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Le Space Monkeys di Aldo Iuliano: “Il mio sguardo positivo per le nuove generazioni”

Se nel suo premiato cortometraggio Penalty parlava per immagini di immigrazione, Aldo Iuliano con Space Monkeys mette in scena un ritratto di una generazione Z sperduta tra sogni, deliri e irresponsabilità. Si tratta di un’opera prima molto visionaria, un teen drama low budget con 5 anni di gestazione e soli 30 giorni di set, scritta insieme al fratello sceneggiatore Severino Iuliano.

Abbiamo parlato con il regista di Crotone in occasione del lancio del film, prodotto dalla Freak Factory di Andrette Lo Conte insieme a Rai Cinema e nelle sale dal 28 novembre. Il suo film è un qui e ora che non voleva dichiarare backstories dei personaggi che nella loro parte equilibrata sono in relazione con i propri genitori giusto tramite cellulare, ma fra di loro, forti del branco formato in questa notte folle, arriveranno a giocarsi la vita con una pericolosa challenge.

È il tuo esordio al lungometraggio, ma non dietro la macchina da presa. Come cambiano le cose da un corto a un lungo?

Per me è cambiato poco perché con mio fratello, che è sceneggiatore, lavoriamo sempre tantissime ore sulle storie, sul soggetto. Penso sia anche una grande responsabilità raccontare qualcosa alla gente, sia in un corto che in un lungo. Poi tecnicamente è diverso, certo, ma “cosa vogliamo ascoltare” è la domanda che ci poniamo più spesso. Così scriviamo e riscriviamo sempre. Come per Penalty, anche qui avevo letto un suo high concept che mi aveva interessato. Con Space Monkeys volevo fare una fotografia di questi tempi un po’ strani, a cavallo tra sogno e realtà, tra virtuale e reale. Mentre prima si discuteva del confine, dalla Generazione Z in poi questo confine non c’è più. Quindi l’idea di rappresentarlo ha iniziato ad affascinarmi così ho cominciato con i miei calcoli di script e scrittura visiva. Per me la regia è una scrittura in più che aggiunge alla sceneggiatura.

Con tuo fratello come vi dividete il lavoro, come convivete o come vi scontrate?

Lui è uno sceneggiatore puro: classico uso del computer, una volta macchina da scrivere, e pensa solo a scrivere. Certe volte io e lui insieme facciamo delle robe indipendenti, soprattutto quando siamo lontani da progetti grossi. Facciamo delle cose tutte nostre, lui come sceneggiatore, io invece arrivando dai fumetti ho questa ossessione per le immagini. Amo la semiologia del cinema. Ai tempi dell’università ero affascinato dalle lezioni di Italo Moscati, mi perdevo nei libri che rimediavo tra Crotone e Teramo. Ero affamato di tante cose, ma con Severino non ci accavalliamo perché la mia scrittura visuale arriva dopo la fase del soggetto, che è più sua. Lui inizia a scrivere, io sono presente ma non invasivo. Il resto è surf!

Space Monkeys richiama l’esperimento delle scimmie inviate sole nello spazio. Cos’è lo spazio per i tuoi personaggi?

È quel luogo dove realtà e virtuale coesistono. Ho voluto creare questa specie di bolla perché mi piace giocare col tempo. Il cinema ti concede di manipolare tempo e spazio. Con la Generazione Z secondo me ci ritroviamo in una nuova umanità. Le scimmie spaziali non esistono, e per questo volevo un’allegoria su qualcosa che spaventasse e meravigliasse perché non c’era prima. Se ci pensi, lo Space Monkeys era anche la challenge del Choking Game, il gioco del soffocamento sul web. Per questo ho capito che era il titolo giusto. Lo spazio dove si muovono i miei personaggi è interiore. Ma se parli con i ragazzi, capisci che non hanno confine tra reale e virtuale. Sono capaci di skippare da un discorso online a sentimenti provati con delle persone due giorni prima. Parlano varie lingue e a loro modo sono meravigliosi. Volevo ritrarre senza giudizio questa generazione nuova, infatti nel film mi calo in mezzo al gruppo, con l’obiettivo di vederli vivere da vicino le loro situazioni. 

Aldo Iuliano sul set di Space Monkeys
Aldo Iuliano sul set di “Space Monkeys”.

Si avverte un forte senso di smarrimento nei ragazzi, nella generazione che racconti. Tutta questa solitudine, quasi spaziale abbiamo detto, in cosa può essere trasformata?

Nelle situazioni più estreme ci ricordiamo di essere umani, e non scimmie. E in quanto umani abbiamo delle potenzialità. Credo che questa generazione abbia grandi potenzialità. Tendono secondo me a non voler perdere il contatto col reale. I loro sentimenti non sono diversi dai nostri quando eravamo adolescenti. Quindi per me Space Monkeys è un augurio positivo per il futuro. Il mio è uno sguardo positivo su di loro. In questi anni ho avuto la fortuna di insegnare in alcune accademie, e sono loro che mi hanno istruito per questo film. Insegno regia per puro spirito di restituzione, non perché mi consideri arrivato, infatti dai ragazzi prendevo appunti sulle storie che mi raccontavano, mi passavano i loro pezzi musicali. Li ho studiati parecchio. Un po’ come avevo fatto con i giovani immigrati di Penalty. Insomma, punto all’immersione totale.

Hai anche fatto scelte molto precise per le location. Una spiaggia, una villa e una scenografia che avvolge i ragazzi come fosse una madre algida. Quasi un personaggio in più.

Hai centrato una cosa che spero arrivi al pubblico. La natura è sempre presente in ogni cosa che facciamo. La misi anche nel campo di Penalty, che era ambientato tutto su una spiaggia. Qui volevo estraniarmi da spazio e tempo. Se guardi bene, ho usato cellulari rotondi che non esistono. In questo ho guardato un po’ ad Arancia meccanica, dove il concetto del “senza tempo” è ampiamente messo in pratica. Con Francesca Sartori abbiamo lavorato per rendere anche i costumi senza un tempo determinato. Abbiamo girato a Crotone perché ci tenevo a inserire i miei luoghi. La Baia dei Greci ha una forma circolare come il telefono tondo e come la piscina nel castello che ho scelto. Quest’altra location è la dimora di un mio amico, immersa nella natura, lì vicino ma già in montagna. Mi aveva rapito perché è molto strana: ha una torre al piano superiore, con un albero e una vasca circolare che di notte sembrava sospesa nello spazio. Paki Meduri è stato fondamentale nello scenografare questo posto così bizzarro completando l’estraniamento di cui avevo bisogno.    

