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Stefania Covella

Per un pugno di capolavori: Sergio Leone e Il colosso di Rodi

Sergio Leone è riconosciuto universalmente come uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante abbia diretto appena sette film (considerando solo quelli regolarmente accreditati). Leone era proprio come i suoi personaggi, come un cowboy taciturno e imperscrutabile, caratterizzato da un sigaro sempre acceso e da una frase epica da sfoggiare all’occorrenza, un po’ come la sua dichiarazione più famosa: «Quando ero giovane credevo in tre cose. Il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite».

Ha iniziato dal genere peplum (o il più gergale sandaloni), incentrato sulle azioni eroiche del mondo epico greco-romano. Negli anni sessanta, nonostante i detrattori, ha cambiato il genere western, l’ha reso più sporco e cattivo e per questo più umano. Grazie a titoli come Per un pugno di dollari, Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West, ha dato vita a un sottogenere italiano noto come spaghetti-western. Mentre, con C’era una volta in America ha profondamente rinnovato il lessico dei gangster movie. Leone è giovanissimo quando l’Italia è appena uscita dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e l’industria cinematografica è tutta da ricostruire. Le grandi produzioni hollywoodiane, attratte dai prezzi molto bassi e dalla disponibilità di manodopera a buon mercato, accorrono a Cinecittà nel periodo della cosiddetta Hollywood sul Tevere.

sergio leone

Figlio d’arte: il padre Vincenzo Leone (in arte Roberto Roberti) è attore e regista ed e considerato uno dei pionieri del cinema muto italiano e la madre, Edvige Valcarenghi (in arte Bice Valerian), è un’attrice. Leone inizia a lavorare nel cinema come comparsa, appena diciottenne, in Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica (qui il suo esordio) e come assistente alla regia per vari kolossal come Quo Vadis (1951) e Ben Hur (1959). In quegli anni spesso non viene neanche accreditato, come accade anche per la sua prima regia: il peplum Gli ultimi giorni di Pompei (1959). La pellicola era originariamente diretta da Mario Bonnard, ma venne ultimata da Leone perché il regista era troppo malato per terminare il film.

Grazie alla lunga esperienza maturata sui set, il regista romano è riuscito a realizzare la sua opera prima: Il colosso di Rodi (1961) un peplum epico-romano. Il talento di Leone sta proprio nel far sembrare spettacolare un film a basso budget, rivelandosi un cineasta dal gusto per lo spettacolo e già con un’ottima padronanza tecnica. La vicenda è ambientata nell’Isola di Cipro ed è la storia dell’enorme statua fatta costruire da Serse all’imbocco del porto di Rodi per bloccare i movimenti delle navi greche. Si tratta di cinema popolare, ma realizzato da formidabili artigiani in un immaginario d’intrattenimento fatto di intrighi e tradimenti, bene e male, eroi dai muscoli oliati che difendevano regine bellissime e città sotto assedio. Il Colosso di Rodi è un’opera che denota alcune immaturità, ma resta una visione godibile, soddisfacendo le aspettative di spettacolo e di avventura e realizzando anche un buon incasso al botteghino (657 milioni di lire).

sergio leone

Il lungometraggio è stato anche al centro di una celebre lite: il protagonista maschile, John Derek, aveva accusato Leone di essere troppo inesperto per dirigere il film e per questo voleva prendere in mano la regia. Alla fine ha avuto comunque la meglio Leone, grazie al sostegno della maggioranza della troupe, mentre Derek si è dimesso dal set.

Sergio Leone è stato un regista molto amato, sia da alcuni attori come Clint Eastwood, che da lui stesso è stato scoperto e trasformato da attore televisivo a Divo del cinema, sia da registi come Quentin Tarantino, che si è ispirato a Sergio Leone per realizzare il suo celebre The Hateful Eight, scegliendo Ennio Morricone (compagno di classe, amico e compositore di fiducia di Leone) per la colonna sonora. A Tarantino è legato un aneddoto: sul set de Le iene (1992), agli inizi della propria carriera, non conoscendo ancora tutti i termini tecnici era solito chiedere ai propri operatori di ripresa «give me a Leone», ovvero «datemi un Leone», per avere uno di quei primissimi piani sui dettagli, marchio di fabbrica del cineasta italiano.

sergio leone

Un regista geniale e innovativo, decisamente post-moderno, l’uomo che ha trasformato Clint Eastwood in una star, il narratore che per rappresentare l’estremo Occidente si rifaceva all’estremo Oriente (anche plagiando Akira Kurosawa e perdendo una causa per questo). Un regista che ha portato sullo schermo l’essenzialità dei gesti del cinema muto paterno e la tecnica hollywoodiana appresa dagli americani, facendo del suo cinema uno spettacolo con profondità inaspettate. Nonostante il successo più o meno costante, il regista romano aveva così poca fiducia nell’accoglienza delle sue pellicole, da dichiarare a ogni fine set che quello sarebbe stato il suo ultimo film.

Le opere di Sergio Leone – tutt’altro che parlate, infatti Adrian Martin definisce i suoi film «odi ai volti umani» – sono piene di frasi culto che l’hanno reso parte di un immaginario immortale. Dopotutto, chi di noi non ha mai detto almeno una volta nella sua vita la frase cult pronunciata da Ramon Rojo (Gian Maria Volonté): «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto?»

Crisi di Ingmar Bergman: dal fiasco alla storia del cinema

Per il centenario della nascita di Ingmar Bergman la Svensk Filmindustri e la Ingmar Bergman Foundation hanno concesso la proiezione del nuovo restauro del Settimo Sigillo e di Ciò non accadrebbe qui, la spy story anticomunista disconosciuta dal regista svedese, al festival de Il Cinema Ritrovato promosso dalla Cineteca di Bologna.

