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Il legionario, esce al cinema l’opera prima di Hleb Papou

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Fortemente attratto da un cinema di genere capace di riflettere sui problemi della società, l’appena trentenne Hleb Papou firma la promettente opera prima Il legionario, in uscita il 24 febbraio nei cinema. Il film racconta senza retorica l’Italia multiculturale di oggi e la questione dell’emergenza abitativa romana, con un obiettivo ambizioso: rinnovare lo sguardo del cinema italiano sull’attualità.

Classe 1991, bielorusso naturalizzato italiano, Hleb Papou si è trasferito con la madre da Minsk a Lecco nel 2003, spostandosi poi a Roma per inseguire il sogno del cinema che coltivava fin da piccolo. Dopo gli studi al DAMS è entrato al corso di regia del Centro Sperimentale, dove ha realizzato come saggio di diploma il cortometraggio Il legionario, presentato nel 2017 alla Settimana della Critica del Festival di Venezia e da cui ha tratto l’omonimo esordio nel lungometraggio.

Mostrata in anteprima all’ultima edizione del Festival di Locarno (Pardo per il miglior regista emergente nella sezione Cineasti del presente), la versione lunga de Il legionario vede protagonista Daniel, un agente di origini africane del reparto mobile della Polizia costretto a sgomberare il palazzo occupato in cui è cresciuto e dove vivono la madre e il fratello. Osservando occupanti e poliziotti senza giudicarli, l’opera prima ha il merito di proporre uno spaccato della società italiana che raramente trova spazio sul grande schermo. 

Da dove parte l’idea alla base prima del corto e poi del lungometraggio?

Tutto ha avuto origine da un’immagine che mi è venuta in mente diversi anni fa: quella di un poliziotto di colore, nato e cresciuto in Italia, che indossa la divisa da celerino. E in più, in generale, dalla volontà di smuovere un po’ le acque mostrando l’Italia di oggi in modo diverso dal solito, in maniera fresca e al passo con i tempi, senza seguire le mode del momento ed evitando il buonismo, il politicamente corretto. Non eravamo interessati all’ennesimo racconto della periferia romana disagiata e infatti lo stabile occupato al centro del film si trova in centro, nel quartiere Esquilino. È da qui che siamo partiti con Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi, i co-autori del soggetto e della sceneggiatura, per costruire le vicende che ruotano attorno a Daniel, uno dei sempre più numerosi italiani di nuova generazione, e alla sua famiglia.

Maurizio Bousso in "Il legionario" di Hleb Papou
Maurizio Bousso in “Il legionario” di Hleb Papou.

Cosa vi ha spinto ad ampliare la storia del corto in un lungometraggio e come vi siete preparati alla fase di scrittura?

Già per il cortometraggio avevamo fatto molte ricerche sul campo. Abbiamo conosciuto un poliziotto della Celere, che ci ha introdotto nel mondo dei reparti mobili della Polizia, e frequentato per diverso tempo lo stabile occupato di Via di Santa Croce in Gerusalemme dove è ambientato il film, incontrando le persone che ci abitavano ben prima che se ne iniziasse a parlare così tanto sui giornali per la questione della luce staccata. Raccogliendo le storie di poliziotti ed occupanti, approfondendo i loro punti di vista, ci siamo resi conto che le cose da dire erano molte, mentre il tempo a nostra disposizione per raccontarle poco. Farne un lungometraggio è stato dunque un passaggio naturale. In generale, tanto per il corto quanto per il lungo, il modus operandi è stato lo stesso: approfondire la realtà che volevamo raccontare per poi restituirla al meglio delle nostre possibilità attraverso il linguaggio cinematografico. Senza assumere posizioni ideologiche o proporre soluzioni che non conosciamo.

Inserendo poi il tutto nel contesto di un cinema di genere…

Fin da piccolissimo sono sempre stato appassionato di film di genere. Quando ancora vivevo in Bielorussia, negli anni Novanta, sono cresciuto guardando film d’azione come Die Hard, Arma letale, Rambo o Robocop, che mi ricordo con i compagni di asilo giocavamo ad imitare facendo finta di spararci a vicenda. Più avanti poi ho iniziato ad apprezzare il cinema di genere impegnato, in grado di raccontare in maniera diretta, cruda e dinamica la società. Da questo punto di vista ad esempio ammiro molto i film di Denis Villeneuve, in particolare Sicario, e Jacques Audiard, soprattutto Il profeta. Una delle mie pellicole preferite in assoluto, che reputo un capolavoro, è Tropa de Elite del brasiliano José Padilha, vincitrice dell’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2008. Il cinema che parte dal racconto dell’attualità usando il genere per far riflettere sulla realtà che ci circonda mi affascina particolarmente. Tanto che mi muoverò in questa direzione anche in futuro.

C’è nel panorama italiano un regista che senti vicino a questa tua idea di cinema?

Mi piace molto lo studio di genere dietro la regia di Stefano Sollima, che mi sembra sia l’unico oggi in Italia a fare un cinema di qualità di questo tipo. Non a caso, è stato chiamato per la prima volta ad Hollywood proprio per dirigere il seguito di Sicario di Villeneuve, Soldado. Anche se questa strada in Italia oggi non è particolarmente battuta, è interessante notare come in passato, a partire dagli anni sessanta e fino ai primi anni ottanta, sia stata esplorata dal filone del poliziottesco, che a suo modo raccontava problemi sociali, crimine e corruzione attraverso una chiave di genere sempre attenta al grande pubblico.

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Piccolo corpo, Agata in viaggio verso il miracolo

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Accolto con favore alla Semaine de la Critique dell’ultimo Festival di Cannes, esce domani al cinema Piccolo corpo di Laura Samani: un film inconsueto che, tra realismo e favola, recupera la tradizione del racconto popolare e dei fratelli Grimm.

Siamo agli inizi del Novecento quando in un’isoletta italiana del Nordest Agata partorisce una bimba morta. Secondo la religione cattolica, l’anima di questo piccolo corpo è condannata a vagare per sempre nel limbo. La giovane donna viene però a conoscenza dell’esistenza di un santuario, nelle innevate montagne del nord, in cui i bambini vengono miracolosamente riportati in vita per l’attimo necessario a battezzarli. Agata inizia così un lungo e incerto viaggio per dare un nome alla bambina e potersi riunire di nuovo a lei nella vita ultraterrena.

La 32enne regista e sceneggiatrice triestina Laura Samani, con alle spalle il solo cortometraggio di diploma del Centro Sperimentale La santa che dorme, firma un’opera prima sentita e già matura dal punto di vista stilistico, recitata in dialetto e quasi esclusivamente da attori non professionisti, che abbiamo voluto approfondire con l’autrice.

Da dove nasce l’idea alla base di Piccolo corpo?

