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Stefania Covella

I pugni in tasca: il manifesto di Marco Bellocchio

È il 1965 quando I pugni in tasca, il film d’esordio di Marco Bellocchio, diventa un caso nazionale. A soli ventisei anni si ritrova al centro del dibattito dei grandi intellettuali dell’epoca come Calvino, Moravia e Pasolini. La critica ha eletto I pugni in tasca come il film-manifesto in grado di anticipare i fermenti del ‘68 e l’ha selezionato tra i cento film italiani da salvare.

Quella de I pugni in tasca è una vicenda di solitudine e follia: in una villa isolata sull’Appennino emiliano, quattro fratelli vivono con la madre cieca. Augusto è il maggiore, l’unico con un lavoro, Giulia è morbosamente innamorata di lui, Leone è affetto da ritardo mentale e Alessandro ha un carattere nevrotico e cupo. Sarà quest’ultimo a far esplodere i già precari equilibri familiari. I pugni in tasca è un film ossessivo e claustrofobico, ribalta il concetto tradizionale di amore familiare e affronta il tema dell’incesto tra fratello e sorella, facendo a pezzi il modello della famiglia borghese italiana.

i pugni in tascaL’opera prima di Bellocchio è acerba ma memorabile, anche grazie alle musiche di Ennio Morricone che ha composto una colonna sonora ispirata, dopo aver visto una copia muta del film. Silvano Agosti si occupò del montaggio in circa quaranta giorni, per poi passare un mese solo sull’ultima scena: infatti il protagonista “muore di montaggio”. Aggiustando il tiro in post-produzione, Bellocchio rimedia alla prudenza usata in sceneggiatura e uccide il protagonista, cambiando così il finale.

Bellocchio ha iniziato la sua carriera come attore, non a caso Ettore Scola l’ha definito «il più bel regista del cinema italiano», poi ha fatto l’aiuto regista e il produttore. È andato a Londra con la scusa di frequentare dei corsi di cinema, grazie a una piccola borsa di studio, e ha scritto il soggetto del film I pugni in tasca. Per mesi con l’amico Enzo Doria aveva cercato persone disposte a finanziare il progetto, ma senza successo: i produttori ritenevano la storia scadente e non vendibile. Il film venne poi realizzato con il contributo del fratello di Marco Bellocchio, Tonino, che finanziò l’opera con cinquanta milioni. Il film fu ultimato anche grazie alla collaborazione dei compagni di studi del giovane regista che, al Centro Sperimentale di Cinematografia, aveva studiato recitazione.

La prima idea di casting fu piuttosto singolare: Bellocchio prese in considerazione Raffaella Carrà e Gianni Morandi, tentando la via del personaggio popolare. Morandi lesse la sceneggiatura e accettò, ma la sua casa discografica si oppose affermando che il film gli avrebbe rovinato la carriera. Alla fine vennero scelti Paola Pitagora per il ruolo della cinica e fredda Giulia e Lou Castel, per quello di Alessandro. L’attore, scelto per la sua risata, riuscì a conferire al suo personaggio una sfumatura dolce e crudele. Sono noti vari episodi che dimostrano però quanto fosse difficile gestire Castel sul set, aveva spesso reazioni violente o assurde che costringevano la troupe e il regista a modificare intere scene e a moderare i contrasti tra lui e gli altri attori.

i pugni in tascaI pugni in tasca torna al cinema in versione restaurata grazie alla Cineteca di Bologna e distribuito su scala mondiale. Nella versione restaurata è stato aggiunto un frammento inedito: la scena del bacio tra fratello e sorella. Bellocchio all’epoca aveva deciso di tagliarla per non incorrere nella censura e nel sequestro della pellicola.

Quello di Marco Bellocchio è sicuramente uno degli esordi più importanti della storia del cinema italiano, la versione restaurata è un’ottima scusa per rivederlo sul grande schermo.

Io sono un autarchico: inconfondibile Nanni

Nanni Moretti nasce nel 1953 e vive da sempre nel quartiere romano Monteverde Vecchio, comincia a fare cinema vendendo la sua collezione di francobolli in cambio di una cinepresa Super 8. Io sono un autarchico esce nel 1976 ed è il suo primo lungometraggio, Moretti lo gira tutto a Roma: impiega tre mesi e tre milioni e settecentomila lire, reclutando parenti e amici. In questa commedia appare per la prima volta il personaggio di Michele Apicella (il cognome è quello della madre di Moretti), il suo alter ego. Il ventitreenne regista romano realizza una prima prova un po’ grezza, con camera fissa e sequenze scarne, ma comunque convincente.