Ingmar Bergman è stato un regista, sceneggiatore e drammaturgo ed è considerato uno dei maestri della cinematografia mondiale. Il suo film più famoso è Il posto delle fragole (1958), pellicola che gli è valsa un ricovero per esaurimento nervoso, ma anche l’Orso d’oro al Festival di Berlino e il premio della critica al Festival di Venezia. L’enorme influenza che l’opera di Bergman ha avuto sui registi europei l’ha reso un punto di riferimento per il cosiddetto cinema d’autore. Del regista svedese, Jean-Luc Godard (qui la sua opera prima) ha detto: «Ingmar Bergman è il cinema dell’istante», mentre Michael Winterbottom l’ha recentemente nominato nell’intervista che uscirà sul numero cartaceo di Fabrique.

ingmar bergman

Bergman è stato uno dei migliori registi dal punto di vista visivo e allo stesso tempo uno degli sceneggiatori più raffinati in circolazione. Il rapporto conflittuale con i genitori ha portato il giovane Bergman a rinchiudersi in un mondo fittizio, con il quale sostituiva quello reale. Quando a dodici anni ha ricevuto in regalo il suo primo proiettore cinematografico, quel mondo-rifugio è diventato il cinema, con le sue luci e le sue ombre.

Ingmar Bergman ha iniziato la sua carriera in un teatro studentesco di Stoccolma, scrivendo i testi e dirigendo una compagnia filodrammatica senza ricevere compenso, mantenendosi grazie all’aiuto di una ragazza del corpo di ballo. Ottenuta una certa stabilità economica, nel giro di due anni ha scritto e prodotto ben dodici drammi e un’opera lirica. Nel 1942, uno dei suoi drammi è in scena e dalla platea lo notano il neodirettore della Svensk Filmindustri e la responsabile della sezione manoscritti. Il giorno dopo, il giovane Bergman viene convocato e assunto con uno stipendio di cinquecento corone al mese.

ingmar bergman

Così, appena ventottenne, nel 1946 dirige la sua opera prima su commissione: Crisi (Kris). Come recita la voce fuori campo: «Non la definirei un dramma straziante, piuttosto un dramma quotidiano. Dunque è quasi una commedia». La storia, semplice e lineare, racconta di una diciottenne adottata che ritrova la madre biologica e la segue in città. Sedotta dall’avventura, scopre il lato oscuro delle persone e di sé stessa, ma dopo una cocente delusione torna dalla donna che l’ha cresciuta e sposa l’uomo che l’ha sempre amata.

Ingmar Bergman è moderno e attuale nel tratteggiare la crisi esistenziale dell’uomo, dopotutto è lui stesso ad affermare che «non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza» e in questo modo dà vita a un nuovo filone filosofico ed esistenzialista. Il carattere autobiografico si rintraccia facilmente nei temi bergmaniani: la solitudine, il conflitto generazionale, il dolore del sentirsi inutili, l’innocenza perduta, la morte e il rapporto con la religione. Per il regista svedese «lo spettacolo della vita è un teatro di marionette», per questo il suo è un cinema fatto di dicotomie, di confronto continuo tra realtà e irrealtà, tra vita e teatro e il sipario non ha bisogno di calare su un palco, può farlo la tenda di una finestra, in una casa un po’ vuota, su una vita qualunque.

ingmar bergman

Nei chiaroscuri taglienti di Crisi, si inseguono specchi, treni, sigarette e manichini e le luci evanescenti illuminano il lieto fine più triste del mondo. In questa pellicola manca la catarsi, alla fine riparte il circolo diabolico e infelice e si ritorna all’incipit: la ragazza in fuga dall’artificiosità cittadina, con disincanto finisce per accettare di vivere imbrigliata nelle convenzioni sociali. In Crisi l’interrogativo principale, in ultima analisi, è se e quanto è possibile spogliarsi davanti all’altro, Jenny non ci riesce e accetta di recitare nella vita come nel teatro. Sotto luci al neon a intermittenza, la giovane si guarda allo specchio e sa di essere falsa e che il suo inferno sono gli altri.

La pellicola, un po’ come Jenny, è stata sfortunata, anche se è da considerarsi una dignitosa opera prima. La lavorazione di Crisi infatti è stata caratterizzata da numerosi imprevisti: vari incidenti e feriti sul set, il direttore della fotografia che abbandona il progetto e Bergman con le sue scelte costose e improduttive. Inoltre quando il film esce nelle sale, il 25 febbraio 1946, è un fiasco clamoroso. Ingmar Bergman è la dimostrazione che da un fallimento ci si può rialzare e che non tutti i grandi della storia del cinema hanno avuto un esordio da favola, di certo non Bergman, oggi considerato all’unanimità un maestro della settima arte.

Quarto potere: Orson Welles e il film inedito di Netflix

The Other Side of the Wind, l’ultimo e inedito film di Orson Welles, è stato acquistato da Netflix e avrà una distribuzione mondiale nelle sale in 35mm. Girato da Wells tra il 1970 e il 1976 insieme a colleghi e amici, non era mai stato completato a causa di alcuni problemi produttivi. La storia racconta gli ultimi giorni di un regista leggendario impegnato a pianificare un ultimo film decisamente estremo e a basso budget, ma finisce per innamorarsi del suo attore protagonista.