L’ispirazione arriva dai pellegrinaggi avvenuti a partire dal 1500 in Friuli-Venezia Giulia, come in tutto l’arco Alpino, verso i cosiddetti santuari del respiro, luoghi in cui si diceva che grazie alla forza della preghiera i bambini nati morti potessero compiere un unico respiro e ricevere il sacramento del battesimo. La storia dei miracoli di Trava, che non conoscevo, mi è stata raccontata da un signore friulano qualche anno fa e ne sono rimasta subito molto affascinata. Dai documenti risulta che a intraprendere questi viaggi fossero gli uomini e così, attratta da ciò che solitamente viene omesso dalle narrazioni ufficiali, ho iniziato a pensare insieme ai due co-sceneggiatori Marco Borromei ed Elisa Dondi a cosa sarebbe successo se a dirigersi verso il santuario fosse stata una madre.

Il tuo esordio è una co-produzione tra Italia, Francia e Slovenia. Qual è stata la genesi produttiva del film?

Nel 2016 ero al Festival di Cannes per presentare in Cinéfondation La santa che dorme e a un padiglione del mercato mi è stata presentata Nadia Trevisan di Nefertiti Film. Pur essendo entrambe friulane, non ci eravamo mai incontrate. Si è trattato di un momento fortunato, in quanto io ero alla ricerca di una casa di produzione che comprendesse la necessità di ambientare il film in Friuli-Venezia Giulia e Nefertiti stava per la prima volta cercando una collaborazione con un nuovo autore, dopo aver prodotto principalmente i lavori di Alberto Fasulo. In seguito, abbiamo avuto la possibilità di aprirci progressivamente alla co-produzione coinvolgendo Danijel Hočevar, un produttore sloveno molto stimato a livello europeo con il quale Nadia aveva già collaborato in precedenza, e Thomas Lambert, produttore francese che abbiamo conosciuto nel contesto del prezioso Torino Film Lab, cui abbiamo partecipato per due anni consecutivi.

Piccolo corpoIl rapporto con la fede e la religione era al centro anche de La santa che dorme. Cosa ti affascina di questo tema?

Come quasi tutti in Italia ho avuto un’educazione cattolica e per molti aspetti che riguardano la narrazione sono attratta da quella zona grigia in cui la superstizione e la ritualità pagana si mescolano con il cattolicesimo. In realtà, però, Piccolo corpo e La santa che dorme sono interconnessi fin dall’inizio perché la persona che mi ha parlato dei miracoli di Trava lo ha fatto in quanto sapeva del mio cortometraggio precedente. Si tratta quindi di un collegamento tematico, o di arena del racconto, che non ho fatto io per prima. In qualche modo è la storia di Piccolo corpo ad avermi trovata e non viceversa.

Per immergere lo spettatore nel viaggio della protagonista, la regia si alimenta dell’uso esclusivo della macchina a mano e perlopiù di inquadrature lunghe.

 L’intento in effetti era proprio questo. Con il direttore della fotografia Mitja Licen abbiamo scelto la macchina a mano perché fin da subito la volontà era quella di viaggiare insieme ad Agata, sentendo l’irregolarità del terreno e la fatica del viaggio. Il cavalletto lo abbiamo usato solo in un paio di momenti, che non sono poi neanche rientrati nel montaggio finale. L’idea iniziale era anche di realizzare la maggior parte delle scene con dei piani sequenza, ma su questo poi l’arrivo della pandemia ci ha fortemente condizionato. Quando siamo tornati sul set dopo aver dovuto interrompere le riprese per diversi mesi, avevamo meno tempo a disposizione e abbiamo dovuto trovare soluzioni linguistiche più rapide e tutelanti. Basti pensare che per realizzare il piano sequenza della prima scena, quella del rito, ci abbiamo messo un’intera giornata. Per restituire l’immersività dell’esperienza del viaggio, per noi è stato poi fondamentale girare il film in continuità cronologica rispetto agli eventi narrati.

Hai già in mente il tuo prossimo progetto da regista?

In questo momento sono ancora in fase di elaborazione. Di sicuro, però, posso dire due cose: a cinque anni da La santa che dorme ho la volontà di tornare a lavorare con attori adolescenti e oggi – cosa che non era avvenuta quando ho scoperto l’esistenza dei santuari del respiro – sento di aver approfondito a sufficienza la questione della fede e del rapporto con la religione. Con ogni probabilità, quindi, il mio nuovo lavoro si incentrerà sul mondo adolescenziale e su temi differenti.

 

 

 

 

Fortuna. Innocenza e tradimento

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Il 24 giugno 2014 Fortuna Loffredo, una bambina di sei anni, cade dal tetto di un palazzo nel famigerato Parco Verde di Caivano dopo aver subìto nel tempo numerosi abusi. Tre anni più tardi un vicino di casa viene condannato all’ergastolo per quanto accaduto e, nel corso delle indagini, emergono diversi altri casi di violenza sessuale avvenuti nello stesso rione, in un degradato contesto di diffusa omertà. Nicolangelo Gelormini, quarantaduenne regista napoletano con alle spalle un’esperienza come assistente di Paolo Sorrentino (L’uomo in più) e una serie di collaborazioni con nomi del calibro di Luca Ronconi, David Lynch e Isabelle Huppert, per il suo primo film è partito da qui. Consapevole dell’impossibilità di rappresentare in maniera tradizionale tale disumanità sul grande schermo, ha scelto di seguire una via diversa da quella della mimesi: onirica, surreale ma allo stesso tempo conturbante.

Nel film trasfiguri l’orrore dei fatti di cronaca, che non viene mai esplicitamente mostrato. Qual è stato il tuo approccio alla storia della piccola Fortuna?

L’idea iniziale nasce dal produttore principale Davide Azzolini, che era stato profondamente scosso dalle vicende del Parco Verde e mi ha contattato per ragionare su quale forma cinematografica potesse assumere un racconto di questo tipo. Sulle prime ho opposto molta resistenza, perché sentivo che nel mettere in scena questa storia la pornografia era dietro l’angolo. A un certo punto, poi, indagando l’emozione che quei fatti avevano fatto nascere in me, ho pensato che questa personale resistenza, unita a un senso di tradimento, potesse condurre allo sviluppo di un racconto traslato il più possibile su un terreno di fantasia. Il dato cronachistico non mi ha mai affascinato e soprattutto non rientra nel mio mestiere di narratore. È qualcosa che attiene al giornalismo e a forme cinematografiche di tipo naturalistico-documentaristico che non mi appartengono.

Ci spieghi meglio questo senso di tradimento di cui parli?