A proposito di Kubrick, il tuo Able sembra una citazione dell’Hal9000 di Odissea nello spazio.

In realtà ho studiato Arancia meccanica per il “senza tempo”, ma dentro ci ho messo quel buco nero di vasca perché la nostra umanità sta andando su altri pianeti. L’intelligenza artificiale Able doveva essere solo domotica. Hal ti spaventava, ma Able replica la furbizia umana. Quando dice “posso fare quello che vuoi, basta che mi autorizzi”, quello è internet che replica lo scarico di responsabilità tipico degli esseri umani. Insomma, il computer diventa figlio di puttana come noi. Quindi non ho pensato a Odissea nello spazio, ma a come il computer sia il riflesso di noi stessi oggi.

Dall’accuratezza dei tuoi lavori si vede che non lasci nulla al caso. Cosa ti ha sorpreso durante questo film di questi attori?

Ho cercato per mesi gli attori. Sono sempre presente ai casting perché voglio ascoltare gli interpreti per capire chi ho di fronte. I cinque attori protagonisti sono giovani che stanno crescendo, e in ognuno di loro ho trovato la giusta scintilla per i personaggi. Li ho sottoposti a un lavoro molto duro, un’esperienza immersiva che li ha messi sotto pressione come volevo. Mi ha quasi sorpreso che si siano fidati completamente perché è stato davvero duro.

Hai già in mente un’opera seconda?

Si, ancora più fuori di testa di questa, non vedo l’ora. Si chiama L’universo è paese. Un film sull’importanza di non arrendersi mai. Dirlo in un periodo storico del genere credo sia urgente. Sarà un dramedy, anche se il genere lo scelgono sempre le storie. E questa è una storia che io e mio fratello curiamo già da tanto tempo. Sai, tutto dipende dalla necessità di quello che vuoi dire. Ma saprai di più quando mi faranno fare il film.

La timidezza delle chiome: due gemelli e il loro coming of age

È ora nelle sale questo originalissimo esordio al lungometraggio. La timidezza delle chiome è un documentario, o docufilm, o un film verità se vogliamo, dove la regista Valentina Bertani segue da vicino l’adolescenza di Joshua e Benji Israel, fratelli gemelli pieni di vitalità e sogni per il loro futuro. La disabilità intellettiva li limita, ma i loro genitori, protettivi e amorevoli ma sempre fermi ed equilibrati, lasciano loro tutto lo spazio per fare le esperienze dei vent’anni. Entra allora in campo l’osservazione discreta e appassionata di questa giovane regista con la quale abbiamo parlato proprio durante il lancio del film.  

Valentina, tu provieni dai videoclip, hai esperienza di spot anche fashion, e i tuoi protagonisti, Joshua e Benji hanno un viso particolarissimo. Sembrano quasi modelli. Ma vivono un disagio che racconti molto intimamente nel tuo film. Come si sono incrociate le vostre strade?

È successo per caso, in un giorno di sole a Milano. Mentre parcheggiavo il motorino ho notato due gemelli omozigoti così ricci e particolari che mi riportavano al cinema indipendente che tanto amo di Larry Clark e Harmony Korine. Ho deciso di fermarli per sapere se erano maggiorenni, se volevano fare qualche videoclip o fashion film insieme a me, ma non mi rispondevano e continuavano a camminare. Ho capito immediatamente che avevano una disabilità intellettiva perché avevo già avuto esperienze professionali con persone simili. Mentre sparivano lungo i Navigli ho pensato che forse avevo lasciato scappare una bella storia. Sono riuscita a recuperare i loro contatti chiedendo ai negozianti. Per fortuna i loro genitori sono gli ex-proprietari di un locale nei paraggi, Le Scimmie, così sono riuscita ad avere il contatto della madre.

La timidezza delle chiome è frutto di un’osservazione/lavorazione/condivisione con la famiglia Israel molto lunga. Titolo peraltro azzeccatissimo. Che tipo di percorso avete fatto insieme?

È il risultato di una grande storia di affetto tra me, gli sceneggiatori, il direttore della fotografia, la costumista, la produttrice esecutiva e casting director che è mia moglie. Sono tutti stati coinvolti nel rapporto che abbiamo instaurato con Sergio, Monica e i ragazzi. Li abbiamo frequentati per cinque anni e siamo usciti con loro tutte le settimane. Il titolo viene da un momento del film in cui è spiegato il fenomeno botanico della timidezza delle chiome [che consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano]. Risulta spiazzante perché in quel momento ci si chiede cosa sia reale e cosa costruito. Per aumentare il dubbio ho inserito un effetto di post-produzione dove le foglie inquadrate si smaterializzano, i rami smettono di toccarsi creando una geometria e regalando una suggestione allo spettatore: quanto c’è di documentario e quanto c’è di finzione in questo film che sto guardando?

Girare un videoclip è sicuramente più lineare. Quanto le tue scelte stilistiche preordinate sono state rivoluzionate sul set dai ragazzi?

Qui ho stravolto completamente il mio modo di raccontare. A livello estetico ho sempre dato priorità al crafting, al camera work, invece in questo caso ho lasciato guidare la storia. A livello umano Benjamin e Joshua mi hanno insegnato delle cose e anch’io a loro. Innanzitutto ho insegnato loro un lavoro, perché adesso sono in grado di recitare, di stare in campo senza guardare in macchina da presa. Abbiamo sempre fatto questo lavoro giocando con un nostro codice. Per esempio ho insegnato loro che l’obiettivo era come Medusa: non potevano guardarlo altrimenti si sarebbero pietrificati. Quello che hanno insegnato loro a me è che quando giri un film così character driven non puoi pensare che esista un dopo, un momento in cui il film finisce. Perché i personaggi possono anche finire di essere raccontati ma le persone non si possono abbandonare.

La timidezza delle chiome In fin dei conti il tuo film parla dell’unione di una famiglia e dell’amore fraterno. Quali sono i temi a te più cari?

Le storie che amo al cinema e quelle che voglio raccontare sono i coming of age. L’adolescenza mi affascina perché è un periodo effimero di passaggio, così come l’infanzia. L’altro argomento che mi sta a cuore è legato alla ricerca della propria identità, quindi anche tutto il cinema con tematiche queer.