Facciamo però un salto indietro: è il primo maggio del 1941 e siamo a New York. È una sera apparentemente come tutte le altre, ma la sala del Palace Hotel ospita l’anteprima mondiale di Quarto potere (Citizen Kane), l’esordio di Orson Wellesqui le altre opere prime d’autore – destinato a diventare uno dei film più importanti della storia del cinema.

orson welles

Enfant prodige, Welles suona il piano, dipinge e recita fin da bambino, ha avuto successo all’età di ventitré anni grazie all’adattamento radiofonico del romanzo di fantascienza di H. G. Wells La guerra dei mondi (The War of the Worlds): la leggendaria trasmissione che scatenò il panico negli Stati Uniti, facendo credere alla popolazione di essere sotto attacco da parte dei marziani: «Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood». Questo insolito debutto gli ha dato la celebrità e un contratto per un film all’anno, per tre anni, con la casa di produzione cinematografica RKO. Gli viene concesso anche il cosiddetto final cut, cioè il diritto di dire l’ultima parola sul montaggio finale. Orson Welles ha portato a termine solo uno dei tre progetti: Quarto potere, il suo capolavoro.

La pellicola narra la vita del magnate della stampa Charles Foster Kane (Orson Welles), egocentrico e incapace di amare, rimasto solo all’interno della sua gigantesca residenza (Xanadu), dove muore abbandonato da tutti. La sua ultima parola è stata: «Rosebud», in italiano «Rosabella». Il direttore di un cinegiornale incarica Jerry Thompson (William Alland) di scoprire il significato di quella parola, la sua inchiesta lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane e che gli raccontano storie completamente diverse. Spetta al pubblico ricomporre questo intricato puzzle.

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La storia di Kane si perde nella capacità manipolativa dei mezzi di comunicazione, come lui perde sé stesso, l’amore, la famiglia, la stima degli altri e le sue amicizie, per sostituirle con l’accumulo di cose, rarità e castelli, nel tentativo di sopperire alla mancanza di sentimenti. Quarto potere è stato osannato dalla critica, ma ha faticato a ottenere il grande successo di pubblico anche a causa dell’opera di boicottaggio intrapresa dal magnate della stampa William Randolph Hearst, ovvero a colui a cui è ispirato il personaggio di Charles Foster Kane.

L’esordio di Welles è soprattutto un film innovativo: il giovane regista ha modificato il metodo classico di ripresa cinematografica, cambiato l’uso della profondità di campo e utilizzato la tecnica del piano sequenza. A livello di scrittura ha fatto ricorso all’uso sistematico dei flashback e a una estrema caratterizzazione psicologica dei personaggi, mentre, come protagonista, Welles ha dimostrato la propria abilità interpretativa, arrivando a coprire tutte le fasi dell’esistenza di Kane: la giovinezza da idealista direttore di giornale, passando per la mezza età all’apice del carisma e del successo, fino alla vecchiaia da megalomane soffocato dalla smania di possesso.

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Anche l’aspetto del travestitismo è fondamentale, Orson Welles ha utilizzato elaborate tecniche di trucco e camuffamento: «Riuscivo appena a muovermi, per via del corsetto e del cerone sul viso. Norman Mailer, una volta, ha scritto che quando ero giovane ero il più bell’uomo che mai si fosse visto. Grazie tante! Era tutto merito del trucco di Quarto potere

Jeanne Moreau ha detto che la vita di Welles era «costellata di valigie che si perdono, di aerei che non partono, di appuntamenti mancati, di film che non si finiscono»: nella realtà come sul grande schermo, Orson Welles si affida alle convenzioni per poi disattenderle. Stravagante, fantasioso, decisamente barocco e contorto, lo scrittore Jorge Louis Borges colpisce nel segno quando definisce Quarto potere un labirinto senza centro, mentre François Truffaut lo appella come il film dei film, dopotutto ha ispirato l’esordio di moltissimi registi e attori. C’è un prima, ma soprattutto c’è il cinema dopo Orson Welles e sta tornando in sala.

I 50 anni di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick

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2001: Odissea nello spazio compie 50 anni e il Festival di Cannes ha celebrato il film con la proiezione in 70 millimetri. Christopher Nolan ha introdotto la pellicola nel corso di un evento, alla proiezione sono stati presenti varie personalità del cinema mondiale e Katharina Kubrick, la figlia di Stanley Kubrick.

2001: Odissea nello spazio (qui il trailer ufficiale), l’ottavo lungometraggio di Stanley Kubrick, è considerato un capolavoro e costituisce una svolta epocale per il cinema. Tratto da un soggetto di fantascienza dello scrittore Arthur Clarke, nel 1991 il film è stata giudicato di significativo valore estetico e culturale. Nel 1969 ha vinto un Oscar per i migliori effetti speciali ed è stato inserito nella lista dell’American Film Institute al quindicesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi.

stanley kubrick

La pellicola racconta una favola apocalittica sul destino dell’umanità e sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia sempre più sviluppata, un’avventura spaziale che diventa scoperta di sé stessi e dell’ignoto. Stanley Kubrick ha sempre sostenuto che «Se può essere scritto o pensato, può essere filmato» e così ha girato un film considerato impossibile da realizzare. Guardandolo ci si ritrova persi nello Spazio o bloccati dallo stesso cortocircuito del supercomputer HAL 9000: la macchina, l’occhio rosso che deve mentire all’equipaggio ma non sa farlo. L’intelligenza artificiale che compie un errore non potendo perdonare a sé stessa di essere venuta meno alla perfezione, quella che dovrebbe distinguere i robot dagli esseri umani.