Una volta deciso di realizzarlo, Fortuna (qui il trailer) per me è sempre stato un film sul desiderio dei bambini di essere amati tradito dagli adulti. Mi sono così concentrato su una vera e propria esegesi di questo tradimento. Partire da un tema di fondo è la cosa migliore che può capitare quando si pensa alla realizzazione di un film in quanto, se lo si ha ben chiaro, da esso si possono far dipendere tutte le scelte di scrittura ed estetiche. Compreso che il mio desiderio era quello di indagare il tema del tradimento, ho lavorato affinché ogni singolo elemento del film remasse in questa direzione. E il tentativo di far provare a chi guarda Fortuna le stesse emozioni che ritengo possa aver vissuto la piccola protagonista rendeva necessario che tradissi in primo luogo lo spettatore.

In questo discorso rientra la scelta di dividere la struttura del film in due atti, in cui tra le altre cose le protagoniste adulte si scambiano di ruolo…

Proprio così, la struttura del film è diventata in due atti in quanto volevo spiazzare in maniera forte lo spettatore. Ero consapevole di assumermi un grande rischio perché quando tradisci lo spettatore, soprattutto se lo fai a metà narrazione, vai incontro alla seria possibilità di perderlo. Qui in qualche modo mi è venuto in soccorso uno dei grandi padri putativi del cinema, Alfred Hitchcock, che in Psycho ebbe il coraggio di far morire la sua protagonista anzitempo. Oltre alla struttura narrativa bipartita, il tema del doppio in generale – che al cinema ho sempre amato – è diventato il leit motiv di Fortuna. Al di là dei personaggi interpretati da Valeria Golino e Pina Turco, da questo punto di vista emblematici, tutti gli adulti che si muovono all’interno del film in realtà rivelano un proprio contrapposto, un contraltare. Sono loro infatti i traditori della storia. Le stesse inquadrature, nella maggior parte dei casi, sono composte in modo da risultare spezzate in due, rimandando a questa dualità di fondo che caratterizza l’intero film.

Più che su strategie drammaturgiche tradizionali, il tuo lavoro punta su immagini evocative e simboliche.

Uno dei tentativi che vorrei portare avanti con il mio cinema è quello di sollecitare in maniera sinestetica lo spettatore. Questo approccio non è propriamente cinematografico, ma qualcosa che assorbo in primo luogo dall’arte contemporanea; in particolare, da un certo tipo di arte concettuale in grado di trasmettere in modo molto efficace allo stesso tempo il significato, l’emozione e l’immagine. Quello che ho fatto è stato provare a utilizzare tutti gli aspetti della grammatica filmica per andare in tale direzione. Con questo obiettivo, fin dalla fase di scrittura, ho pensato a come poter far ricorso alle molteplici possibilità che il linguaggio cinematografico mi offriva, dalla struttura del racconto alla messa in scena, fino al montaggio e al lavoro sul suono.

A tratti Fortuna porta alla mente le atmosfere e la poetica del cinema di David Lynch, in particolar modo Mulholland Drive.

Quello di Lynch è senz’altro un mondo filmico che sento molto vicino. Conoscerlo e collaborare con lui occupandomi della regia del videoclip di All the Things, canzone scritta da David e interpretata dalla musa Chrysta Bell, è stato un sogno che si è realizzato. Mulholland Drive per me è uno dei film più importanti della storia del cinema. A differenza di altri grandi capolavori del passato, ho avuto la straordinaria opportunità di vederlo in sala nel momento in cui si è rivelato al mondo, quindi non a posteriori e senza il filtro di una comprensione critica già sedimentata. Detto ciò, mi sento un puntino rispetto a Lynch e per questo in Fortuna non ho voluto citarlo in alcun modo. Nel suo caso parliamo di una personalità immensa: David è una luce, è luminosissimo, la libertà che ha è una conquista che al mondo possono vantare davvero in pochi.

Stai già lavorando a un nuovo progetto?

Sono molto scaramantico, quindi per ovvi motivi preferisco non entrare nello specifico. Posso però dire che durante tutta la gavetta fatta in questi anni ho avuto la possibilità di mettere da parte e sviluppare diversi progetti. Di recente poi ne sono arrivati anche di nuovi e così mi trovo nella fase in cui dover scegliere ciò che mi ispira maggiormente. Si tratta di una cosa stimolante e bellissima per un regista: quanto più senti un progetto nel momento in cui lo fai, infatti, tanto più questo potrà essere onesto e veritiero.

The Shift: vivere e morire a Bruxelles

Thriller adrenalinico quasi interamente ambientato all’interno di un’ambulanza, sullo sfondo di un tragico attentato terroristico che avviene nella capitale belga, The Shift è un’opera prima convincente e produttivamente audace. Presentata alla Festa del Cinema di Roma, finalista ai Fabrique du Cinéma Awards e ora in streaming al Noir in Festival, ne abbiamo parlato con il regista Alessandro Tonda.

«Non scorderò mai la meravigliosa coincidenza che mi ha portato ad avere lo stesso giorno il via libera definitivo per la realizzazione di The Shift e la notizia dalla mia compagna che era incinta». Il trentottenne regista piemontese ama raccontare come consideri il suo film un vero e proprio secondo figlio, fortemente voluto. Dopo la lunga gavetta maturata sul set a partire dal 2005, in qualità di assistente prima e aiuto regista poi (tra i titoli più noti Suburra, la prima stagione di Gomorra e la seconda di Romanzo criminale, Sicilian Ghost Story), Tonda è finalmente riuscito a esordire nel lungometraggio con un’opera prima atipica per il contesto produttivo nostrano. The Shift è infatti un incalzante film d’azione dal respiro internazionale, con un budget di tutto rispetto (intorno ai 3,5 milioni di euro) che la stragrande maggioranza dei registi italiani al debutto può solo sognare di avere a disposizione.

Da dove nasce l’idea del film?

La prima scintilla è legata a un’esperienza personale. Erano passati pochissimi giorni dall’attentato del Bataclan e, mentre ero fermo in macchina davanti a un semaforo e alla radio davano le notizie sui fatti di Parigi, ho visto sfrecciare due ambulanze a sirene spiegate. L’emozione di quel momento mi ha fatto pensare a come si sarebbe comportata una persona comune come mio padre, volontario della Croce Rossa che guida le ambulanze, se si fosse trovata improvvisamente sulla scena di un attentato, costretta a soccorrere una persona cara. Da questa suggestione siamo partiti con il co-sceneggiatore Davide Orsini e presto ci siamo fatti affascinare dall’idea di trasformare l’ambulanza, solitamente vista come un mezzo che salva le vite, in un luogo estremamente pericoloso. Con un terrorista all’interno che tiene in ostaggio due paramedici, pronto a farsi esplodere da un momento all’altro.

Trovare i fondi necessari per realizzare un’opera prima come questa non deve essere stato facile. Come ci sei riuscito?