La timidezza è il tuo esordio al cinema. Che tipo di film ti prepari ad affrontare adesso?

Il nuovo film che girerò si chiama Le bambine. È un film di finzione, la storia di due sorelle che incontrano una terza bambina piena di così tante difficoltà che non desidera di diventare grande come tutti gli altri bambini, ma vuole esercitare il suo diritto a rimanere piccola. Sarà un film colorato, pop, molto saturo, ambientato negli anni novanta. Ho scritto la sceneggiatura con mia sorella Nicole, Maria Sole Limodio e la supervisione di Barbara Alberti. Se tutto andrà bene lo gireremo nell’estate 2023. Siamo molto felici perché è una co-regia con mia sorella. Ho pensato di farlo con lei perché mi ha insegnato cosa significa davvero la sorellanza.

Da regista e sceneggiatrice, a quali cinematografie e a quali autori o autrici ti ispiri?

I miei registi di riferimento, come accennavo, sono Larry Clark per il suo raccontare senza filtro gli adolescenti, Harmony Korine perché conosce le regole e le stravolge cercando una grammatica tutta sua, e Todd Solondz perché ha un’ironia tagliente che trovo rivoluzionaria. Mentre le registe che mi stanno più a cuore sono Céline Sciamma, perché il suo cinema racconta storie con protagoniste femminili ben delineate e tridimensionali, ed è una continua riflessione sulla tematica dell’identità. E poi Julia Ducournau perché mi piace il body horror. Mi diverte la messa in scena del dolore al cinema. È come andare sulle montagne russe e confrontarsi con la paura del vuoto senza rischiare di cadere davvero. Il suo cinema assomiglia a un luna park: luci colorate, suoni forti e a volte un po’ di gioia mista a nausea.

 

Dalla pagina allo schermo: Dikele e Autumn Beat

Nei giorni dell’uscita su Prime Video della sua opera prima Autumn Beat, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Antonio Dikele Distefano. Ex-rapper, romanziere per Mondadori, editore multimediale per il suo magazine, sceneggiatore di Zero, serie Netflix, Dikele è un trentenne iperattivo e parla quattro lingue. Racconta la Milano del 2010 immersa nella cultura black, agli albori di una nuova scena hip hop con giovani italiani di seconda generazione.

Tito non parla bene ma scrive pezzi rap per il fratello Paco, più spregiudicato e ambizioso. Tra loro una ragazza, tanta musica da scrivere e far conoscere in giro, e intorno tanti amici della crew. A partire da screzi e fraternità, fino alla corsa per il successo, Dikele parla dei figli dell’immigrazione, una nuova fetta di società italiana che sta iniziando a raccontarsi anche nei film.

Il cinema, come la letteratura, risulta spesso un insieme di rimodulazioni drammaturgiche sul vissuto degli autori. Il tuo esordio in regia è una storia di due fratelli, della loro dualità, e in qualche modo ricorda quella tra te e Ghali.
Può essere. Dai, sì, si può dire che siamo stati fratelli, e in un modo o in un altro lo siamo ancora. Ci sono alcune cose in comune. Non abbiamo amato la stessa donna, ma magari la stessa donna era la musica. Però sì, il rapporto fraterno c’era. Nel film si rivedono mie esperienze nel mondo della musica. Ci sono dei momenti dove sono più Tito, e altri dove sono più Paco. Perché anch’io sono un bel “testa di…”.

 

Autumn Beat sembra anche il titolo di un pezzo musicale. Racconti presente, passato e futuro di questa storia rap. Il ritmo narrativo fa pensare a una partitura. Insomma, qualcosa di ancor più profondo dei temi trattati o della colonna sonora.
Se ci pensi l’Autumn Beat è ciò che dà speranza ai due fratelli, ma poi li divide. David ha l’intuizione di fare questo beat. Ma invece di realizzare il loro sogno, è ciò che li allontanerà. Ti dico, inizialmente il titolo del film era diverso. Era quello del mio romanzo, Qua è rimasto autunno. Nonostante mi piacesse molto l’idea, mi rendevo conto che cambiava ogni volta che veniva menzionato da altri. Forse non era così incisivo, lo tradivano. Così abbiamo pensato a Autumn Beat.

Quali sono le suggestioni cinematografiche con cui sei cresciuto, che ti hanno accompagnato, magari anche fino a questo set?
Tra tutti, Wong Kar-wai. Nella mia vita è successa una cosa, e di questo ringrazierò sempre mio cugino. C’è stato un prima e un dopo. Un giorno mi portò a casa un DVD di Old Boy. Dopo questo film, che mi sfracella, inizio a scoprire il cinema asiatico, fino a trovare Kar-wai. Nel progetto, la mia prima ispirazione era vicina a Ferro3 di Kim Ki-duk. Questo ragazzo che entra nelle case degli altri, invisibile, per poter vivere con la donna che ama. Non è andato avanti perché non era possibile. Qui invece ho subito suggerito al direttore della fotografia di Amazon un film ben preciso: 2046 di Kar-wai. Puntavo a quel lavoro over-the-shoulder e a quei colori caldi.

In un’intervista hai dichiarato: “In Prime Video non hanno paura della mia voce e della mia storia”. Cosa spaventa della tua storia?
Ci sono tante regole non scritte, per cui si cerca di soddisfare un pubblico che poi però non esiste. Spesso, quando parliamo di un target, sbagliamo. Le persone non sono tutte uguali, i sedicenni non sono tutti uguali. La cosa che ho trovato in Prime è stata la volontà di mettere prima la storia e poi tutte quelle regole non scritte che ci sono oggi nel mercato. Per esempio abbiamo avuto una chiacchiera lunga e intensa, piacevole, sulla parola “negro”. Non c’è stato subito un “no, non si può dire”, ma un confronto; “ragazzi, voi cosa ne pensate?”. È stato interessante mettere la storia al centro e poi tutto il resto. Per me un’esperienza super. Con loro ho avuto la possibilità di potermi esprimere senza timori, e senza certe regole che per me non hanno alcun senso.

Autumn Beat Dikele Pequeno
Antonio Dikele Distefano e Gue Pequeno.

