Simone Gandolfo si racconta tra cinema, produzione e vento di mare

Simone Gandolfo
Simone Gandolfo, produttore per Macaia Film.

Macaia è un termine ligure che significa brezza, e come le brezze porta con sé novità e nostalgia. La nostalgia è un sentimento che Simone Gandolfo conosce bene, essendosi lasciato la Liguria alle spalle prima per Roma poi per New York. La carriera di attore e di produttore cinematografico lo portano lontano, ma il legame con le origini rimane fortissimo e ogni scusa è buona per tornare a casa.

Mi sei stato presentato come produttore e poi, quando ti ho cercato, ho scoperto che ti conoscevo già come attore.

Tutto vero. Nasco come attore ma da una decina d’anni faccio il produttore, sono passato al lato oscuro della forza. In particolare negli ultimi anni ho cominciato a fare il produttore esecutivo.

In alcuni casi questo dualismo attore-produttore ha un po’ giocato a tuo sfavore? Ci sono stati dei casi in cui ti hanno chiesto di scegliere, o l’uno o l’altro?

Sì, certamente. In Italia è complicato mantenere due posizioni, specialmente nel caso di un produttore, che solitamente discute di questioni economiche, amministrative e burocratiche, ed è difficile vederlo in un’altra veste. La mia scelta comunque è stata serena. All’inizio ricordo che era più complicato, come ex attore venivo guardato con sospetto. (ride) Gli attori vengono spesso visti come esseri strani.

Hai fondato una casa di produzione con il tuo socio, Manuel Stefanolo. Si chiama Macaia Film. Il nome è ligure. C’è un po’ di nostalgia dietro questa scelta?             

Più che nostalgia, gratitudine per le origini. E poi se fossimo stati a Roma saremmo stati soffocati dal mercato, invece restando a Imperia abbiamo avuto modo di imparare a camminare. Siamo partiti con progetti super indipendenti e poi lentamente siamo cresciuti.

All’interno di Macaia come gestisci i reparti? Come funziona l’ingranaggio tra sceneggiatura, regia, casting e come prende vita un progetto prima del set?

Da progetto a progetto si crea una squadra di lavoro artistica e tecnica. Nel caso specifico degli sceneggiatori a volte sono loro che propongono un progetto e da lì si mette su un team. La stessa cosa per la regia, poi per il casting director la cui scelta è dialogica con il regista. Quando lavoriamo come service production per progetti stranieri allora cerchiamo di consigliare persone di valore che ancora non hanno avuto una possibilità.

Simone GandolfoLe esperienze con Palomar e Viola Film come sono state?

È andata bene, era la strada che volevamo. Quando si è totalmente indipendenti si ha l’impressione che ci siano meno regole, invece quando avviene l’incontro con i più grandi bisogna accettarne tantissime di regole. Gli esempi di outsider completi che riescono a fare cinema senza passare attraverso queste regole sono pochissimi. Io personalmente l’ho trovato un interessantissimo percorso di crescita.

Secondo te la crescita delle piattaforme e l’ibridazione dei contenuti ha portato a un’esasperazione del mercato? Si produce tanto e male? Troppe serie, troppi film, troppe piattaforme il tutto a discapito di una scrittura di qualità?

No. Nel senso che se vogliamo impiegare dodici settimane per fare un film dobbiamo tornare indietro di dieci anni, però non era un mercato minimamente sostenibile. Quando un mercato si regge al 90% sull’aiuto pubblico si creano immediatamente delle metastasi, perché finché il pubblico lo può sostenere, bene, ma quando il pubblico non può più sostenerlo a quel punto crolla tutto. Per me il mercato adesso è più sano. Il vero problema è che In Italia non c’è la volontà di sperimentazione che serve per alimentare l’industria stessa. Se non avessi prodotto Io sono Vera, che è un film completamente indipendente con un budget sotto il milione di euro girato con il cuore e con il sangue, non avrei imparato tantissimo, per poi passare a set da 15 milioni. Però dovrebbero esserci regole diverse, quasi due contratti collettivi diversi, non è solo una volontà solo dei produttori di non farlo. Sono pochissimi quelli che credono in davvero nel progresso. In sostanza il mercato è sclerotico: si smontano e rimontano progetti, altri non partono completamente o partono troppo alla svelta. Poi è chiaro che si va sempre più verso una direzione neo-liberista: i grossi gruppi staranno a galla, mentre i piccoli faranno sempre più fatica e questa è proprio una direzione mondiale.

Sulle scelte attoriali, essendo stato attore per vent’anni, sei rigido o preferisci non occupartene?

No, non è mio compito giudicare. Se mi chiedono un parere, rispetto ad altri produttori esecutivi ho un punto di vista molto chiaro. Per me è relativamente semplice capire se un attore è giusto per quel ruolo o se non è giusto, se è bravo, cosa serve al progetto, ma lo dico solo quando mi è richiesto.

Che tipo di rapporto hai con la percezione di te stesso, del tuo corpo, della tua immagine? Ancora oggi ci stai lavorando o è un qualcosa messo ormai da parte?

Questa è stata la liberazione più grande. È impossibile scindere il lato personale dal lato artistico e da lì nascono tutti i problemi degli attori rispetto alla propria immagine. Invece nel lavoro da produttore se sbaglio qualcosa non sono io sbagliato, ma ho fatto qualcosa di sbagliato. È una conquista che mi rilassa moltissimo, lo ammetto.