Tutto ha avuto inizio con il concorso Pitch in the Day, a cui si può inviare un proprio soggetto e, se si viene selezionati per la fase finali, si ha poi la possibilità di presentare l’idea a venti produttori italiani. In questa occasione ho avuto modo di incontrare Notorious Pictures, che ha subito colto del potenziale nella storia e ha deciso di portare avanti il progetto. Produrre un film d’esordio è sempre una scommessa e devo dire che il coraggio di Notorious in questo caso è stato notevole. In più, sono riusciti a mettere in piedi una co-produzione con il Belgio che mi ha permesso di realizzare The Shift proprio come lo avevo pensato inizialmente. Sono stato davvero fortunato.

Il tema del terrorismo islamico viene affrontato senza giudicare ma scegliendo di concentrarsi sulla relazione che si instaura tra i tre protagonisti nel ristrettissimo spazio di un’ambulanza.

Con Davide avevamo la consapevolezza che nel film non fosse possibile approfondire in maniera esauriente un fenomeno così complesso e ampio come quello del terrorismo di matrice islamica. Ciò che ci interessava era provare a entrare nelle dinamiche psicologiche dell’attentatore sopravvissuto  ˗ un adolescente plagiato, in crisi e alla ricerca della propria identità ˗ attraverso il rapporto che si sviluppa all’interno dell’ambulanza con i paramedici che lo soccorrono. Abbiamo cercato di scrivere meno dialoghi che potevamo, in modo da lavorare sugli sguardi dei protagonisti e rappresentare le loro emozioni soprattutto attraverso le immagini.

Per quanto riguarda lo stile, fin dal piano sequenza iniziale che ci immerge nel luogo dell’attentato il film è in grado di tenere alta la tensione con grande efficacia.

La mia esigenza era proprio quella di portare in maniera prepotente lo spettatore dentro le vicende del film. Proprio per questo motivo sono partito con un piano sequenza che segue i ragazzi mentre si dirigono verso la scuola. Sentivo fosse fondamentale restituire a The Shift una sensazione di freschezza e istantaneità quasi documentaristica. Così ho puntato molto sulle riprese a mano, facendo sì che il punto di vista della macchina da presa coincidesse con quello dello spettatore all’interno della storia. Ho anche tentato di fare meno ricorso possibile al montaggio. Utilizzare pochi stacchi, infatti, significava non interrompere il flusso di emozioni che si generava tra gli attori grazie alla loro interazione durante le riprese, avvenute realmente all’interno di un’ambulanza in costante movimento per la città.

Hai avuto delle ispirazioni cinematografiche particolari per The Shift?

Mi sono fatto influenzare soprattutto dalla visione di telegiornali, inchieste e video su Youtube. Fonte di ispirazione è stata la cronaca più che il cinema. Un film però che mi ha colpito molto e che in qualche modo mi è rimasto dentro anche durante la realizzazione di The Shift è Made in France, pellicola francese che narra la storia di un giornalista infiltratosi in una cellula jihadista con l’obiettivo di scrivere un libro per mostrare quel mondo dall’interno. Il film propone un intenso racconto psicologico delle motivazioni dei terroristi che ha rappresentato senz’altro un’ispirazione per me, seppur indiretta.

 

 

 

 

 

 

 

Gianluca Guzzo, CEO Mymovies: “Il futuro è l’integrazione tra cinema sul web e in sala”

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Con alle spalle un percorso come danzatore classico a Parigi e gli studi di ingegneria informatica al Politecnico di Milano, Gianluca Guzzo da un paio di decenni ha fatto un lavoro delle sue due principali passioni: l’arte e l’innovazione tecnologica. Proprio mentre viveva in Francia, negli anni novanta, ha subito compreso le grandi potenzialità delle rete e ne è rimasto fortemente affascinato. Mymovies, di cui è amministratore delegato e co-fondatore, nasce nel 2000 con l’idea di proporre una biblioteca online che digitalizzasse la letteratura cinematografica italiana. Ben presto però, seguendo la rapidissima evoluzione del web degli ultimi vent’anni, si è trasformato nel più importante sito di cinema del nostro paese, dando vita a partire dal 2010 anche a una piattaforma streaming pensata per simulare l’esperienza condivisa della sala: Mymovies Live. Con Guzzo abbiamo approfondito genesi e sviluppo di quest’ultimo progetto, che a seguito del diffondersi della pandemia ha avuto un’interessantissima evoluzione ed è oggi in pieno fermento. 

Mymovies Live parte dalle solide basi dell’esperienza di Mymovies. Come nasce inizialmente l’idea della piattaforma?

Quando siamo partiti con Mymovies il mondo di Internet era tutto da costruire, il nostro sito infatti nasce prima di Google, Youtube e chiaramente dell’esplosione dei social network. Ogni volta che si imponeva una importante tendenza, per noi si trattava di una nuova sfida. Con l’avvento di Google siamo stati tra i primi a comprenderne a fondo il modello, costruendo le nostre pagine affinché potesse capire cosa avessimo sul sito e premiarci nei risultati di ricerca. Prima dell’affermazione di Youtube eravamo in assoluto il sito di intrattenimento più visitato in Italia e ci siamo presto resi conto della necessità di seguire la tendenza dei video. In questo contesto, anche se può sembrare incredibile, Mymovies Live in realtà nasce per rispondere ai social network e alla loro estensione del concetto di community, pensando a una piattaforma in cui gli utenti potessero vedere i film insieme online in un determinato momento, chattando e pubblicando foto.

Come è evoluta negli anni l’offerta della piattaforma?

Il ruolo di Mymovies Live dalla sua nascita è stato soprattutto quello di presentare agli abbonati dei film in anteprima, prima dell’uscita nelle sale. Seguendo una logica di promozione che lasciava lo sfruttamento dei film ai cinema, attraverso l’organizzazione di eventi in sale virtuali con posti limitati per cui era necessaria una prenotazione. Il primo evento con cui siamo partiti nel 2010 è stato La bocca del lupo di Pietro Marcello, presentato online per sole 300 persone qualche giorno in anticipo rispetto all’arrivo in sala. Il film ha avuto poi un notevole successo anche al cinema e così tante altre opere hanno iniziato a seguire lo stesso percorso. Fino a quando nel 2018 non è esploso il caso di Netflix e Sulla mia pelle, che ha provocato grandi malcontenti nell’industria e ha portato in seguito all’approvazione della legge Bonisoli, con la quale è stata vietata l’uscita prima in streaming di qualsiasi film finanziato dallo Stato. L’impianto alla base di MyMovies Live ha subìto così un durissimo colpo e a inizio 2020 stavamo per chiudere la nostra esperienza.