L’esordio di Nanni Moretti, sia come regista che come attore, avviene in un luogo di culto per tutti i cinefili romani degli anni ’70: il Filmstudio, a Trastevere. Moretti si presentava tutti i giorni al cineclub con le bobine sotto il braccio e, ogni sera, le smontava e se le riportava a casa. Presente a tutte le proiezioni, il giovane regista accoglieva gli spettatori con sorrisi e calorose strette di mano, fermandosi sempre ad ascoltare i commenti a caldo del pubblico. Mossa promozionale o meno, diede il via a un inarrestabile passaparola nell’ambiente culturale, portando alla ristampa della pellicola in 16 mm per la distribuzione nazionale. Il film arrivò così a Parigi e a Berlino, suscitando l’interesse di vari giornalisti e critici, compreso Alberto Moravia.

Io sono un autarchicoMoretti, con il suo film autoprodotto, fotografa la sua generazione e realizza così una pellicola indipendente destinata a diventare un cult. La storia è tutta nel rapporto tra Michele, la moglie Silvia e il figlio Andrea. I due coniugi sono in crisi: Silvia ha ventidue anni e si sente oppressa nel ruolo di moglie e madre, non si ricorda neanche perché si è sposata e per questo va via di casa. Mentre Michele, antipatico e asociale, gioca a fare l’uomo indipendente e fuori dagli schemi – ma con l’assegno mensile del padre – partecipando allo spettacolo di teatro sperimentale dell’amico Fabio.

Io sono un autarchico mette in scena personaggi pieni di aspettative e ideali ma destinati a fallire, incastrati in una società che si sta lentamente disgregando mentre cambia troppo in fretta. In questo film si intravedono già tanti temi che si svilupperanno poi nel cinema morettiano: lo smarrimento, il disincanto politico e la ricerca dell’autenticità del linguaggio, l’aspra critica alla superficialità dei sentimenti, ma anche la controcultura, il teatro e alcuni feticci come i dolci, la pallanuoto, le scarpe, la musica e i dialoghi al telefono.

Quando si parla di Io sono un autarchico, non si può evitare di citare un paio di polemiche. All’interno del film sono frequenti i riferimenti, non sempre positivi, al cinema italiano: in una famosa scena, Michele schernisce con la bava alla bocca Pasqualino Settebellezze e la cattedra di cinema assegnata in America alla regista Lina Wertmüller, cosa che creerà non poca acredine tra i due.

Io sono un autarchico
Andreas Solaro/AFP/Getty Images

L’altra disputa riguarda il caso del “Rizzoli”: nel 1977 Io sono un autarchico fu candidato alla sesta edizione del Premio Angelo Rizzoli, riservato ai giovani autori italiani. La giuria del concorso era composta da varie personalità del cinema, tra le quali Alberto Sordi. I giurati avevano la facoltà di rinunciare al voto anonimo e motivare pubblicamente la propria preferenza, Sordi fu tra quelli che si rifiutarono di parlare in pubblico. Alla quarta votazione il film di Nanni Moretti era in vantaggio ma, in un momento di stallo, un giurato palese e uno anonimo modificarono il proprio voto: vinse così Un cuore semplice di Giorgio Ferrara. Si dice che il giovane Moretti gridò una parolaccia e andò via dalla premiazione, in lacrime. Alberto Sordi, nonostante le smentite, venne identificato come il giurato anonimo e la polemica raggiunse il suo culmine nella celebre battuta di Ecce Bombo:

Rossi e neri sono tutti uguali? Ma che, siamo in un film di Alberto Sordi? Sì, bravo, bravo… Te lo meriti Alberto Sordi!

Nanni Moretti comunque si rifece vincendo il Premio Angelo Rizzoli l’anno successivo proprio con Ecce Bombo, il suo secondo lungometraggio, che avrebbe dovuto chiamarsi Sono stanco delle uova al tegamino… ma questa è un’altra storia.

Duel: il folgorante esordio di Spielberg (errori compresi)

Il 21 marzo si è svolta la 62esima edizione dei David di Donatello, Steven Spielberg è stato l’ospite più atteso: durante la serata, Monica Bellucci gli ha consegnato la statuetta alla carriera.

