MalaFede, la Madonna che ama la comunità LGBT

MalaFede
Ciretta in "MalaFede", documentario sul pellegrinaggio annuale della comunità LGBT campana al Santuario della Madonna di Montevergine.

Il mito del doppio, la sacralità popolare che ricorda un mondo nudo, senza categorie. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, la comunità LGBT campana compie un pellegrinaggio all’abbazia di Montevergine, sul Monte Partenio, per omaggiare la Madonna nera la cui icona è conservata in una cappella del santuario. Proprio in quella cappella, dove si svolgono le danze e i rituali guidati dai canti di Marcello Colasurdo, artista e e mediatore tra la comunità e il divino, si riuniscono i “femminielli”, né maschi né femmine, i più autentici e ancestrali custodi di un culto popolare che celebra la sacralità della natura umana, della rinascita rituale e della Grande Madre. MalaFede è un documentario piccolo ma sconfinato, aperto come un respiro fatto a pieni polmoni, vibrante di colori e energia. Una regia collettiva per un rito collettivo, un esordio fresco e allo stesso tempo meditato, che ha il sapore del raccordo ideale. Il successo di MalaFede mostra a pieno i frutti del lungo lavoro di Chiara Borsini giornalista e sceneggiatrice, Marialuisa Greco autrice e producer freelance e Paolo Corazzo cinematographer e direttore della fotografia. Un’unione rara che muove come un’unica mano e un unico sguardo un progetto che ha fatto della collettività il suo punto di forza.

È stata la vostra prima volta alla regia, raccontatemi come avete vissuto questa esperienza.

Malù: Mi sono sempre occupata della parte autoriale dei progetti, poi il lavoro mi ha portata a sperimentare altri ruoli, così sono diventata una producer. La regia era un percorso che prima di MalaFede non avevo mai preso in considerazione. Lavorare insieme, in una regia collettiva, ci ha permesso di essere sicuri delle nostre scelte e superare qualche dubbio dovuto all’inesperienza. Dalla nostra parte poi, avevamo molti riferimenti cinematografici in comune, un gusto estetico condiviso che ci ha portati verso un risultato apprezzato con soddisfazione da tutti e tre.

Paolo: Ho la fortuna di collaborare ogni giorno insieme a vari registi su progetti e clienti sempre diversi. In pubblicità il risultato e la crescita professionale seguono un percorso fatto da modalità, tempistiche e obbiettivi estetici differenti. La regia di MalaFede per me è stata prima di tutto un dialogo condiviso totalmente diverso dalle altre mie esperienze.

Chiara: Avere la possibilità di condividere questa esperienza alla regia con Marialuisa e Paolo ha sicuramente rappresentato un valore aggiunto al nostro lavoro, sia perché siamo tutti e tre portatori di competenze e sensibilità diverse, sia perché il rapporto umano, oltre che professionale, che ci ha sempre unito ha favorito una crescita durante la quale abbiamo imparato molto gli uni dagli altri. Le produzioni indipendenti conoscono sempre momenti che costituiscono delle sfide e avere la fortuna di affrontarli con persone con cui abbiamo scelto di collaborare per affinità elettive è una grande fortuna.

MalaFede
La Madonna di Montevergine.

Com’è nata l’idea di MalaFede? Perché questo titolo?

Chiara: L’idea è nata sei anni fa dalla lettura di Mamma Schiavona. La madonna di Montevergine e la Candelora. Religiosità e devozione popolare di persone omosessuali e transessuali di Monica Ceccarelli. Il saggio analizza in prospettiva storico-antropologica la devozione, la festa e il conflitto con l’autorità religiosa della comunità campana dei femminielli. Anche La pelle di Curzio Malaparte è stato un testo illuminante per comprendere la figura del femminiello nella cultura partenopea e, potendo contare sulla conoscenza del territorio di Marialuisa che è di origini campane, abbiamo deciso di fare esperienza diretta del pellegrinaggio. Dal 2017 abbiamo partecipato alle celebrazioni della Candelora, che si sono poi purtroppo interrotte per un paio d’anni durante la pandemia. Abbiamo compiuto il pellegrinaggio insieme ai fedeli, danzato con loro, abbiamo condotto molte interviste e raccolto decine di ore di girato. Ci sono voluti anni per dare a MalaFede la forma e il respiro che ha oggi. Inizialmente volevamo farne un lungometraggio che superasse i confini di quel territorio, poi, in fase di pre-montaggio, grazie al supporto della nostra video-editor Giulia Baciocchi, abbiamo spostato il focus del racconto interamente sulla dimensione di Montevergine, tenendo da parte altri elementi della nostra ricerca per progetti futuri.