Cos’è successo a questo punto?

All’improvviso è arrivato il lockdown e tutto è cambiato. Con le sale chiuse e gli italiani costretti a rimanere a casa, grazie all’appoggio di distributori come BIM, I Wonder Pictures, Sacher e realtà quali la Cineteca di Bologna, il Biografilm e il Far East Film Festival abbiamo iniziato a offrire su Mymovies Live la visione gratuita di diversi film. L’obiettivo era quello di mantenere un dialogo con i nostri utenti e ribadire l’importanza della settima arte in un momento così duro per tutti. Da lì sono partiti gli spunti per dare vita a nuovi progetti, come le piattaforme create a sostegno dei cinema in collaborazione con gli esercenti #Iorestoinsala e Miocinema o la piattaforma costruita ad hoc per la casa di distribuzione True Colours, True Colours Virtual Cinema. Di recente, in collaborazione con il Ministero degli Esteri, abbiamo anche chiuso un accordo con gli Istituti di Cultura italiani nel mondo e lanciato una nuova piattaforma per promuovere i film nostrani all’estero attraverso le varie ambasciate. In più, naturalmente, ci sono state tutte le iniziative legate alle piattaforme per gli oltre 100 festival con cui abbiamo lavorato. Dal 2015 siamo la piattaforma streaming ufficiale della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia, ma nell’ultimo anno questo tipo di collaborazioni sono aumentate esponenzialmente.

Che tipo di lavoro avete portato avanti con i festival?

Da marzo in avanti nella maggior parte dei casi i festival non si sono potuti svolgere in presenza e, anche in quei momenti in cui ciò è stato in parte possibile, gli organizzatori avevano bisogno di un supporto che permettesse loro di sviluppare un’offerta sul web da affiancare a quella tradizionale. Così abbiamo dato la possibilità di utilizzare la nostra piattaforma a tutti coloro che erano interessati, creando uno spazio personalizzato per i festival in cui questi potessero gestire le loro offerte e proposte di abbonamento in modo autonomo. L’organizzazione di visioni-evento, con countdown, date e orari precisi in cui poter partecipare, è andata nella direzione di una condivisione dell’esperienza che ha senz’altro favorito il successo delle iniziative.

Mymovies
Il Torino Film Festival su Mymovies Live.

La risposta del pubblico in effetti è stata molto positiva…

Considerando solo le attività legate ai festival, da giugno a oggi sono state consumate 400.000 ore di visione e l’incasso ottenuto per conto delle manifestazioni cinematografiche è stato di oltre 480.000 euro. Il dato impressionante è che la maggior parte dei festival con cui abbiamo stretto accordi ha incassato più quest’anno online che nelle edizioni in presenza del 2019. Giusto per fare un paio di esempi, il Torino Film Festival è stato un grandissimo successo, con decine di migliaia di biglietti venduti, e il Trieste Film Festival ha raggiunto poco meno di 30.000 presenze con oltre un milione e mezzo di minuti di visione. Molto partecipati sono stati anche gli eventi gratuiti portati avanti da quei festival che hanno preferito non far pagare i propri utenti: il solo Biografilm Festival, la prima manifestazione con cui abbiamo collaborato, ha superato le 50.000 prenotazioni.

Quali sono gli aspetti di cui vai più fiero dell’operazione che state portando avanti?

La nostra è una piattaforma che definisco collaborativa. Ogni volta che stringiamo l’accordo con un partner, il dialogo che si crea porta all’aggiunta di una funzione o di un servizio e in questo modo Mymovies Live cresce e si evolve continuamente. Dal punto di vista tecnologico trovo si tratti di una cosa bellissima. Sul piano culturale, invece, abbiamo riunito alcuni tra i migliori talenti del nostro paese in campo cinematografico (direttori di festival, programmer, esercenti, produttori, distributori), che hanno messo a disposizione la loro professionalità per proporre una ricchissima offerta di film inediti e di qualità. In questo contesto è l’autorevolezza della selezione a fare la differenza e non – come avviene con i grandi colossi dello streaming – un algoritmo che profila gli utenti e che, attraverso l’analisi dei dati raccolti, finisce per proporre contenuti sempre più simili, appiattendo notevolmente l’offerta.

Come pensi che questa esperienza si possa sviluppare in futuro, quando gli eventi potranno nuovamente svolgersi regolarmente in presenza?

Generalmente i festival si rivolgono soprattutto agli spettatori del territorio in cui si svolgono. Mediamente solo il 20% degli abbonati alle varie nostre piattaforme dedicate sono sul territorio, mentre il restante 80% proviene dal resto d’Italia. Sulla base di questi dati mi aspetto che, con l’emergenza alle spalle, non solo le sale dei festival torneranno ad essere piene, ma anche che crescerà sempre più l’interesse a vedere i film online da parte di chi è impossibilitato a recarsi in loco. Gli appassionati di cinema di un territorio in cui si organizza un festival non rinunceranno mai all’esperienza della sala. In più, alcuni partner stanno già sperimentando con noi un’offerta sul web continuativa che vada oltre la durata delle singole manifestazioni: il Far East Film Festival ha una sua versione in abbonamento per la visione di una selezione di film asiatici durante tutto l’anno e la stessa cosa la sta facendo la Cineteca di Bologna con i suoi film restaurati. Altre offerte di questo tipo arriveranno e sono assolutamente convinto che in futuro si andrà verso un modello virtuoso di integrazione tra programmazione fisica e sul web.

 

Deux, il folgorante esordio di Filippo Meneghetti

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Accade di rado di assistere a un’opera prima pienamente convincente e matura, dotata di una notevole sensibilità e capace di esprimere tanto sul piano stilistico quanto su quello narrativo quel delicato e complesso equilibrio che solitamente un cineasta acquisisce solo nel tempo con l’esperienza. È questo il caso di Deux (Two of Us il titolo internazionale), l’ottimo esordio nel lungometraggio di Filippo Meneghetti, regista veneto classe 1980 che vive a Parigi da otto anni dopo aver lavorato nel circuito del teatro e del cinema indipendente a New York e studiato regia e antropologia in Italia.

Presentato lo scorso anno con successo di pubblico e critica in diversi importanti Festival (Toronto, Londra, Roma) e da pochi giorni annunciato dalla Francia come suo rappresentante nella corsa all’Oscar per il miglior film straniero, Deux è una coproduzione franco-lussemburghese-belga incentrata sulle vite di Nina e Madeleine, due donne mature che si amano segretamente da molto tempo. Vivono in Francia nello stesso palazzo, in due appartamenti uno di fronte all’altro, ma si sono conosciute durante un viaggio a Roma di Madeleine, la quale in tutti questi anni non ha ancora trovato la forza di raccontare la verità alla propria famiglia. Proprio quando, a tre anni dalla scomparsa del marito, Madeleine sembra decisa a uscire allo scoperto con i figli, però, accade all’improvviso un tragico evento che metterà a dura prova le esistenze di entrambe le donne.