Il suo discorso di ringraziamento è diventato subito virale, moltissime le belle parole spese nei riguardi del cinema italiano: dall’ammirazione per i maestri come Pasolini, Fellini e Antonioni ai colleghi di origine italiana come Tarantino, Scorsese e Minelli che, in un’epoca fatta di accoglienza e meno barriere, hanno permesso al cinema italiano e a quello americano di fondersi.

Duel, il regista Spielberg ai David di Donatello

L’aneddoto più magico resta l’incontro con Fellini: nel 1971, a inizio carriera, il grande regista l’aveva cercato per complimentarsi per Duel, il suo esordio, proiettato la sera prima alla presentazione romana del film. Fellini e il regista americano, ancora sconosciuto, passeggiarono per Roma e Spielberg vide la città attraverso gli occhi del suo mito. Soprattutto, non dimenticò mai il suo consiglio: è importante intrattenere il pubblico, ma è ancora più importante intrattenere sé stessi. Per conquistare il pubblico bisogna essere il pubblico, consiglio seguito alla lettera e mai dimenticato. Da 45 anni, una fotografia di quel giorno a Roma è appesa alla parete del suo ufficio.

Spielberg comincia a fare cinema da giovanissimo, con la cinepresa regalatagli dal padre. Il suo primo cortometraggio, Amblin (1969), attirò l’attenzione della Universal che gli offrì un contratto per la tv. Ventunenne in un settore dominato da autori e registi ultracinquantenni, Spielberg diresse alcuni episodi di vari telefilm. Alla fine degli anni ’60 la Universal cercava però di produrre lungometraggi per la televisione associandosi all’emittente ABC, con l’obiettivo di abbattere i costi ma soddisfare comunque il grande pubblico ancora innamorato del cinema.

In queste circostanze, gli viene commissionato il suo primo film per la televisione, da girare in dieci giorni con un budget di 450.000 dollari. La segretaria di Spielberg, Nona Tyson, esorta il regista appena ventiquattrenne ad adattare un racconto del grande scrittore Richard Matheson, pubblicato su Playboy e basato su un episodio autobiografico. Il film ha una lavorazione rapidissima: girato in appena tredici giorni, con la colonna sonora composta in una settimana e ben cinque editor al montaggio, per rispettare i tempi strettissimi.

Duel è la storia surreale e adrenalinica di un uomo che si trova coinvolto in un duello nel deserto. Come in un tipico road-movie, ci sono le classiche immagini del paesaggio desertico degli Stati Uniti: le strade sbiadite, i bar, i dirupi, le stazioni di benzina e le cabine telefoniche dall’aria malconcia. Ad attraversare il deserto è David Mann (Dennis Weaver), un uomo comune perfettamente calato nello stile di vita dei sobborghi californiani: vive con la moglie casalinga e i due figli, mangia nei fast-food, non ha uno scopo e il suo ruolo di padre e marito è in crisi. David, con un’auto rossa qualunque, si allontana sempre di più dal mondo civilizzato e va incontro a un pericolo inaspettato.

Duel

L’antagonista è l’autocisterna: mossa da un’inspiegabile volontà di distruzione, tenta di mandare David fuori strada. Il film non mostra mai il conducente, ma solo il Peterbilt 281 del 1955. Spielberg lo scelse fra tanti perché frontalmente dava l’idea di un volto, e il motore rombava tanto da sembrare un ruggito. In questo scontro, David incarna l’uomo medio che si ritrova in una situazione incredibile e non è preparato ad affrontarla: un meccanismo narrativo che diventerà un vero e proprio leitmotiv nel cinema spielberghiano.

Duel non è un film perfetto, è quasi del tutto privo di dialoghi e presenta tanti piccoli errori, anche perché il giovane Spielberg non riguardava mai i giornalieri. Ad esempio, in una scena, è possibile intravederlo riflesso sul vetro della cabina telefonica mentre legge il copione.

Nonostante il ritmo frenetico, la giovane età del regista e qualche imprecisione, il film ebbe un enorme successo e una distribuzione internazionale. Spielberg, anni dopo, ammise: «Se non avessi avuto la possibilità di girare Duel, la mia carriera sarebbe stata molto diversa» e, forse, non avrebbe mai passeggiato per Roma con Fellini.

Con questo articolo Fabrique inizia una serie di approfondimenti sugli esordi di autori divenuti maestri del cinema italiano e mondiale. L’appuntamento è ogni venerdì su sito e social. Non perdetevi la prossima uscita!