Piccolo corpo, Agata in viaggio verso il miracolo

Piccolo corpo
Celeste Cescutti è Agata in "Piccolo corpo".

Accolto con favore alla Semaine de la Critique dell’ultimo Festival di Cannes, esce domani al cinema Piccolo corpo di Laura Samani: un film inconsueto che, tra realismo e favola, recupera la tradizione del racconto popolare e dei fratelli Grimm.

Siamo agli inizi del Novecento quando in un’isoletta italiana del Nordest Agata partorisce una bimba morta. Secondo la religione cattolica, l’anima di questo piccolo corpo è condannata a vagare per sempre nel limbo. La giovane donna viene però a conoscenza dell’esistenza di un santuario, nelle innevate montagne del nord, in cui i bambini vengono miracolosamente riportati in vita per l’attimo necessario a battezzarli. Agata inizia così un lungo e incerto viaggio per dare un nome alla bambina e potersi riunire di nuovo a lei nella vita ultraterrena.

La 32enne regista e sceneggiatrice triestina Laura Samani, con alle spalle il solo cortometraggio di diploma del Centro Sperimentale La santa che dorme, firma un’opera prima sentita e già matura dal punto di vista stilistico, recitata in dialetto e quasi esclusivamente da attori non professionisti, che abbiamo voluto approfondire con l’autrice.

Da dove nasce l’idea alla base di Piccolo corpo?

L’ispirazione arriva dai pellegrinaggi avvenuti a partire dal 1500 in Friuli-Venezia Giulia, come in tutto l’arco Alpino, verso i cosiddetti santuari del respiro, luoghi in cui si diceva che grazie alla forza della preghiera i bambini nati morti potessero compiere un unico respiro e ricevere il sacramento del battesimo. La storia dei miracoli di Trava, che non conoscevo, mi è stata raccontata da un signore friulano qualche anno fa e ne sono rimasta subito molto affascinata. Dai documenti risulta che a intraprendere questi viaggi fossero gli uomini e così, attratta da ciò che solitamente viene omesso dalle narrazioni ufficiali, ho iniziato a pensare insieme ai due co-sceneggiatori Marco Borromei ed Elisa Dondi a cosa sarebbe successo se a dirigersi verso il santuario fosse stata una madre.

Il tuo esordio è una co-produzione tra Italia, Francia e Slovenia. Qual è stata la genesi produttiva del film?

Nel 2016 ero al Festival di Cannes per presentare in Cinéfondation La santa che dorme e a un padiglione del mercato mi è stata presentata Nadia Trevisan di Nefertiti Film. Pur essendo entrambe friulane, non ci eravamo mai incontrate. Si è trattato di un momento fortunato, in quanto io ero alla ricerca di una casa di produzione che comprendesse la necessità di ambientare il film in Friuli-Venezia Giulia e Nefertiti stava per la prima volta cercando una collaborazione con un nuovo autore, dopo aver prodotto principalmente i lavori di Alberto Fasulo. In seguito, abbiamo avuto la possibilità di aprirci progressivamente alla co-produzione coinvolgendo Danijel Hočevar, un produttore sloveno molto stimato a livello europeo con il quale Nadia aveva già collaborato in precedenza, e Thomas Lambert, produttore francese che abbiamo conosciuto nel contesto del prezioso Torino Film Lab, cui abbiamo partecipato per due anni consecutivi.

Piccolo corpoIl rapporto con la fede e la religione era al centro anche de La santa che dorme. Cosa ti affascina di questo tema?

Come quasi tutti in Italia ho avuto un’educazione cattolica e per molti aspetti che riguardano la narrazione sono attratta da quella zona grigia in cui la superstizione e la ritualità pagana si mescolano con il cattolicesimo. In realtà, però, Piccolo corpo e La santa che dorme sono interconnessi fin dall’inizio perché la persona che mi ha parlato dei miracoli di Trava lo ha fatto in quanto sapeva del mio cortometraggio precedente. Si tratta quindi di un collegamento tematico, o di arena del racconto, che non ho fatto io per prima. In qualche modo è la storia di Piccolo corpo ad avermi trovata e non viceversa.

Per immergere lo spettatore nel viaggio della protagonista, la regia si alimenta dell’uso esclusivo della macchina a mano e perlopiù di inquadrature lunghe.

 L’intento in effetti era proprio questo. Con il direttore della fotografia Mitja Licen abbiamo scelto la macchina a mano perché fin da subito la volontà era quella di viaggiare insieme ad Agata, sentendo l’irregolarità del terreno e la fatica del viaggio. Il cavalletto lo abbiamo usato solo in un paio di momenti, che non sono poi neanche rientrati nel montaggio finale. L’idea iniziale era anche di realizzare la maggior parte delle scene con dei piani sequenza, ma su questo poi l’arrivo della pandemia ci ha fortemente condizionato. Quando siamo tornati sul set dopo aver dovuto interrompere le riprese per diversi mesi, avevamo meno tempo a disposizione e abbiamo dovuto trovare soluzioni linguistiche più rapide e tutelanti. Basti pensare che per realizzare il piano sequenza della prima scena, quella del rito, ci abbiamo messo un’intera giornata. Per restituire l’immersività dell’esperienza del viaggio, per noi è stato poi fondamentale girare il film in continuità cronologica rispetto agli eventi narrati.

Hai già in mente il tuo prossimo progetto da regista?

In questo momento sono ancora in fase di elaborazione. Di sicuro, però, posso dire due cose: a cinque anni da La santa che dorme ho la volontà di tornare a lavorare con attori adolescenti e oggi – cosa che non era avvenuta quando ho scoperto l’esistenza dei santuari del respiro – sento di aver approfondito a sufficienza la questione della fede e del rapporto con la religione. Con ogni probabilità, quindi, il mio nuovo lavoro si incentrerà sul mondo adolescenziale e su temi differenti.