Scritto dallo stesso Meneghetti insieme a Malysone Bovorasmy con la collaborazione della più esperta Florence Vignon (autrice nel 2016 insieme al regista Stéphane Brizé della sceneggiatura di Una vita), il film racconta con una certa grazia e senza mai eccedere nei toni una storia d’amore vigorosa e struggente. La regia di Meneghetti è solida, funzionale alle esigenze narrative e in grado di esaltare le ottime interpretazioni delle due protagoniste Barbara Sukowa (divenuta nota nel contesto del Nuovo Cinema Tedesco grazie a Fassbinder e Margarete von Trotta) e Martine Chevallier (grande attrice teatrale francese che fa parte dalla fine degli anni Ottanta della Comédie-Française), che contribuiscono in maniera determinante a raggiungere vette di notevole intensità. Convincente è anche la prova di Léa Drucker nei panni di Anne, la figlia di Madeleine che fatica ad accettare la sessualità della madre, recentemente apprezzata nel pluripremiato L’affido (2017).

Deux è dunque un film al contempo potente e asciutto, che ha il pregio non di poco conto di evitare con abilità qualsiasi tipo di retorica o banalizzazione – indicativo da questo punto di vista il bel finale – e segnala in maniera inequivocabile un nuovo talento italiano davvero molto promettente, capace oltretutto di trasferirsi e trovare finanziamenti all’estero per inseguire il proprio sogno di fare cinema. Siamo certi che sentiremo ancora parlare di Filippo Meneghetti e, a dir la verità, già non vediamo l’ora di poter scoprire la sua opera seconda.

 

Paradise, la commedia “stranita” di Davide Del Degan

A quattro anni di distanza dal documentario presentato fuori concorso al Festival di Cannes diretto insieme a Thanos Anastopoulos L’ultima spiaggia, ritratto complessivamente poco riuscito di alcuni degli abituali frequentatori dello stabilimento balneare triestino di Pedoci, Davide Del Degan esordisce nel lungometraggio di finzione con un’opera prima per diversi aspetti atipica, presentata allo scorso Torino Film Festival e giunta adesso in sala. Una “commedia stranita”, come ama definirla il regista di Trieste classe 1968, in cui gli aspetti ironici e leggeri tendono con il passare dei minuti a lasciare il passo a toni più intimisti.

Calogero (Vincenzo Nemolato) è un venditore di granite siciliano che, dopo aver assistito a un omicidio di mafia, prende la sofferta decisione di divenire testimone di giustizia, ritrovandosi così trasferito attraverso il programma protezione testimoni in un paesino tra le montagne friulane. A Sauris, questo il nome della località, è solo e cerca con fatica di integrarsi in un contesto sociale molto lontano da quello di provenienza, nella speranza che la moglie incinta lo riesca a raggiungere il prima possibile dopo il parto. Ben presto, però, nel piccolo paese composto da poche centinaia di abitanti Calogero viene raggiunto dall’autore dell’omicidio di cui è stato testimone (Giovanni Calcagno) e la sua vita sarà destinata a cambiare ulteriormente in modo imprevedibile. 

Sceneggiato da Andrea Magnani, regista e sceneggiatore di Easy (2017), il film ha il pregio di provare a seguire una strada differente, più inventiva  rispetto a quella cui siamo solitamente abituati, nel raccontare il dramma di chi vede all’improvviso la propria vita sconvolta dalla mafia. Per quanto dal punto di vista visivo sia ben confezionato e possa contare sulle apprezzabili interpretazioni dei protagonisti Nemolato e Calacagno (tra i due sullo schermo si costituisce una discreta alchimia), Paradise però si muove con incertezza e poca naturalezza tra i toni della commedia, del thriller e del dramma, finendo per non riuscire mai davvero a divertire lo spettatore, né tanto meno a farlo riflettere su temi di una certa importanza quali lo spaesamento, la solitudine, la necessità di cambiamento e il senso di colpa. Un po’ come accadeva nel già citato documentario L’ultima spiaggia, l’idea di partenza è buona e sulla carta stimolante ma lo sviluppo deludente. Davvero un peccato. 

I fratelli Miyakawa in sala con Easy Living, un esordio alla Wes Anderson

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Esce nelle sale, a diversi mesi dalla sua presentazione al 37esimo Festival di Torino, Easy Living, il curioso esordio dei due giovanissimi fratelli Miyakawa (Orso 28 anni, Peter 24), italiani con nonno giapponese cresciuti tra Torino, Tokyo e Milano.

Un’opera prima che, pur con qualche lacuna di cui diremo dopo, racconta con uno stile inconsueto e una certa audacia le stravaganti vicende di un gruppo di personaggi per diversi motivi spaesati e alla ricerca di una svolta.

Il quattordicenne Brando si ritrova all’improvviso a dover passare qualche settimana con la sorellastra Camilla, che per vivere contrabbanda medicine e alcolici a Ventimiglia, al confine tra l’Italia e la Francia. Qui i due si imbattono in personaggi eccentrici almeno quanto loro: Don, un donnaiolo insegnante americano di tennis in crisi con il sogno di fare il pittore, ed Elvis, un migrante clandestino senza fissa dimora con occhiali da sole e camicia hawaiana che spera di poter raggiungere la moglie incinta a Parigi. I quattro imparano e conoscersi e tra loro si sviluppa un inaspettato legame di amicizia che li condurrà a elaborare un’improbabile strategia per far attraversare illegalmente la frontiera ad Elvis.

Tra citazioni stilistiche della Nouvelle Vague e ammiccamenti alla poetica di Wes Anderson, l’esordio nel lungometraggio dei fratelli Miyakawa prova ad affrontare il tema dell’immigrazione e del progressivo inasprimento delle politiche europee sull’accoglienza con uno sguardo leggero e bizzarro, lontano dalle convenzioni cui generalmente si ricorre in produzioni che affrontano argomenti di questo tipo.

Il lodevole tentativo di dare vita a qualcosa di originale tuttavia non sempre è sostenuto da una sceneggiatura all’altezza: la delicata commistione tra ironia e malinconia non è dosata con sufficiente efficacia, la caratterizzazione dei personaggi appare piuttosto sommaria e, tra passaggi narrativi sbrigativi (compreso il finale), Easy Living dà sovente l’impressione di una certa confusione di idee. Ma ai fratelli Miyakawa non manca certo la personalità, per la maturità e l’equilibrio aspettiamo fiduciosi l’opera seconda.