Ed è la storia della macchina più umana di tutte: Kubrick nel 1968 si interrogava su dilemmi attualissimi che sono il nodo nevralgico di una serie immensa come Westworld. Questo ci dimostra che non abbiamo smesso di farci domande ed è questo che conta, come dice Kubrick stesso: «Se qualcuno riesce a capire davvero 2001: Odissea nello spazio abbiamo fallito. Volevamo fare domande più che dare risposte».

stanley kubrick

Uno dei segreti di lunga vita di 2001: Odissea nello spazio è la cura maniacale dei dettagli: l’elaborazione dei vari modelli di astronavi non è stata affidata ad artisti o artigiani, ma a veri e propri ingegneri aerospaziali; i satelliti, la stazione spaziale e le varie tecnologie che appaiono all’inizio della seconda parte del film, sono riproduzioni di veri progetti della NASA. Grazie anche all’importante collaborazione del designer Hans Kurt Lange, Stanley Kubrick ha portato sullo schermo un futuro che in parte si è verificato, mostrando cose come il cibo liquido, le videochiamate e i tablet. Gli avvenimenti in ambienti senz’aria si svolgono in silenzio o con un valzer di Strauss ad accompagnare il volo delle astronavi.

Tutto in 2001: Odissea nello spazio è costruito per provocare nello spettatore un forte impatto emotivo, Kubrick stesso ha affermato: «Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico del film. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio».

stanley kubrick

Quando il film è stato presentato in anteprima mondiale il 2 aprile 1968 a Washington e in Italia il 12 dicembre dello stesso anno, ha suscitato reazioni contrastanti da parte della critica e del pubblico: è famosa la storia dell’uomo che, alla vista del monolite nero e sotto l’effetto di LSD, è corso verso lo schermo rompendolo e urlando: «È Dio». Senza contare le teorie complottiste sull’allunaggio e tutta un’altra serie di interpretazioni più o meno fantasiose, 2001: Odissea nello spazio può considerarsi uno dei film più discussi di tutti i tempi. Queste sono solo alcune delle ragioni per le quali divenne il maggiore incasso cinematografico del 1968 e ottenne un seguito da film di culto.

David Bowie ha dichiarato di aver scritto Space Oddity ispirato dal film, ma non solo lui, all’inizio di Perfect Sense Roger Waters canta: “La scimmia sedeva su un mucchio di pietre e fissava l’osso rotto nella sua mano” e saranno poi numerosi i riferimenti artistici, pop e culturali a quella che è considerata una pietra miliare del cinema kubrickiano. La verità è che 2001: Odissea nello spazio non solo non ci ha ancora stancato, ma non è invecchiato neanche di un fotogramma.

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio: Almodóvar e le donne

Se dici cinema spagnolo tutti pensano immediatamente a lui: Pedro Almodóvar. Con il suo sguardo dolce-amaro sul mondo, film dopo film, ha smascherato l’ipocrisia della società con una risata. Con Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) ottiene la sua prima candidatura all’Oscar, mentre Tutto su mia madre (1999) lo consacra al grande pubblico, vincendo la Miglior Regia a Cannes nel 1999 e l’Oscar al Miglior Film Straniero nel 2000.

Il film è noto come la dichiarazione d’amore del cinema alle donne. Sono loro le eroine di tutti i suoi film: coraggiose, ironiche, giovani, vecchie, nevrotiche, perse, sole, amanti, puttane, madri, traditrici, fedeli o malinconiche, incarnano gli opposti, il dualismo di tutte le cose. Pedro Almodóvar predilige l’universo femminile e dedica tutta la sua filmografia a illustrarne le molteplici sfaccettature, dichiarando dopotutto: «per me l’origine della finzione, del teatro, dello spettacolo è vedere più di due donne che stanno parlando».

 

Pedro Almodóvar ha raccontato spesso di aver scoperto il cinema giovanissimo grazie a una piccola sala di paese dove, per combattere il freddo durante le proiezioni, portava una latta piena di carbonella. Il calore di quel braciere improvvisato si è trasformato nel paradigma di quello che il cinema significa, il conforto di qualcosa che brucia e riscalda. Se è vero che il cinema nasce da un trauma, quello di Almodóvar è venuto al mondo nel sottosuolo di una compagnia telefonica, dove ha lavorato per dieci anni. Frustrato da un lavoro sicuro ma noioso, ha già trent’anni quando cerca disperatamente un modo per esprimersi. Nei ritagli di tempo, prova di tutto: recita in una piccola compagnia teatrale, pubblica il memoir di una donna immaginaria, scrive fumetti, racconti underground e un fotoromanzo porno. Poi, arriva il cinema, gira corti in Super8 e li proietta per gli amici, improvvisando dal vivo la colonna sonora.

È il 1980, quando esordisce nel lungometraggio con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón) con Carmen Maura come protagonista. Almodóvar spende una cifra ridicola, 400 pesetas, per un film di 80 minuti scarsi, girando solo durante i fine settimana con amici e volontari. Il pubblico lo accoglie con poco entusiasmo, la critica lo trova scandaloso e un po’ volgare, gli agenti sconsigliano alle attrici di lavorare con lui per non bruciarsi la carriera. Ci vorrà un po’ prima che gli venga riconosciuto il talento unico che l’ha reso un maestro del cinema.

almodóvar

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio ci porta nel cuore della movida madrilena: musica punk, abbigliamento sgargiante anni ‘80 e libertà sfrenata post-franchista. Il film racconta la storia di Pepi, una ragazza emancipata che conserva la sua verginità per poterla vendere e ricavarne un po’ di soldi. Nel tempo libero coltiva marijuana sul suo balcone, un poliziotto la scopre e cerca di arrestarla e alla fine la violenta. Pepi si vendica, ma il pestaggio non va come previsto; usa allora la giovanissima amica Bom per sedurre Luci, la moglie del poliziotto, una donna repressa con tendenze masochiste. Così delle pratiche sessuali estreme vengono scambiate con lezioni d’uncinetto e tra equivoci, donne barbute, ripicche, pubblicità assurde e situazioni grottesche, un gran numero di personaggi fuori dagli schemi reggono un film folle dalla trama a tratti sconclusionata.