Infatti con Prime hai firmato un contratto che ti porterà non solo a film, ma anche a progetti più trasversali.
Si, assolutamente. Io nasco sul web e ho un rapporto decuplicato con i social. Mi piace molto lavorare a contenuti e format web, e con loro sto facendo questo. L’obiettivo è quello di riuscire a portare format e contenuti che possono vivere sulle piattaforme di Prime, Twitch, TikTok, YouTube. Ma il mio obiettivo è sempre quello di riportare al cinema, e voglio provare a mettere la mia voce anche lì. Questo perché non sto mai fermo. Tra un film e l’altro dovrei star fermo un anno e mezzo, e per me è impossibile.

La musica si può ascoltare praticamente ovunque e in qualsiasi modo. Un film puoi guardarlo al cinema, in tivù o sui device. Avendo girato per una piattaforma, perdi il gusto del grande schermo. Un obiettivo o una rinuncia?
È qualcosa a cui ho dovuto rinunciare. Lo avrei voluto moltissimo, perché quando uno va al cinema stringe un patto: “ti pago e per un’ora e quaranta mi dedico solo a te”. Invece con la piattaforma non avviene: “ti pago per vedermi tutti i contenuti disponibili, con la possibilità di distrarmi e fare quel che voglio”. Il cinema resta il luogo sacro, la casa dei film. È la cosa che mi dispiace. Ma per come sono fatto, penso già a cose nuove. Spero di poter andare in sala e ai festival con un progetto futuro, se il film sarà di livello.

Da romanziere, come hai vissuto il salto dalla scrittura alla direzione di un set?
Quando fai un percorso di questo tipo, la prima cosa che scopri è che non puoi affezionarti a quello che c’è scritto sulla carta. Se lo fai, sbagli. C’è un continuo confronto, tante terre di mezzo. L’altra cosa che ti sbatte un po’ è il rapporto col tempo. Sul set parlavo con un operatore, Michel, che ha lavorato con Kechiche per La vita di Adele: facevano tre mesi di set! Vorrei anch’io lavorare così. La scrittura invece è come parlare senza essere mai interrotti. Io ho voluto fare la regia perché volevo avere il controllo di un progetto mio. Sono una persona disposta all’ascolto, ma ci tenevo a mantenere l’ultima parola.

Rispecchia anche la modalità di creazione di un pezzo in sala d’incisione.
La capacità vera, per me, è quella di sapersi scegliere le persone. Se ti circondi di persone che vogliono fare il tuo film, è fatta. Spesso invece ci circondiamo di persone che vogliono fare il loro film, ed è un limite. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che avevano tutte la volontà di fare il nostro film.

Invece sui tempi, avete fatto prove con gli attori prima del set?
Assolutamente sì. Abbiamo fatto quattro mesi di prove; avevo paura di sbagliare. Magari alcune cose sono meno riuscite, ma ci siamo massacrati di lavoro. Ad agosto del 2021 eravamo già negli uffici a parlare dei personaggi con il cast. Il percorso è stato lunghissimo e intenso, ma devo ringraziare gli attori.

Carolina Cavalli: Ho scoperto la regia grazie ad Amanda

I film hanno bisogno di pubblico, e il pubblico d’incontrare i protagonisti del grande schermo. Così dopo la partecipazione alla Mostra del Cinema di Venezia, durante il lancio cinematografico del suo Amanda, abbiamo parlato con Carolina Cavalli, regista alla sua opera prima che ci ha raccontato del film (con qualche aneddoto inaspettato).

Amanda, interpretata da Benedetta Porcaroli, è una ragazza sospesa tra l’indifferenza dei suoi genitori e una solitudine che vuole infrangere ritrovando un’amica d’infanzia, Rebecca, Galatea Bellugi, anche lei in conflitto con la madre, Giovanna Mezzogiorno. Nel cast, prima volta da attore, anche il cantautore Michele Bravi.

Possiamo dire che Amanda è una storia d’amicizia?

Sì, ma soprattutto di ricerca dell’amicizia e del proprio posto nel mondo. È una storia d’amicizia un po’ ideale come l’amico immaginario che ci creiamo da bambini per dar sollievo all’inevitabile sensazione di solitudine che si prova anche da piccoli. È un antidoto che fa parte di noi e crescendo, per me, cercare l’amica ideale è come cercare il proprio posto del mondo. Forse non c’è, ma è bello continuare a cercarla. Ed è quello che fa Amanda.

A proposito di solitudine, qui sembrano proprio gli adulti a coltivare e imporre solitudini alle loro figlie.

Direi piuttosto una sorta d’isolamento, in cui le figlie possono sentirsi protette o lontane da tutto. A ogni modo risalta un’impossibilità di comunicazione e di rapporto con la realtà, il mondo esterno. La realtà è una cosa strana poi, perché è qualsiasi cosa condivisa. Quindi l’astrazione di sé dalla realtà è più isolamento che solitudine. Però sì, ce l’hanno tutti gli adulti del film.

È la tua prima regia: sei sceneggiatrice, hai scritto Zero per Netflix, ma sei partita vincendo il Solinas e adesso ti sei ritrovata sul set dietro la macchina da presa.

Sì, ho sempre sceneggiato, soprattutto per il seriale. Ho lavorato in tantissimi script negli ultimi cinque anni. Poi alcuni progetti escono, altri si fermano, ma Amanda è venuto anche come regista. Non sapevo se sarei stata adatta perché mi sento estremamente a mio agio riportando sul foglio la mia immaginazione, la regia mi sembrava diametralmente opposta. In tante cose lo è, ma è talmente adrenalinica che provoca quasi dipendenza. Infatti ho già di nuovo voglia di girare, non me lo sarei mai aspettato.

«Siamo in mezzo al niente», «Tu stai in mezzo al niente». Si dicono Amanda e la sorella a un certo punto. E fa riflettere sui tanti non-luoghi che hai scelto come ambientazioni.

Mi affascinano molto le frasi che possono voler dire tutto o niente. E lì ad esempio Amanda e la sorella si trovano a discutere in mezzo ad un parcheggio vuoto. Lo spaesamento è stato molto importante, avere dei luoghi che non fossero significativi geograficamente. Luoghi che si sentissero, più che vedersi. Sono location scelte non per lo stile ma per la storia. Perciò i miei non-luoghi sono quasi un non-esserci.