Malù: Conoscevo la figura del femminiello e alcuni suoi rituali, come la tombola e la “figliata”, il parto del femminiello, al quale mio padre aveva avuto la fortuna di assistere. Il titolo poi fu un’illuminazione: una sera ero con alcune amiche, tra di noi ci chiamavamo “Malefemmine” e, mentre parlavo della difficoltà di trovare un nome al documentario, venne fuori, come fosse un gioco, il nome “MalaFede”. Quel titolo l’ho sempre immaginato con un punto interrogativo: è davvero una mala fede, una cattiva fede, quella di una comunità, emarginata da secoli, che si è costruita una identità religiosa diversa da quella ufficiale ma con gli stessi princìpi?

La scrittrice e docente di Letterature comparate Tiziana de Rogatis ha scritto che Napoli è la città del limen, della soglia, della sospensione tra temporalità, codici e generi opposti. Sostiene che la sua eccentricità si fonda proprio sull’essere una «città ermafrodita e ibrida, femmina e maschio» arcaica e contemporanea.

Chiara: Non potrei essere più d’accordo con questa definizione della cultura partenopea. Nel documentario, Marcello Colasurdo e Ciro Cascina sono stati capaci di rendere questo concetto in maniera esaustiva con la metafora della sirena Partenope – metà donna e metà pesce. Ermafrodita è Napoli ed ermafroditi sono i sacerdoti del tempio di Cibele – secondo la narrazione leggendaria di quel luogo –  sulle cui ceneri sorge oggi il santuario di Montevergine. È straordinario che questa dualità sia un elemento fondativo dell’identità di quel territorio, di cui il femminiello, né uomo né donna, rappresenta una figura iconica.

Malù: Credo che l’aspetto più sorprendente della cultura partenopea sia la capacità di abbracciare tutte queste apparenti contraddizioni: Napoli è una città che accoglie tutte le diversità. Abbiamo incontrato persone che incarnano perfettamente questa caratteristica, persone che si sentono accolte e ascoltate da Mamma Schiavona e che a loro volta accolgono e ascoltano chiunque sia interessato alla loro storia. Un’apertura verso l’altro che è talmente insita nella tradizione che può resistere a qualsiasi tipo di cambiamento.

Più che un set era una festa, era vita e gente.

Chiara: Sì è vero! Siamo stati accolti da subito come parte della “paranza” (famiglia) e abbiamo vissuto appieno l’atmosfera di festa che caratterizza quel 2 febbraio tanto atteso dalle comunità locali. Uno dei momenti per me più significativi delle riprese è stato quando Marcello Colasurdo ci ha aperto la porta di casa sua, permettendoci di entrare in quell’incredibile mondo caotico, ingombro di reliquie e pieno di vita che era il suo privato. Ci ha fatto il caffè, ci ha raccontato momenti della sua biografia che in parte sono diventati materiale prezioso per il nostro documentario, ha cantato per noi. Di tanto in tanto venivamo interrotti dalla voce di un vicino, qualcuno che passava a trovarlo, a portargli qualcosa in dono, Marcello era lo sciamano della sua comunità. E MalaFede, a qualche mese dalla sua scomparsa, assume per noi ancora più valore, è la sua ultima testimonianza, il ricordo più autentico che abbiamo di lui.

MalaFede
Marcello Colasurdo.

I protagonisti, Marcello Colasurdo e Ciretta, sono molto carismatici. Come avete lavorato con loro e come avete gestito l’essere parte della festa, catturarne i momenti senza turbarne lo svolgimento?