L’esordio – qui le altre opere prime d’autore – al cinema di Pedro Almodóvar non è privo di difetti, ma sorprende per la sincerità con cui dà vita alla storia e il modo onesto e senza filtri scelto per raccontarla.  Tra le risate della commedia almodóvariana, si percepisce però sempre una tensione malinconica che vibra tra piacere e dolore e caratterizza il suo cinema degli emarginati. Sotto il franchismo essere omosessuali costituiva un reato, migliaia di gay vennero condotti in colonie agricole (veri e propri campi di concentramento). In questo contesto, Pepi, Luci, Bom è un esordio dissacrante che inneggia all’eversione e alla libertà più sfrenata: per questo si parla di cinema di rottura più che di semplice tentativo di scandalizzare.

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Almodóvar mette in primo piano quei personaggi che nessuno mostra sul grande schermo: transessuali, gay e bisessuali, ma anche eterosessuali lontani dallo stereotipo del machismo e donne sessualmente libere che sovvertono le regole sociali con fascino, eros e melodramma. Un mondo dove nessuno è veramente per bene come vuole dare a vedere e gli stereotipi vengono puntualmente ribaltati.

Alla fine, i suoi film sono vere e proprie storie d’amore tra i protagonisti e la vita, i personaggi seguono i propri istinti viscerali perché in fondo vogliono solo essere liberi. Vivono tutti una dualità, cercano libertà e sottomissione senza contraddizione alcuna, non si vergognano di quello che desiderano, che sia una un’umiliazione o un gioco di ruolo. Soprattutto, amano indistintamente in modo eccessivo e confusionario, un po’ come si ama la vita dopo una lunga reclusione, così come si ama il cinema folle, colorato e senza regole di Pedro Almodóvar che comunque non sarà mai più così esplicito e bruciante.

Daniele Vicari: a Velocità massima verso la prima serata di RAI Uno

Daniele Vicari, classe 1967, è un regista e sceneggiatore italiano, docente di regia presso l’Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma e direttore artistico della Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté.

Ha collaborato dal 1990 al 1996 come critico cinematografico per Cinema Nuovo, per poi passare alla rivista Cinema ‘60, interessandosi soprattutto ai film impegnati. La passione per questo genere è presente anche nelle sue prime produzioni, ovvero documentari e film d’impegno socio-politico che spaziano dalla storia di cinque operai licenziati dalla FIAT nel 1980 al film collettivo antifascista, dalle vicende di un fisico nucleare sul Gran Sasso all’adattamento del romanzo di Carofiglio Il passato è una terra straniera, passando per il crudo racconto dei fatti del G8 di Genova e per il documentario sullo sbarco in Italia nel 1991 della nave albanese Vlora.

daniele vicari

Daniele Vicari è uno dei pochi narratori audiovisivi italiani a raccontare con equilibrio le storie che toccano il desiderio e la paura di misurarsi con sé stessi e con gli altri. Vicari usa il cinema come lente d’ingrandimento sociale e indaga la sensibilità degli uomini e i loro rapporti, andando ben oltre l’ingannevole gioco degli specchi al quale siamo abituati. Vicari è un equilibrista del cinema, serio e scanzonato insieme, che cammina sul filo e sembra non soffrire mai di vertigini, planando delicatamente sulle storie, sui personaggi, sulla vita che racconta senza iperboli. Sfiora l’orrore, lo mostra e non lo giudica e per questo il suo cinema indipendente, reale e realistico, è un incanto.

L’esordio al lungometraggio (qui per scoprire tutte le nostre opere prime d’autore) avviene con Velocità massima (2002), la storia di un diciottenne di Ostia, Claudio (Cristiano Morroni), che sogna di fare il meccanico. Il padre preferirebbe che occupasse un posto nella sua ditta di autodemolizioni, ma il ragazzo ha un talento innegabile nel campo dei motori, tanto da essere introdotto da Stefano (Valerio Mastrandrea) nel mondo delle corse automobilistiche clandestine. Il film è un successo: Vicari vince numerosi premi tra i quali il Premio Pasinetti per il miglior film e il David di Donatello per il miglior esordio alla regia.

daniele vicari

Il regista confeziona un film semplice e diretto, con una regia ritmata, che presenta momenti d’azione calibrati e dialoghi divertenti e ben scritti. Soprattutto, Vicari compie una vera e propria analisi sul popolo delle corse: infatti, prima di girare il film, il regista si è infiltrato in questo mondo clandestino che aveva già raccontato nel documentario Sesso, marmitte e videogames.

Vicari dimostra del talento anche nella scelta degli attori non professionisti e al di fuori del panorama attoriale italiano, come Morroni. Purtroppo, il personaggio meno riuscito è quello di Giovanna (Alessia Barela), dato che tutta la storia d’amore della donna che divide i due amici è prevedibile e sa di già visto. Ciò nonostante, Velocità massima recupera terreno nella parte finale, spazzando via ogni possibile risvolto banale. Il lungometraggio è pertanto una storia di inettitudine ma anche di rivalsa, di chi combatte contro i problemi di tutti i giorni e contro i drammi quotidiani, da quelli economici a quelli sentimentali. Un’auto veloce serve a seminarli, lasciarseli alle spalle, puntare solo alla vittoria.

daniele vicari

Secondo Daniele Vicari «Non sono importanti i registi, ma sono importanti i film» e, senza pregiudizio cinematografico, si può imparare qualcosa da qualsiasi pellicola. Dopotutto, uno dei momenti rivelatori come spettatore l’ha avuto guardando un episodio della serie televisiva poliziesca anni ‘70 Starsky & Hutch. Il cinema italiano che non lascia spazio agli snobismi e si confronta con la sfida enorme di raccontare la gente e gli eventi di massa è quindi il cinema che merita di essere in sala.