Amanda

Infatti dalla casa in cemento di Giovanna Mezzogiorno alle grandi stanze spoglie della villa di famiglia di Amanda, dalla natura rigogliosa fino agli squarci vuoti di città al neon hai privilegiato ambientazioni molto evocative. Dove hai girato?

È vero. Ho girato principalmente a Torino e nei comuni dell’hinterland. Sai, è una città che ti offre la possibilità di sentirti dappertutto e da nessuna parte. A volte sembra il Midwest, ogni tanto Parigi. Mi dà sempre l’impressione di essere un po’ sospesa: ha un cielo tanto piatto che sembra un mare, ma in lontananza ti mostra le montagne. La trovo molto strana, a tratti malinconica e quindi poetica.

A un certo punto mostri una specie di obelisco acuminato in fondo a un parcheggio …

È l’obelisco di un outlet di Torino! Vedi che è una città un po’ buffa? Sembra aggiunto in postproduzione, e invece è reale. In generale non abbiamo aggiunto niente in post, magari abbiamo giusto tolto qualcosa. Invece lo scoiattolo che si vede alle spalle di Amanda sulla strada è stato un colpo di fortuna. È sbucato dal nulla, con una bellissima coda alta, guardava in macchina e si è messo quasi in posa!

Su quello infatti ero in dubbio se fosse aggiunto in CGI o no… Perché era perfetto anche nei tempi.

È verissimo, ed è stato un momento meraviglioso.

E con gli attori com’è andata? Hai messo insieme due giovani attrici, ma poi ha tirato fuori dal cilindro un cantautore come Michele Bravi…

Micky ha il suo universo ma è un attore, legge il personaggio e lo interpreta distanziandosi da sé. Al provino ha portato una proposta molto forte che non mi aspettavo e abbiamo lavorato proprio su quella. Ho fatto dei provini a tutti ed è stato scioccante per me cambiare dal foglio alla realtà. Poi però capisci che la realtà è piena di dettagli e sfumature che possono offrirti nuove intuizioni o difficoltà che devi impegnarti a superare in modo creativo. Lo stesso aiuto ti arriva dagli attori, perché con loro il personaggio che hai scritto esiste a prescindere dalla tua immaginazione

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Le ragazze non piangono, le due piccole Thelma & Louise di Andrea Zuliani

È difficile crescere senza un padre. Sembra una frase fatta, ma succede ad Ele, diciannovenne introversa che stringe amicizia con la giovane rumena Mia. Un vecchio camper rimesso in sesto, entrambe le ragazze con la voglia di fuggire e la casualità di ritrovarcisi dentro per un viaggio dal sud, precisamente nel potentino, fino al nord Italia. Danno vita a questi personaggi Emma Benini e Anastasia Doaga, attrici brave a metterne in scena tutte le fragilità quanto il coraggio di mettersi in gioco trovato durante quest’avventura on the road.

Le ragazze non piangono, opera prima di Andrea Zuliani, in concorso ad Alice nella Città, sempre nel grande alveo di questa finalmente competitiva Festa del Cinema di Roma 2022, scorre con freschezza e voglia di mostrare due piccole Thelma & Louise alle prese con un percorso di crescita interiore che le porterà a guardare con occhi nuovi i loro passati e il loro futuro. Il regista sceglie una forma sostanzialmente lineare per il suo racconto, spezzata giusto con alcuni flashback che scopriranno pian piano i traumi che accomunano le due ragazze. C’è l’amicizia epidermica, quella delle persone che si riconoscono amiche con poche parole in pochi incontri, la solidarietà di due giovani donne che devono unirsi ancora di più quando possono rivelarsi gli uomini, spesso e volentieri, la peggiore minaccia.

le ragazze non piangono

Zuliani percorre questa strada senza sprofondare in retorica, non inventa granché di spettacolare nelle messe in scena, ma si dedica a una naturalità del pastiche molto credibile e discretamente diretta. Soprattutto nei momenti di emotività più alta. Il suo è un piccolo film che nel suo linguaggio dai toni tenui somiglia alla vita. Tanto che anche qui in alcuni momenti ci si annoia un tantino. Poco male per un esordio autoriale. Il regista firma la sceneggiatura con Francesca Scanu, e a volte sembra si distinguano molto chiaramente i momenti curati più dall’autrice o dall’autore. Ma sono quisquilie da sesso degli angeli. Il film regge, non travolge ma accompagna lo spettatore in una piccola esperienza cinematografica da road movie. In quanto storia su quattro ruote ricorda vagamente l’esordio di Alessandro Capitani, In viaggio con Adele, ma un po’ anche Calcinculo di Chiara Bellosi.

Tornando al nostro Le ragazze non piangono, nel titolo si cela tutta l’emotività confluita e caricata in crisalide, raffinata poi in energia di risposta e propulsione verso il domani da farfalla. Come caratteristi di rango, personaggi come muri, di sostegno o da oltrepassare per il fuggire lontano delle protagoniste, rinforzano non poco il lavoro di Zuliani Max Mazzotta e Matteo Martari. I loro character si compensano specularmente risultando utilissimi nel delimitare drammaturgicamente gli spazi emotivi delle due ragazze.

Francesco Patierno e La cura per parlare di Covid e Camus

Nella Napoli odierna si dipana La cura, vicenda ispirata al romanzo La peste di Albert Camus, in concorso alla Festa del Cinema di Roma. Era ambientato in Africa, nell’Algeria Francese di Orano, ma Francesco Patierno traspone i ruoli originali su uno scacchiere con il Covid e il lockdown al posto della peste bubbonica degli anni Quaranta, rilanciando con un gioco tra due dimensioni narrative disposte in un metacinema fatto di copioni da set e attori al lavoro sempre più coinvolti nella nascente pandemia. I personaggi del medico, del giornalista, del gesuita predicatore, del portiere d’albergo e dello speculatore senza scrupoli permangono, ma nella sceneggiatura firmata anche da Francesco Di Leva e Andrej Longo vengono plasmati nuovamente intorno a doppi ruoli.