Miocinema, quando lo streaming di qualità aiuta le sale: il punto con Andrea Occhipinti

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È davvero possibile immaginare un servizio di video on demand che abbia l’obiettivo di valorizzare le sale cinematografiche e i suoi spettatori? Andrea Occhipinti ne è convinto e pensa che l’integrazione tra programmazione in sala e sul web rappresenti il futuro.

Da tre decenni uno dei produttori e distributori più raffinati del panorama cinematografico italiano, Andrea Occhipinti con la sua Lucky Red lo scorso 18 maggio ha lanciato una piattaforma streaming, Miocinema, che si propone di essere un punto di riferimento per gli amanti del cinema d’autore e di sostenere il sistema dell’esercizio cinematografico. In questi tempi così duri per il mondo della cultura e del cinema, si tratta di una delle iniziative più lodevoli e innovative poste in essere per tentare di dare una risposta nuova a una situazione molto critica e del tutto al di fuori dell’ordinario.

Con questo articolo anticipiamo il nuovo numero di “Fabrique du Cinéma”, il 29, che uscirà domani in esclusiva sul nostro sito e in versione cartacea in concomitanza con la 77a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.

Come nasce Miocinema e quali sono le principali esigenze che vi hanno spinto a partire con questa avventura?

Come Lucky Red siamo coinvolti in tutte le fasi della filiera dell’audiovisivo, dalla progettazione di un film alla distribuzione, passando per lo sviluppo, la produzione e le vendite estere. Guardando quanto accaduto negli ultimi anni in particolare in alcuni paesi europei, dove sono nate piattaforme legate specificatamente al cinema d’autore, ma anche osservando il successo in Italia di grandi player globali come Netflix o Amazon, era da tempo che avevamo iniziato a ragionare sulla possibilità di creare una nostra piattaforma digitale connessa a una proposta di qualità e più concentrata. Tutto questo ha avuto un’accelerazione con il sopraggiungere della pandemia. I cinema erano sofferenti, chiusi e così, insieme a Circuito Cinema – il principale circuito di network di sale italiane che programma film d’autore – e al partner tecnologico Mymovies, abbiamo deciso di muoverci per dare vita a un progetto che avesse lo scopo di mettere al centro i cinema e il loro pubblico.

In altre occasioni hai definito Miocinema come una “estensione digitale della sala”. Ci spieghi il funzionamento della piattaforma?

Credo che oggi, visti i tempi in cui viviamo, una complementarità tra sala e servizi digitali sia assolutamente necessaria. E infatti di recente stanno nascendo sempre più progetti che vanno in questa direzione. Come negli Stati Uniti, dove diversi circuiti di sale iniziano ad avere un’offerta di programmazione online integrata alle loro strutture fisiche. Partendo da questo presupposto, per Miocinema abbiamo studiato un meccanismo molto semplice: quando lo spettatore si iscrive gratuitamente alla piattaforma sceglie un proprio cinema di riferimento, che di solito è quello da lui abitualmente frequentato. Nel momento in cui acquista la visione di un film, una parte della cifra pagata va al cinema associato al suo profilo, una a Miocinema e un’altra ancora al proprietario del contenuto. Utilizzando Miocinema, lo spettatore avrà poi diritto a una serie di promozioni e sconti a lui riservati dal cinema che ha scelto in fase di iscrizione e di cui potrà usufruire una volta che la struttura aprirà di nuovo.

Su che tipo di offerta vi state concentrando al momento e quali sono i vostri piani per il futuro?

All’inizio abbiamo proposto dei titoli che sarebbero dovuti uscire in sala ma che con la chiusura dei cinema non potevano più farlo, come ad esempio I miserabili di Ladj Ly, vincitore a Cannes lo scorso anno del Premio della giuria. Poi siamo passati a opere di qualità come il documentario Selfie di Agostino Ferrente, premiato agli ultimi David di Donatello, ed Ema di Pablo Larraín, per il quale abbiamo fatto un’anteprima visto che a settembre uscirà anche in sala. Ora stiamo lavorando molto a retrospettive tematiche di film, anche legate all’attualità, e agli incontri con autori e registi come i fratelli D’Innocenzo, i citati Larraín e Ferrente, Franco Maresco, Roberto Minervini e Dante Ferretti. Per il futuro l’idea è quella di organizzare retrospettive su autori i cui ultimi film stanno per uscire in sala, utilizzando così la piattaforma come veicolo di promozione per la programmazione negli esercizi, e di puntare sull’acquisizione esclusiva di titoli di qualità provenienti dai festival che non avrebbero mai la forza di arrivare al cinema.

È possibile fare un primo bilancio?

La nostra è una startup e siamo ancora in una fase di ricerca per capire quali sono le modalità e gli spazi di manovra più adatti ed efficaci. Stiamo testando la proposta di tipi di lungometraggi diversi e, per esempio, abbiamo già toccato con mano che gli incontri esclusivi con registi, attori e autori sono molto apprezzati. I numeri per ora sono piccoli sul piano della sostenibilità economica ma molto interessanti se paragonati ad esempio ai numeri che fanno certi film d’autore su piattaforme molto più grandi della nostra. Per quanto sia passato così poco tempo dal lancio e nonostante non sia stato fatto alcun vero investimento economico sul piano pubblicitario, la piattaforma sta già acquisendo una propria identità ben precisa.

Vista la tua esperienza, cosa ci aspetta in autunno dall’industria cinematografica?

Dal punto di vista produttivo, molte produzioni che si sono interrotte hanno ripreso e alcune hanno persino concluso le lavorazioni. Altri film stanno per iniziare ad essere prodotti e ci sono già ora tanti progetti in preparazione pronti a partire in autunno. Certo, ci sono dei protocolli da seguire che rendono tutto un po’ più complesso e le produzioni più costose, ma il vero anello debole della filiera sarà quello dell’esercizio cinematografico. Per quanto riguarda le sale infatti non c’è solo l’incognita legata al virus in Italia e alla disponibilità delle persone a tornare al cinema, ma anche il problema dell’evoluzione della pandemia nel mondo e in particolare negli Stati Uniti. Il cinema americano pesa per circa il 60% sugli incassi e l’uscita posticipata di tanti grandi film statunitensi comporterà una mancanza di prodotto molto importante, cui dovremo provare a sopperire con titoli nazionali. Quello che avverrà questo inverno nessuno può prevederlo ma di sicuro per le sale ci sarà una contrazione, probabilmente significativa, che dobbiamo provare a limitare il più possibile facendo capire agli spettatori che andare al cinema è una forma di socialità e di condivisione di un’emozione che è possibile fare in tutta sicurezza.

 

Le Film Commission, intervista a Cristina Priarone

Cosa sono le Film Commission e come operano per sostenere lo sviluppo della produzione e della cultura cinematografica in Italia? Fabrique ne ha parlato con Cristina Priarone, Direttore Generale di Roma Lazio Film Commission dal 2007 e Presidente della Italian Film Commissions.