Prima che la notte, ultimo film di Daniele Vicari, andrà in onda in prima visione su RAI Uno, oggi mercoledì 23 maggio, in occasione della Giornata della legalità. Prima che la notte è la storia di Pippo Fava (interpretato dal bravissimo Fabrizio Gifuni), giornalista anti-mafia, carismatico e indomito: «Un intellettuale moderno che la mafia ha ucciso ma non battuto». Dopo essere stato presentato in anteprima al BIF&ST Festival del Cinema di Bari, dove ha commosso il pubblico e raccolto numerosi consensi, possiamo finalmente vederlo in prima serata.

Vittorio, c’eravamo tanto amati: De Sica e Maddalena… Zero in condotta

La versione restaurata di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica è stata presentata al 71° Festival di Cannes, nella sezione Cannes Classics, per i 70 anni dalla realizzazione del capolavoro del 1948.

Conosciuto in tutto il mondo per essere uno dei padri, insieme a Roberto Rossellini e Luchino Visconti, del Neorealismo cinematografico italiano, Vittorio De Sica (1901–1974) è stato attore, regista e sceneggiatore. Tra i cineasti più influenti della storia del cinema, nato in «tragica e aristocratica povertà», appena quindicenne ha iniziato ad esibirsi come attore dilettante in piccoli spettacoli. «Parlami d’amore Mariù… tutta la mia vita sei tu…» forse non sapete che il motivetto di questa canzone l’ha canticchiato, nel 1932, proprio De Sica nel film Gli uomini, che mascalzoni… di Mario Camerini, la pellicola del suo esordio come attore prima di affermarsi come uno dei più grandi cineasti italiani.

de sica

Una volta iniziata la sua fortunata attività come regista, non ha abbandonato la recitazione: è apparso in un centinaio di pellicole, anche in piccoli ruoli, collezionando numerosi premi. Vittorio De Sica ha firmato quattro grandi capolavori del cinema mondiale: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952), i primi due hanno vinto l’Oscar come miglior film straniero e il Nastro d’argento per la migliore regia. Nel 1972 De Sica ha ottenuto il suo quarto e ultimo Premio Oscar con la trasposizione filmica del romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei Finzi-Contini.

«Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso della piccola cronaca, anzi, della piccolissima cronaca» così il regista racconta la vita vera dell’Italia del dopoguerra, prende gli attori dalla strada e costruisce una regia fatta di primi piani drammatici e contrasti. Molti dei suoi film rientrano però nella categoria del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi, definizione derivata dal modo di rappresentare la piccola borghesia attraverso i generi tipici dell’epoca: il vaudeville e il film di tipo collegiale.

Maddalena… Zero in condotta (1940) appartiene al secondo genere e, oltre ad essere tratto da una commedia ungherese di Laszlo Kadar, segna l’esordio alla regia di Vittorio De Sica. La pellicola è ambientata a Roma, in un istituto professionale femminile: le alunne di una quarta si prendono gioco di Elisa Malgari (Vera Bergman) giovane professoressa di corrispondenza commerciale. Tra tutte, spicca Maddalena Lenci (Carla Del Poggio), una ragazza dal carattere vispo che trova una lettera d’amore scritta da Elisa, il destinatario è il signor Hartman l’uomo immaginario usato negli esempi del libro di testo. La studentessa privatista Eva (Irasema Delian), impadronitasi della lettera, la spedisce per errore e arriva per davvero ad Alfredo Hartman (Vittorio De Sica), un ricco industriale viennese che incuriosito parte per Roma.

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Maddalena… Zero in condotta è una gradevole commedia degli equivoci a sfondo sentimentale, caratterizzata da personaggi femminili complessi e sfaccettati. Inoltre, De Sica ha introdotto in questo film uno dei temi a lui più cari: lo scherno nei confronti della realtà borghese e aristocratica. Altrettanto profonda è la descrizione del mondo della scuola: gli insegnanti si rivelano miopi e inadatti, dovrebbero essere responsabili dell’educazione delle giovani generazioni ma di fatto non sono all’altezza del proprio ruolo.

Vittorio De Sica — il cui nipote Andrea De Sica è anche lui un promettente regista, conosciuto per il lungometraggio I figli della notte — resta uno dei cineasti più affascinanti della storia del cinema. Dopo la sua morte, Ettore Scola gli ha dedicato il capolavoro C’eravamo tanto amati e una strada di Napoli nel quartiere Stella porta il suo nome. Non credo possa esistere un modo più adatto di celebrare il regista che, per quarant’anni, ha rappresentato il cinema italiano agli occhi del mondo.

La sexy comedy rivoluzionaria di Spike Lee

In concorso a Cannes con il suo ultimo lavoro Blakklansman, Spike Lee è considerato uno dei più celebri registi afroamericani: nei suoi film ha trattato importanti temi politici e sociali come il razzismo, le relazioni interrazziali, la discriminazione e l’integrazione.

Nonostante sia nato in Georgia da un padre jazzista e da una madre insegnante, Shelton Jackson Lee è stato il cantore di New York. Nel 2015 ha ricevuto l’Oscar alla carriera e di recente, insieme alla moglie (ovvero la produttrice Tonya Lewis), ha realizzato per Netflix la serie-tv She’s Gotta Have It tratta dal suo omonimo film d’esordio del 1986, conosciuto in Italia con il titolo Lola Darling. Spike Lee produce, dirige, monta e persino recita in She’s Gotta Have It.