Oltre al protagonista Di Leva, nel cast abbiamo Alessandro Preziosi e Peppe Lanzetta nei ruoli di Tarrou, figlio del pubblico ministero, e di Padre Paneloux, che in questa versione parla a chiesa e città vuote, e telefonini che lo trasmettono da un treppiedi. Forse i loro monologhi sono i più forti, nonché fedeli al testo originale. Ma emergono anche Francesco Mandelli, Cristina Donadio e Antonino Iuorio. Il regista partenopeo inserisce sequenze e panoramiche girate con il drone durante il lockdown. Il risultato offre prospettive della città che ne rimarcano al tempo stesso la magnificenza dei lineamenti architettonici quanto la tragicità di quelle strade silenziosamente vuote. Senza traffico, quasi svuotate della loro stessa anima.

la cura

In questa Festa del Cinema di Roma numero 17, il lavoro di Patierno viene presentato in concorso nella sezione Progressive. Benché i presupposti e l’impostazione concettuale fossero un buon punto di partenza, La cura si sviluppa preferendo, a un linguaggio più cinematografico, una narrazione più vicina nelle forme alla letteratura da cui proviene e al teatro, dal quale forse anche Di Leva ha colto molta ispirazione.

Ne viene fuori, nonostante le prospettive offerte dalla Napoli deserta e il parterre di attori e attrici valenti, un risultato ostico a chi non conosce il romanzo, e senza mai un mordente che esuli dalle immagini toccanti legate alla pandemia. Si potevano escogitare dei cambi di registro più forti nel metacinema tra set e realtà dei personaggi, e il mescolare tutto risuona quasi autoassolutorio. Coraggiosa poi la scelta di portare adesso al cinema, e in maniera così cruda, quella stessa tragedia che ha fatto fuggire il pubblico da due anni. Ma quanto realmente utile in termini di presenze in sala? E d’incasso? Il tempo ci risponderà sulla domanda: “Esercizio di stile o molto di più?”

Per niente al mondo, ascesa e caduta di un onesto chef

In Un giorno all’improvviso Ciro D’Emilio esordiva ottimamente con la spirale percorsa da una donna dipendente dal gioco. Era un’Anna Foglietta mai così ispirata, tant’è che il ruolo le fruttò un meritatissimo Nastro d’Argento nel 2019. Impersonava una donna della provincia campana, una sconfitta in partenza che cercava di lottare a modo suo contro una vita amara. Questa volta il regista si sposta in una provincia di confine tra Friuli e Veneto guardando alla storia di uno chef di successo alle prese con l’ulteriore scalata per rinnovare narcisisticamente il suo ristorante. Il protagonista di Per niente al mondo è Guido Caprino. Intenso e potente il suo Bernardo subisce una netta caduta che lo porterà ingiustamente dietro le sbarre.

Intorno a questo atletico gastronomo con gli hobby di vino e rally si muovono complici gli amici di una vita. Un ex-calciatore di Serie A, Diego Ribon (recentemente visto nella Siccità di Virzì), e un politico locale in carriera, Antonio Zavattieri (visto su Netflix come Arrigo Sacchi nel Divin Codino). Il loro legame sarà messo a dura prova proprio dai fatti intorno a quelle sbarre che devieranno drasticamente tutto e tutti. Così anche la figura del coprotagonista Boris Isakovic, nella parte del compagno di cella di Bernardo, assumerà pericolose ambivalenze.

Ispirato a una vera storia di cronaca, il regista ha dichiarato di aver seguito anche alcune suggestioni da «Il Profeta di Jacques Audiard, per la forza stilistica e la modalità di messa in scena; 21 Grammi di Alejandro Iñárritu, per la potenza del racconto visivo e ravvicinato dei personaggi, oltre che per la coraggiosa narrazione non-lineare; The Wrestler di Darren Aronofsky, per come la regia metteva in valore sia gli aspetti umani sia gli aspetti spettacolari del film». E infine «My name is Joe di Ken Loach, per come viene esplorato il valore della resilienza del protagonista».

A differenza di questi film e del suo stesso esordio D’Emilio non osa abbastanza. La sua storia questa volta è ancora più estrema e amara, il suo protagonista è un Caprino maturo che lo segue in toto, ma il pastiche non ci restituisce quel fascino che meriterebbe anche il bel montaggio di Gianluca Scarpa. Un buon lavoro di flashback e flashforward con allacci su dettagli che amalgamano i piani temporali. Insomma, Per niente al mondo rotola forte e incisivo come una pietra sullo stomaco, sì, ma non riesce a trovare la forza di far volare lo spettatore al momento giusto. Di librarlo su quell’aura di fascino che, nel bene o nel male dei protagonisti, e a prescindere dal tipo di finale, hanno in comune tutti i film citati dal regista. Ecco, manca di fascino perché l’anima rubata al protagonista non viene fuori dal film per conquistarci del tutto.

Siccità, la Roma più arida di sempre è targata Paolo Virzì

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Tanti, troppi film sono ambientati a Roma, non è una novità. Ma quando un autore ne fa una distopia decidendo di prosciugarla per una crisi idrica, ovviamente giusto con effetti visivi, la cosa si fa più interessante. Mettiamoci pure un bel cast numeroso messo in scena con bilanciata coralità aggiunto alla firma di Paolo Virzì e il gioco è fatto. Almeno per le prime aspettative che si erano già viste dal trailer. Il regista livornese sbarca al Lido ufficialmente fuori concorso, inoltrandosi nelle spire del drammatico, non sempre generose con lui, ma lo spettacolare azzardo per Siccità ci conduce quasi dalle parti del disaster movie. E anche per la situazione di surreale stasi apocalittica nel cuore della nostra Italietta di sfruttatori e di sfruttati, nonché per il generoso parterre di attori, ricorda vagamente L’ingorgo di Luigi Comencini.

In questa Roma anche sui pavimenti delle case borghesi vivono di nascosto gli scarafaggi, Virzì ci tiene sempre a farci notare quanto la sete e la sporcizia diventino generali e trasversali in questa Roma in caduta libera. L’acqua è razionata e i vigili urbani inseguono i trasgressori che utilizzano l’acqua per lavare l’auto. Cosa vietatissima. Intanto l’estate torrida ha seccato il Tevere mostrandocelo vuoto come una specie di giallastra discarica abusiva.

Dai quartieri bene l’influencer Tommaso Ragno dispensa saggezze fioccanti di like e commenti col suo smartphone; l’autista Valerio Mastandrea attraversa invece la città e le manifestazioni violente alle prese con allucinazioni dal suo passato sedute sul suo sedile posteriore; Elena Lietti spreca acqua annaffiando di nascosto una piantina mentre messaggia febbrilmente; Silvio Orlando fa un carcerato di Rebibbia, sorridente pure se di lungo corso; e Gabriel Montesi è un borgataro che ricomincia a lavorare dopo un difficile periodo di stop.