Nate a partire dalla seconda metà degli anni Novanta sul modello di alcune esperienze avvenute in Europa nel decennio precedente, le Film Commission italiane nelle ultime due decadi si sono sviluppate con sempre maggiore forza e organicità come un vero e proprio punto di riferimento per l’industria audiovisiva nazionale e internazionale, muovendosi in primis nell’ambito del rapporto tra produzione cinematografica e territori locali. Per approfondire le molteplici attività portate avanti dalle Film Commission e le opportunità che esse offrono per la crescita del settore audiovisivo, abbiamo incontrato Cristina Priarone, da anni una delle figure più rilevanti di questo mondo che a fine gennaio è stata eletta Presidente della Italian Film Commissions, l’associazione che riunisce 18 Film Commission operanti nel nostro Paese.

Di cosa si occupano le Film Commission e come si sono evolute nel tempo?

Inizialmente nascono per un unico scopo: fornire alle produzioni cinematografiche un supporto in fase di ripresa in un determinato territorio. Un primo successivo passaggio è stato quello di trasformarsi da semplici strutture di servizio a veri e propri strumenti strategici, vale a dire strutture attraverso cui una Regione, un territorio o una città riconoscevano strumenti per attirare produzioni, oltre che per assisterle, e per elaborare operazioni di marketing territoriale ben definite. Più avanti poi le Film Commission sono diventate anche enti di veicolo e promozione di fondi di supporto al cinema e all’audiovisivo e hanno acquisito una dimensione sempre più regionale, sancita definitivamente dalla legge Franceschini che qualifica le Film Commission come soggetti di ispirazione pubblica e respiro regionale. Queste in sintesi sono state le tre grandi fasi di evoluzione e ad oggi le Film Commission agiscono su uno spettro sempre più ampio di attività, che coinvolge anche la promozione degli eventi culturali e la formazione.

In questo contesto qual è il ruolo giocato dall’associazione IFC, l’Italian Film Commissions?

Il grosso lavoro che ha fatto Italian Film Commissions negli ultimi anni è stato quello di innescare un meccanismo virtuoso di unità tra le Film Commission, in passato caratterizzate anche da una forte concorrenza fra loro, valorizzando le specificità di ognuna ma in un’ottica di azione sinergica che permette di presentarsi in maniera più forte e riconoscibile nel contesto di un mercato del cinema e dell’audiovisivo sempre più globale e competitivo. Così, mentre a livello internazionale le Film Commission si strutturavano in grandi network, a partire da quello americano della AFCI e da quello europeo della EUFCN, in Italia il progetto della IFC ha preso sempre più corpo.

LA IFC però non si muove solo in ottica internazionale.

Se la promozione all’estero avviene in maniera ormai consolidata e coordinata con importanti partner quali la Direzione generale Cinema del MiBACT, l’Istituto Luce Cinecittà, ANICA e Agenzia ICE, la IFC segue infatti anche due altre importanti linee di attività: l’armonizzazione di fondi, bandi e procedure regionali per agevolare il lavoro dei produttori che vogliono accedervi nei vari territori e, con il supporto della Direzione generale Cinema e della Direzione generale Musei del MiBACT, la sistematizzazione di modalità più chiare ed efficaci per aprire i beni culturali al cinema, che preveda anche tariffe accettabili.

Concentrandoci più specificatamente sulla Roma Lazio Film Commission, quali sono i fondi messi a disposizione?

Grazie al lavoro del Presidente Zingaretti, la Regione Lazio negli ultimi anni è riuscita ad ottenere molte risorse per il cinema e l’audiovisivo da fondi europei e ad oggi la dotazione è di 23 milioni di euro, una delle più grandi d’Europa tra i finanziamenti a fondo perduto. Di questi, circa 10 sono destinati a un fondo automatico a consuntivo cui i produttori laziali possono accedere a riprese terminate e circa 3 vanno ad attività come festival ed eventi che nella nostra regione promuovono il cinema e l’educazione del pubblico. Il fondo più distintivo e caratterizzante dell’attività della Roma Lazio Film Commission e della Regione Lazio è però Lazio Cinema International, specificatamente dedicato alla coproduzione e grazie al quale i produttori con base nel Lazio possono avere un sostegno ingente se coproducono con un produttore estero. Questo fondo, strutturato in due finestre annuali, ha condotto a dei risultati straordinari, poiché da quando è stato attivato le coproduzioni in Italia sono aumentate del 35%. Puntare sulla coproduzione è fondamentale in quanto si tratta di una leva importantissima, in grado di portare i nostri produttori ad aprirsi e ad interagire in uno scenario globale colmo di opportunità. Un consistente supporto alla coproduzione genera possibilità di crescita per l’intero settore audiovisivo italiano, anche per i produttori più giovani, per i quali aumentano così le occasioni d’interazione produttiva.

In che direzione ci si sta muovendo per far crescere ancora di più l’impatto della Film Commission nei prossimi anni?

La Roma Lazio Film Commission ha tante linee di attività aperte. Di recente abbiamo dato vita a una promozione molto innovativa nei territori rendendo le location visionabili attraverso la realtà virtuale e incontriamo costantemente tutti i sindaci del Lazio, insegnando alle amministrazioni come capitalizzare in ambito audiovisivo le ricchezze che hanno. Spesso, al di là delle difficoltà che i Comuni possono incontrare sul piano finanziario, è possibile lavorare per sfruttare al meglio location, spazi, giovani talenti o imprese disposte ad investire. Detto questo, come già fatto nel contesto della coproduzione, mi piacerebbe fare una grossa rivoluzione anche nel campo della postproduzione. Quello della postproduzione è un comparto che garantisce continuità occupazionale, può attrarre molti investitori esteri e nel territorio laziale ha notevoli possibilità di sviluppo e crescita. Aprire una linea di azione sul sostegno alla postproduzione rappresenta una strategia vincente, del resto già attuata da diversi paesi europei che in questo sono molto aggressivi.

Da quest’anno è attiva anche una partnership con il Premio Strega.

Esattamente. Difatti un altro ambito su cui mi piacerebbe molto puntare come Roma Lazio Film Commission è quello della creatività, per promuovere la connessione fra il mondo della produzione audiovisiva e quello della letteratura, che sta davvero vivendo un momento magico grazie ad esempio al successo internazionale de L’amica geniale e Gomorra. Collaborando con il Premio Strega ma anche con la Writers Guild Italia, l’associazione degli sceneggiatori italiani, stiamo iniziando a organizzare diverse attività per accompagnare un percorso di crescita di tanti talentuosi autori italiani.