Patagonia, l’opera prima di Simone Bozzelli in concorso a Locarno

Patagonia
Andrea Fuorto e Augusto Mario Russi in "Patagonia".

L’universalità di ogni relazione e i conseguenti rapporti di potere. Indaga su questo il cinema di Simone Bozzelli, regista under 30 già vincitore della SIC a Venezia con il corto J’ador nel 2020, mentre con Giochi ha vinto nella sezione Italia Corti al Torino Film Festival nel 2021. L’exploit è arrivato con il videoclip dei Måneskin, I wanna be your slave, ma adesso tutti attendono la sua opera prima, Patagonia, che sarà presentata in anteprima assoluta in concorso al Festival di Locarno (2-12 agosto).

Hai lavorato e studiato da regista di cinema. Girando il videoclip dei Måneskin, come hai nuotato in acque così diverse?

Quello che ho cercato di ereditare dal corto è il processo di ricerca del concept. Grandissima ricerca visiva e teorica su determinati temi che spesso vado a toccare nei film. Per il videoclip mi sono lasciato ispirare dalla fotografia di Robert Mapplethorpe, riuscendo a fare tutte quelle cose difficili da realizzare con il cinema. Come grandangoloni spinti, fish-eye, rotazione a 360° della telecamera, l’uso di certe luci rosse.

E adesso con il tuo primo lungometraggio, Patagonia, che cosa ci aspetta?

Innanzitutto parto da una storia estremamente personale. Da luoghi e persone che conosco e ho conosciuto. Patagonia parla di Yuri, un ragazzo molto ingenuo che a una festa di compleanno per bambini incontra un animatore che vive per stare sempre su di giri. Ha fatto delle feste il suo mestiere, è ambiguo, sfuggente, con dei picchi di love bombing che lo fanno oscillare tra calore e freddi improvvisi. I due iniziano a viaggiare su un camper, di festa in festa, instaurando un rapporto di dominio e sottomissione psicologica, per poi spostarsi in un altro tipo di ritrovo: un rave.

Quindi lo vedi più come un coming of age o un dramma sentimentale?

Anch’io all’inizio pensavo fosse un coming of age, ma il mio distributore mi ha stuzzicato: «No, è uno young adult». Al ché mi son detto che un po’ tutti i film sono coming of age perché in ogni storia c’è un racconto di formazione, un percorso dell’eroe che alla fine cambierà inevitabilmente i personaggi. Hai ragione, feste, viaggio e rave ti riportano al coming of age, ma a me interessava seguire il protagonista nella fascinazione per una persona arrivando a far cose che non immaginava possibili. Tutti i miei film rispondono alla domanda: cosa sono disposto a fare per la persona che amo? E qui esploro la possibilità di fare cose non per sé stessi ma per compiacere l’altro. E fin dove si è disposti ad arrivare per questo.

PatagoniaQuindi hai ritagliato la tua storia pensando anche a una certa universalità?

Tutte le relazioni, sentimentali, lavorative, familiari, master & slave, sono potenzialmente universali perché sempre piene di sacrifici, piccole molestie morali e ribaltamenti nei ruoli. È questo corollario di piacere/sofferenza che mi piace raccontare. Ma a livello di commozione e spietatezza la mia reference è stata La strada di Fellini, con l’ingenua Gelsomina portata in viaggio dal violento girovago Zampanò.

E lo hai anche girato in Abruzzo con attori abruzzesi.

Si, per me l’Abruzzo è stato importante come spirito natale: una parte del film è stata girata a Silvi Marina e Montesilvano, dove abbiamo ottenuto un’ottima collaborazione dai comuni per i permessi. Lì abbiamo trovato le location per le feste dei bambini. Invece a Roma, in una cava della Magliana, abbiamo allestito il set per il rave. E sull’Abruzzo, il mio casting director Davide Zurolo mi ha proposto alcuni volti d’attori del territorio che potevano interessarmi. Uno era Andrea Fuorto. Inizialmente mi ero impuntato sul prendere il protagonista dalla strada, ma dopo aver visto Andrea tra self-tape e provino ho detto ok, è lui. Però l’altro protagonista, Augusto Mario Russi, lo abbiamo incontrato a un rave. È il suo esordio.

L’estetica nei tuoi cortometraggi ricorda Xavier Dolan per lo guardo intimo che poni sui tuoi personaggi, con una macchina da presa che sta sempre col fiato sul collo.

Io sono ossessionato dai corpi. Quando vado in giro è sempre il mio oggetto d’interesse. Per il mio corto, Giochi, portavo sempre con me i biglietti da visita e se vedevo, anche in metro, qualcuno con un corpo interessante lo avvicinavo per farmi inviare foto per il mio film. Quanto alla vicinanza della macchina da presa era dovuta, soprattutto nei primi corti, alla mancanza di scenografia per una questione economica. Non mi potevo permettere uno scenografo, ma sul casting mi ritrovavo ampia scelta per capacità ed energia. Penso che i limiti che un regista ha all’inizio, poi diventeranno stile. Sì, i limiti fanno lo stile.

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