Chiara: Marcello e Ciretta ci sono stati presentati da alcune delle persone con cui avevamo compiuto il pellegrinaggio il primo anno e fin da subito ci è sembrato che incarnassero pienamente lo spirito di MalaFede.   Sono persone da sempre abituate alla visibilità mediatica ma la nostra ricerca voleva andare più in profondità, oltre l’aspetto meramente folkloristico dell’evento religioso “fuori dalle righe” e questo approccio ci ha ripagato. La narrazione sul rapporto tra identità e religione, così ben raccontato da Ciretta, è diventata il filo conduttore della nostra ricerca negli anni. Ci interessava capire come venivano vissute dai fedeli le contraddizioni tra religione e spiritualità, tra la storica apertura all’accoglienza di tutte le diversità connaturata e celebrata in quel territorio e le resistenze di alcuni esponenti dell’istituzione religiosa, avvenute in passato. Come convivono in quel luogo il silenzio solenne del santuario e il ritmo cadenzato delle tammorre, il rito cattolico e quello pagano.

La vostra è stata una regia agile, libera, perfetta per adattarsi a un contesto dinamico e mutevole. Ma è stata anche parte di un lavoro virtuoso, fatto di pazienza e lunghe attese. In cosa sentite di aver investito maggiormente?

Chiara: L’estetica della camera a spalla e l’agilità nel comporre il frame ideale ci hanno permesso di avvicinarci ai nostri soggetti senza compromettere la loro spontaneità. In situazioni come le interviste, abbiamo scelto di evitare l’impiego di fonti di luce, a meno che non fosse strettamente necessario. Questo approccio ha richiesto tempo e pazienza ed è proprio il tempo l’elemento del nostro lavoro in cui abbiamo deciso di investire di più. Il tempo concede una maggiore coscienza nella composizione dell’inquadratura, sempre molto complicata in situazioni caotiche e affollate come il pellegrinaggio e le celebrazioni per la Candelora.

Trovo che sia stato fatto un accurato lavoro narrativo anche al montaggio, tanto è vero che è impossibile non notarne l’armonia compositiva.

Paolo: Il lavoro di montaggio svolto di Giulia Baciocchi è stato l’ultima spinta per la chiusura del progetto. L’intervento e la prospettiva di un occhio competente e esterno a tutto il processo di produzione filmica è stato fondamentale per dare a MalaFede il taglio narrativo che ha oggi. Abbiamo lavorato con lei a distanza, poiché tutti viviamo in città diverse d’Italia e la pandemia rendeva complicato qualsiasi spostamento, quindi ogni incontro, confronto o condivisione doveva avvenire online. Nonostante le difficoltà, Giulia è riuscita a gestire una vasta quantità di materiale, cogliendo pienamente l’idea che avevamo in mente, aggiungendo il suo sguardo, poetico e musicale.

Che progetti avete per il futuro? A cosa state lavorando?

Chiara: MalaFede è la sintesi di un lavoro durato anni, che ci ha condotto in altri luoghi, in altri contesti religiosi e culturali, lungo il fil rouge che per noi è sempre stato il tema del rapporto tra identità, spiritualità e religione. In questo momento abbiamo in cantiere un’idea che è nata proprio durante le riprese di Malafede e che abbraccia le stesse tematiche ma in un contesto socio-culturale diverso, nel Nord Italia. È la storia di Don Franco, sollevato dal suo ministero poiché officiava (e tuttora officia) matrimoni tra coppie omosessuali ed è investito dalla sua comunità di un ruolo di guida spirituale nonostante non sia più formalmente un sacerdote. Parallelamente, tutti e tre portiamo avanti altri progetti: Paolo sta realizzando un documentario su Paolo Olbi, artigiano della carta stampata a Venezia e io mi sto dedicando alla scrittura, alla drammaturgia e alla realizzazione di progetti in teatro. Mentre Marialuisa sta lavorando alla produzione di un documentario d’inchiesta e alla scrittura del suo prossimo progetto documentaristico.