavoro è considerato poco più di un esotico hobby. Il romanticismo inseguito dal titolo sembra più un’amara chimera quindi, ma proprio in questo spazio liminale lo zampino di Veronesi si fa sentire in alcune sequenze.

RomanticheNel cast sono spalle di Fogliati alcune belle facce da commedia brillante come Giovanni Anzaldo, Emanuele Propizio, Diane Flerì, Ubaldo Pantani, il veterano Rodolfo Laganà, e poi un’outsider, Levante, che oltre a un cameo dove interpreta sé stessa, firma musiche e canzoni per il film. Proponendo comicità e tormentoni tutti al femminile, Romantiche, che sarà al cinema dal 23 febbraio 2023, distribuito da Vision Distriburtion, si presenta come un esordio un sacco bello, e chissà se nell’immaginario dei millenial Fogliati imbroccherà la stessa buona strada di Verdone.

Pantafa: Emanuele Scaringi riparte dal Torino Film Festival

Il suo esordio al lungometraggio non fu dei più felici. Il suo Armadillo scialbo fece infuriarie Zerocalcare, così è passato alla serie Bangla, prodotto più formattizzato e forse meno rischioso. Ci riprova con il cinema Emanuele Scaringi, presentando il suo Pantafa in concorso nella nuova sezione competitiva Crazies del Torino Film Festival, dedicata al cinema horror e fantastico.

Siamo nel reatino, Lago del Turano, in una località fittizia battezzata per l’occasione Malanotte. Una madre con la figlia dodicenne si trasferisce dalla città in un piccolo borgo di poche anime per vivere a contatto con la natura. Nel folklore abruzzese, leggenda oggi nota da quelle parti perlopiù a persone anziane, la pantafeca era una specie di strega spettrale che durante la notte si sedeva sul petto dei dormienti rubando loro il respiro. Era una credenza ancestrale, piuttosto comune in forme simili anche in altre culture, per spiegare il fenomeno medico delle apnee notturne. Ma questo lo sappiano noi, mentre i personaggi del film dovranno lentamente scoprire, a spese della figlia, interpretata dalla giovanissima Greta Santi, e della madre, una Kasia Smutniak ben centrata nella parte, l’esistenza di un’entità malvagia.

Pantafa

Scaringi ci mostra la sua Pantafa con le sembianze di una giovane donna fantasmatica, e sibilante che ricorda tanto gli spettri in sottoveste usciti dal giapponese Ringu, e poi The Ring per gli americani. Insomma, parliamo di un horror con un incipit antropologico molto originale, visto il ripescaggio di una leggenda perduta in territori poco noti sul grande schermo. Il potenziale era buono, ma le invenzioni vere latitano e la riuscita è tutt’altro che positiva. In primis perché nulla di ciò che accade ci mette in guardia, né ci spaventa, e tantomeno ci sorprende facendoci saltare dalla poltrona. A parte qualche rivelazione abbastanza telefonata. “Le storie servono a trasformare le cose brutte in qualcosa che non fa paura”. Spiega ad un certo punto la Smutniak alla figlioletta prima di dormire. Una frase anche interessante, che però sembra sia stata presa sin troppo alla lettera dal regista stesso.

La messa in scena è sempre molto semplice, a volte si scimmiotta il Midsommar di Ari Aster, provando ad elevarsi anche con l’utilizzo del drone su questa fetta al confine tra Lazio e Abruzzo. E vista l’attenzione al respiro non si può non pensare a Suspiria, dal quale siamo ben lungi. A prescindere da citazioni volute o involontarie, pur con alcune piccole idee non male, si rimane privi di quel piglio psicologico o registicamente tecnico necessario a un horror per catturare davvero il pubblico. Soprattutto quello giovane, target principale del genere. Uno sprazzo, per esempio, è legato a I’ll be your mirror. Il pezzo dei Velvet Underground performato da Nico nel 1967 viene però utilizzato per la classica cantata in macchina dei protagonisti, scena ricorrente di tanto cinema italiano degli ultimi anni.

Avendo un bel parterre di personaggi e attori che parlano abruzzese poi, come Betti Pedrazzi, nel ruolo dell’anziana vicina esperta di rimedi magici fatti in casa, Mauro Marino e lo stesso Francesco Colella, si potrebbe avvertire quasi la nostalgia dei Parenti Serpenti di Monicelli, ambientato nella vicina Sulmona. Ma i meccanismi narrativi qui, a prescindere dai generi, sono molto più basici. Insomma, un cast decisamente solido, ma si è sprecata una ghiotta occasione perché ci si poteva costruire un piccolo cupo giocattolo della paura.