Ma ci sono pure Vinicio Marchioni, Sara Serraiocco, Monica Bellucci, Max Tortora, Emanuela Fanelli, Claudia Pandolfi e Diego Ribon (gustosissimo il suo serioso climatologo veneto salito agli onori delle cronache). Tutti personaggi necessari i loro, ognun col proprio peso narrativo, e perfettamente stilizzati. Pregio di una scrittura orizzontale che tesse una rete abilmente snodata dall’inizio alla fine lasciandoci esplorare i meandri di un mondo-Roma inedito e stupefacente. E, nella loro tragicità, prendendo vita dal calamaio di un commediografo, non mancano neanche di farci sorridere amaramente.

Giunge alla sua opera più matura Virzì, complice anche la pandemia Covid. Siamo di fronte a un affresco distopico e di costume perché racconta non proprio un futuro, ma un oggi diverso, possibile e speriamo non probabile, fatto di anime che sono tra noi. Forse è questo lo spirito del tempo colto da un regista come lui. Per questo Siccità è accostabile alla sua pièce teatrale Se non ci sono altre domande, ma pure al suo più celebre Ferie d’agosto. Entrambi corali, totali, e guarda caso, con Silvio Orlando.

Impressionano il dramma ambientale e sociale, il senso di sconforto e disorientamento di fronte alla privazione di acqua. H2O come elemento fondamentale della vita, dell’equilibrio e della sanità. Toglierla a un paese e alla sua capitale fa venire quasi le traveggole, come una visione di pre-Natività in mezzo al letto seccato del Tevere, quando uno dei protagonisti guarderà attonito un uomo simile a un San Giuseppe immigrato, in cammino a condurre con sé un asinello sul quale siede una ragazzina incinta. Insomma, Siccità vi potrebbe seriamente scoppiare dentro al cuore quando uscirà al cinema. Non all’improvviso, ma il 29 settembre.

 

Margini: nel nome del punk, di Grosseto e della provincia noiosa

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Grosseto, 2008. Siamo in una Toscana piatta, sonnacchiosa, senza colline dolci e verdeggianti. Niente raffinatezze turistiche, ma giusto un capoluogo che sembra provincia, dove tutto resta lento e immutabile. Così il punk scorre poderoso tra le dita e sugli strumenti rumorosi di questi tre giovinastri neanche trentenni che cercano di mordere la vita attraverso la musica. Opera prima di Niccolò Falsetti per la Settimana Internazionale della Critica alla settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia, Margini potrebbe essere ascritto in quell’alveo di film giovanilistici dove piccoli antieroi della working class che ancora non trovano la loro strada, cercano con le unghie e con i denti di realizzare i propri sogni.

I Waiting for nothing – questo il nome del gruppo street punk di Edoardo, Iacopo e Michele – cercheranno di suonare a tutti i costi di fronte a un folto pubblico. Basta con le Feste dell’Unità mezze vuote o le piazzette di periferia senza piglio né attenzione. Si punta a un gruppo americano più conosciuto, e attirarli in città per un concerto da scolpire sui calendari a venire appare come la ghiotta occasione di una vita. Da questo punto di vista il pastiche, dai tratti estetici del road movie, ricorda vagamente anche certi intenti di The Commitments di Alan Parker, ma con personaggi in stile La Guerra degli Antò. Il ché non è neanche male a ben vedere.

MarginiPeccato la vita reale, i conti in famiglia con una bimba da crescere, gli impegni con la musica classica, gli idealismi sfacciati o i problemi di gestione della rabbia incombano sui nostri scavezzacollo. Ma soprattutto la difficoltà a crescere e il rifiuto – molto punk – nel prendersi le proprie responsabilità segnano e pesano sui personaggi con i volti di Matteo Creatini, Francesco Turbanti e Emanuele Linfatti. Tutti e tre centrano bene il proprio character, e le presenze di Silvia D’Amico, Valentina Carnelutti e Nicola Rignanese rinforzano ulteriormente il film.

Forse il pubblico italiano, ma soprattutto gli esercenti sempre più legati a volti scontatamente famosi del cinema non daranno molto spazio a questo film quando uscirà in sala l’8 settembre. A meno ché il caro vecchio passaparola non lo tocchi spesso con la sua bacchetta magica. Speriamo inizi comunque dal Lido. Essendo una creatura della Fandango, però, c’è da augurarsi che la distribuzione superi le Alpi per raccontare all’Europa la piccola epopea di questi sfigatissimi rocker toscani ai quali nel bene o nel male, non si può non voler bene.

Le voci sole: Giovanni Storti operaio in Polonia diventa una star dei social

Dopo tre cortometraggi i registi Andrea Brusa e Marco Scotuzzi escono al cinema con la loro opera prima, Le voci sole: il protagonista è Giovanni Storti del Trio Aldo, Giovanni e Giacomo, «una delle persone più belle che abbiano mai calpestato questo pianeta».

Uniti da un sodalizio nato ai tempi dell’università, Andrea Brusa a firmare la sceneggiatura e poi la regia con Marco Scotuzzi, i due cineasti milanesi affidano a Giovanni Storti il suo primo ruolo drammatico, affiancato da Davide Calgaro e Alessandra Faiella. Giovanni è un operaio gruista delocalizzato in Polonia, dove inizia una vita di videochiamate alla famiglia che sfoceranno per caso in una fama social destinata a mettere alla prova la famigliola. Abbiamo parlato a tutto tondo con questi due artisti che si completano a vicenda e con Le voci sole hanno già vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Seattle.

Dopo tre cortometraggi insieme siete arrivati all’opera prima. Com’è nata la vostra collaborazione?

Marco Scotuzzi Ci siamo conosciuti allo IULM quindici anni fa durante un corso di filmologia di Gianni Canova. Poi in un viaggio a Berlino organizzato dall’università io e Andrea ci siamo conosciuti meglio realizzando i cosiddetti corti universitari. Quelli orribili che non faremo mai vedere a nessuno.

Andrea Brusa Poi lui è andato in Brasile per due anni, io alla UCLA a studiare sceneggiatura, così nel 2013 ci siamo ritrovati per iniziare a girare davvero qualcosa insieme.

Le voci sole parla di temi attuali in maniera sobria e pacata.