Il film racconta di una ragazza afroamericana, un’artista indipendente che vive in un minuscolo appartamento di Brooklyn, e delle relazioni che ha con i suoi tre amanti. La prima scena del film è tutta per Nola Darling (Tracy Camilla Johns – Lola nella versione italiana), che seduta sul suo letto si rivolge alla telecamera: «Vorrei farvi sapere che l’unica ragione per cui sto facendo questo è perché la gente pensa di conoscermi».

Nola rivendica con decisione la propria libertà, rifiuta le etichette e vive con disinvoltura la sua sessualità. La scelta di una protagonista afroamericana era quasi una novità assoluta per l’epoca, probabilmente l’unico precedente era Whoopi Goldberg nel film Il colore viola diretto da Steven Spielberg.

Il film fu girato in dodici giorni nel corso di una lunga e calda estate, con un budget limitato al quale contribuirono diversi amici, compresa la nonna di Spike Lee con ben quattromila dollari. Per ridurre ancora di più i costi, il regista ha offerto alcuni ruoli a conoscenti e parenti: la sorella ha interpretato la migliore amica di Nola e il padre ha recitato la parte della figura paterna di Nola, oltre ad aver composto la colonna sonora del film.

She’s Gotta Have It non ottenne un gran successo di critica ma racimolò qualche premio in USA e in Europa e un incasso di sette milioni di dollari. Inoltre, il personaggio interpretato da Spike Lee, Mars Blackmon, divenne una vera e propria icona afroamericana: il regista lo interpretò anche nelle pubblicità che diresse per le Air Jordan, le Nike di Michael Jordan, da cui è tratta l’iconica frase it’s gotta be da shoes (deve essere merito delle scarpe).

Provocatorio e onirico, Spike Lee si contraddistingue soprattutto nell’uso cromatico: She’s Gotta Have It è girato in bianco e nero, tranne un’unica scena a colori. La sua firma però resta il double dolly, presente in quasi ogni suo film: il dolly è la cinepresa messa su dei binari, l’uso alla Spike Lee consiste nel mettere sui binari sia la cinepresa che l’attore, per farlo spostare in un modo fluido e innaturale.

Tutto in She’s Gotta Have It dimostra l’originalità e la sensibilità del giovane regista: si dice infatti che Spike Lee avesse scritto la sceneggiatura del suo film d’esordio dopo aver consultato moltissime donne, soprattutto riguardo a questioni relative alla sessualità. Si pensa che sia stato questo a decretare il suo successo tra gli afroamericani, soprattutto tra le spettatrici.

Raramente nel cinema si sono mostrate donne così al di fuori dagli stereotipi e, ancora più raramente, un uomo ha deciso di raccontarle e soprattutto di ascoltarle. Spike Lee l’ha sempre fatto con coraggio e senza sovrastrutture, portando sul grande schermo quella parte di America che non trovava spazio al cinema.

Su questo film, Spike Lee ha dichiarato: «per prima cosa mi venne in mente il titolo: She’s Gotta Have It. La gente si sarebbe chiesta: che cosa deve avere lei? E per scoprirlo sarebbe andata al cinema». Per scoprire cosa deve avere Nola, ora basta recuperare il film d’esordio di Spike Lee o fare un giro su Netflix, perché non contano le piattaforme, contano le storie e quella di Nola è una cosa che you gotta have it, trust me.

Jean-Luc Godard: À bout de souffle e la Nouvelle Vague

Jean-Paul Belmondo guida con la sigaretta in bocca, guarda verso la macchina da presa e si rivolge agli spettatori. Non era mai successo prima: in un istante Jean-Luc Godard rompe le regole del cinema.

Nel 1959 dirige il suo primo lungometraggio: À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg e Jean-Pierre Melville, il film diviene immediatamente simbolo della Nouvelle Vague francese. Tratto da un soggetto degli amici François Truffaut e Claude Chabrol, viene girato in sole quattro settimane e con un budget limitato. Godard utilizza la cinepresa a mano e vari strumenti di fortuna, come una sedia a rotelle per realizzare le carrellate. À bout de souffle richiama due milioni di spettatori e conquista l’Orso d’Argento al Festival di Berlino, ottenendo una distribuzione internazionale.

Sono tante le novità portate per la prima volta sullo schermo: l’introduzione dei jump-cut e quindi una nuova forma di montaggio, la sceneggiatura appena abbozzata (ma non inesistente, come leggenda vorrebbe), gli attori che si rivolgono direttamente al pubblico, gli sguardi in macchina e la recitazione improvvisata. Godard grida fortissimo al mondo la finzione del cinema, radicale e provocatorio, è uno dei cineasti più significativi del cinema francese e internazionale. L’impatto che ha avuto sul linguaggio cinematografico gli è valso l’Oscar alla carriera nel 2011.

Tutta la narrazione di À bout de souffle è costruita attorno alla figura di Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), un giovane criminale in fuga dalla polizia che, giunto a Parigi, ha una relazione con un’aspirante giornalista di nome Patricia Franchini, (Jean Seberg) e tenta di convincerla a scappare insieme a lui in Italia. In una scena, Belmondo imita il divo americano Humphrey Bogart, guardandone il manifesto per strada. Michel però è decisamente meno romantico, un anti-eroe senza ideali, segue i suoi impulsi criminali ed è scorretto come lo sono spesso i personaggi di Godard.

Nel finale, drammatico e ironico insieme, l’allusione all’incomunicabilità tra i due amanti è esplicita, ed è un male dei tempi più che una difficoltà linguistica: ci guardiamo fissi negli occhi, e non serve a niente commenta sconsolata Patricia, avvertendo il vuoto assoluto che la lega a Michel. Sono questo insieme di citazioni letterarie e i riferimenti pittorici e cinematografici ai film noir degli anni ’50 a fare di Godard un’icona pop.