M.S. La scelta del cast è stata fondamentale, perché nonostante il passato da comici e la formazione teatrale dei nostri tre attori volevamo che non fossero sopra le righe. Io e Andrea non siamo per le scene troppo esasperate e per i colori troppo forti. Forse viene da qui la nostra pacatezza. Allo stesso tempo siamo molto affascinati da quel che chiamiamo “le discese agli inferi”.

A.B. Per noi accadono quando persone normali scivolano in situazioni molto più grandi di loro che li portano a fare i conti con se stessi, a non riconoscersi più e a doversi reinventare da zero per trovare una via di fuga salvifica.

Le voci sole
Alessandra Faiella e Davide Calgaro in “Le voci sole”.

Per voi i social sono gli inferi o c’è una salvezza?

A.B. Originariamente in questa storia non c’era molto sui social media. Noi raccontiamo sempre di personaggi intrappolati in situazioni paradossali, grottesche, kafkiane. In Magic Alps parlavamo del primo migrante arrivato in Italia con un animale, una capra, mentre l’ufficiale di turno doveva gestirne la pratica complessa di asilo politico. Ma anche in Respiro e Il muro bianco ritorna questa struttura narrativa. Nelle Voci l’idea era guardare a personaggi persi in un mondo grottesco e sempre più surreale, la caduta negli inferi che dicevamo. Ma nel cuore della storia raccontiamo due forme diverse di alienazione e solitudine.

M.S. Pensiamo al bellissimo titolo scelto da Andrea. Se inizialmente nel film sembra suggerisca un altro modo di chiamare gli haters, in realtà l’interrogativo che viene fuori dal film è: “Non è che le voci sole siamo noi?”. Insomma, potremmo esserlo tutti. In questo modo ci mette in guardia dalla trappola in cui ognuno di noi, in certe circostanze, può cadere. Quindi è meglio mantenere alta l’attenzione.

Il tema forte del vostro film però è il lavoro delocalizzato.

A.B. Assolutamente sì, perché volevamo raccontare la storia di una famiglia di fatto smembrata. I personaggi non sono mai tutti e tre in compresenza fisica. Era questo l’espediente per vedere come questa famiglia avrebbe mantenuto l’unità anche a distanza. Così la strategia per rimanere legati diviene anche la trappola che li fa precipitare. Inserirci il Covid invece è stata una scelta più legata a problemi produttivi e di rinvio della lavorazione che pura necessità narrativa.

M.S. L’alienazione vissuta da Giovanni in fabbrica lo porta a divenire estraneo da se stesso, seguendo più i ritmi delle macchine che quelli umani. Allo stesso modo, Rita pensa di governare i suoi follower ma poi ne cade in balìa, vivendo in funzione di ciò che il web le chiede di fare. C’è un parallelismo interessante tra fabbrica e web nel meccanismo che fa muovere una persona come un burattino.

A.B. In questo senso è un film sul potere.

Giovanni Storti è anche il poliziotto del corto Magic Alps: ma cosa avete scoperto di lui facendolo passare dal comico al drammatico nel suo habitat, il lungometraggio?

M.S. Per lui è tutto molto inconsapevole, d’istinto. Spesso ce lo ripeteva. Giovanni, fidandosi, provava a realizzare al meglio le nostre richieste. Noi eravamo già da tempo innamorati del suo volto, perché è così austero che abbiamo sempre pensato alla sua potenzialità drammatica. Già in alcuni film del trio veniva fuori questa vena. Perché non esplorarla ancora di più?

A.B. Giovanni è un ventiduenne! Fa maratone in tutto il mondo, è una forza della natura. Ma ha una voglia di sperimentare e divertirsi, di provare cose diverse, che lo rende coraggioso e libero. Non ha alcuna paura a prendersi rischi, non ha sovrastrutture, pregiudizi o preconcetti. Si butta con entusiasmo ed è anche una delle persone più belle che abbiano mai calpestato questo pianeta. Lavorare con lui è un sogno.

Le voci sole
Andrea Brusa e Marco Scotuzzi.

Da dove viene l’idea di usare immagini e suoni industriali come una sorta di onomatopea delle emozioni dei vostri personaggi?

M.S. Avevamo proprio questo intento. Era un meccanismo rischioso trattare in maniera così fredda e oggettiva la fabbrica con inquadrature fisse, ferme e lunghissime, quasi alienanti; e in maniera diametralmente opposta le videochiamate: camera a mano dove senti quasi il respiro dell’operatore, dove percepisci ancora di più le tensioni tra Giovanni e Rita. Ma ci ha convinto sin dall’inizio. Anche il percorso della camera dentro la fabbrica da esterno giorno fino alla bocca del forno, di notte, ci sembrava rappresentasse la discesa agli inferi di Rita e Giovanni.

A.B. Volevamo quasi piazzare il pubblico a metà strada tra Italia e Polonia. Nella fabbrica c’è più il punto di vista di Rita che immagina il mondo intorno a Giovanni, però senza vedere lui. Ci piacerebbe dire che la fonderia si trova davvero in Polonia, ma abbiamo girato in provincia di Pavia, lì abbiamo trovato moltissima disponibilità dell’azienda che ci ha ospitati per girare le scene industriali, fondamentali. E il merito è del nostro produttore Andrea Italia.

Ha pure un che di chapliniano l’alienazione della vostra fonderia. Forse l’ingrediente che vi ha fatto conquistare il Festival di Seattle?

A.B. Sì, in un festival molto attento alle nuove voci del panorama internazionale, col nostro piccolo film pensavamo di passare sottotraccia. C’erano tanti altri film in concorso, una giuria americana, e invece abbiamo vinto nonostante i dialoghi difficili da sottotitolare.

M.S. E poi ridevano come pazzi, avendo colto che gli attori sono tre comici. Li faceva molto ridere che un italiano mangiasse la pizza col ketchup. E ci hanno visto anche Chaplin, infatti hanno definito il film un “cautionary tale sui tempi moderni” e sull’attualità che ci circonda.

QUESTA È UN’ANTICIPAZIONE DEL NUMERO 37 DI FABRIQUE DU CINÉMA: ABBONATI QUI ENTRO IL 15 LUGLIO PER RICEVERE LA RIVISTA A CASA ED ESSERE SEMPRE AGGIORNATO SUI NUOVI TALENTI DEL CINEMA!