Idolo di Quentin Tarantino e Sofia Coppola, ispirazione di Martin Scorsese, citatissimo anche dalla moda e dalla pubblicità – Godard del suo cinema dice: quello che conta non è il messaggio, è lo sguardo e il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. E i desideri di Godard sono rivoluzionari, androgini, lenti, riflessi negli specchi, concentrati sull’irrilevante – quello che si fa protagonista dei venti minuti di dialogo sul niente, in un albergo qualunque, tra due persone che si guardano negli occhi senza riuscire a vedersi.

Nel romanzo La metafisica dei tubi Amélie Nothomb scrive una cosa che avrebbe potuto dichiarare Godard stesso in un’intervista: Lo sguardo è una scelta. Chi guarda decide di soffermarsi su una determinata cosa e di escludere dunque all’attenzione il resto del proprio campo visivo. In questo senso lo sguardo, che è l’essenza della vita, è prima di tutto un rifiuto. Il cinema di Godard è stato uno sguardo nuovo sul mondo, un rifiuto di tutto quello che l’ha preceduto sul grande schermo.

In À bout de souffle gridava la sua rivoluzione da ogni imperfetta inquadratura, ma era come se sussurrasse. Da un certo punto in poi, persino l’iconico cineasta non è stato all’altezza di sé stesso, ma non è un’iperbole definire quello di Godard uno degli esordi più stupefacenti di sempre. Se anche À bout de souffle fosse stato il suo primo e ultimo film, avrebbe comunque fatto la storia del cinema.

Sorrentino e L’uomo in più: il calcio, la musica e nessun pareggio

Che posso dire, che è meglio aver amato e perso, piuttosto che mettere linoleum nei vostri salotti?: ed è con questa citazione di una poesia di Amiri Baraka (In Memory of Radio) che si apre il primo film di Paolo Sorrentino, scritto e diretto nel 2001.

Napoli, anni ’80. Antonio Pisapia (Andrea Renzi) è un calciatore all’apice della propria carriera, uno che non si presta ai trucchi del calcio scommesse, un timido e i timidi decidono di fare i difensori, si nascondono dietro agli attaccanti, tentano di passare inosservati. Tony Pisapia (Toni Servillo) è un cantante di successo, un uomo egocentrico e dipendente dalla cocaina. Il calcio e la musica sono fabbriche di sogni e – in un’epoca di eccessi come lo sono stati gli anni ’80 – i due omonimi hanno tutto da perdere: Tony viene sorpreso a letto con una minorenne, mentre Antonio si rompe i legamenti durante un allenamento.

Una chiave di lettura la dà anche la frase che l’ex Presidente rivolge ad Antonio: Penso che il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste. Forse il senso del film è tutto lì, non vale la pena giocare se non ti diverti, perché ’a vita è ‘na strunzata, dice Tony. Ed è la poesia di Sorrentino, grottesca e ironica insieme, sin dal primo film – in quel monologo di Servillo sulla libertà, la vita, la morte, la cocaina e il dolore, c’è già tutto. La narrazione procede parallela raccontando la disfatta dei due protagonisti, omonimi ma diversi, fino a quello sguardo lunghissimo che lega per sempre le loro vite e li conduce ognuno al proprio epilogo.

L’uomo in più del titolo viene citato per tutto il film, ma viene esplicitato solo nel finale: inteso non solo come schema di gioco rivoluzionario (quattro punte invece di tre), ma soprattutto come necessità dell’altro e di quello che rappresenta. Alla fine della storia, quando le luci si spengono, i due infelici si riconoscono come spiriti affini: nell’istante in cui si guardano, scelgono il proprio finale e rifiutano la dittatura dell’apparenza, reagiscono all’emarginazione.

Non è un caso che dell’Italia, prima di indagare la Chiesa, la scelta di Sorrentino sia ricaduta sul mondo della musica leggera e su quello del pallone, entrambi orgoglio del nostro Paese. Il film d’esordio del regista premio Oscar è un insieme di scelte musicali azzardate, luce fredda e regia esplicita, con una sceneggiatura equilibrata e tutti quei contrasti che caratterizzeranno poi tutti i suoi film.

Il talento di Sorrentino si fa notare subito, presentato alla Mostra di Venezia del 2001, vince il Nastro d’Argento per il miglior film esordiente e ottiene tre candidature al David di Donatello. Il regista napoletano è anche autore del soggetto e della sceneggiatura, per creare i due Pisapia si è ispirato a due personaggi reali: il cantautore Franco Califano e il calciatore Agostino Di Bartolomei, morto suicida. Il titolo stesso è ispirato allo schema tattico applicato da Ezio Glerean, allenatore del Cittadella negli anni ‘90.

Il personaggio di Tony tornerà poi nel primo romanzo di Sorrentino Hanno tutti ragione (Premio Strega 2010), però con il nome di Tony Pagoda, erede di Tony Pisapia. Il romanzo ci regala un altro frammento di Tony, l’ultimo pezzo del puzzle: Niente, io sono uno di quelli che, per ingordi di etichette deficienti, viene definito un cantante da night. Però io non sono un’etichetta. Io sono un uomo. Ma che dire, col senno di poi, non era meglio essere un’etichetta?

Quest’esordio è anche l’inizio del sodalizio artistico tra Toni Servillo e Paolo Sorrentino, un’amicizia determinante per la carriera di entrambi. E pensare che Servillo ha conosciuto Sorrentino lavorando a teatro, ma all’inizio non aveva un grande interesse per questa collaborazione. Un classico momento alla Sliding Doors, chissà come sarebbe andata altrimenti.