Intervista a Beatrice Baldacci: “Vi porto nella mia Tana”

La tana
Irene Vetere in "La tana" di Beatrice Baldacci.

Uscirà a maggio La tana, opera prima di Beatrice Baldacci. Intanto, dopo la sua prima alla Biennale Cinema alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno, a Roma sono già iniziate le prime proiezioni d’anteprima, come quella d’inizio febbraio al Cinema Aquila dove c’è stato un sorprendente doppio sold out. Bello riempire due sale anziché una, soprattutto in questo periodo.

Il film racconta l’incontro/scontro di Lorenzo, ragazzo che lavora la campagna dei genitori durante un’estate assolata, e Lia, nuova e misteriosa vicina di casa che scatenerà in lui sentimenti inaspettati. L’ambientazione bucolica estiva in un casale nella provincia laziale ricostruisce uno spazio-tempo silenzioso e pieno di possibilità in un periodo di non lavoro e non studio, l’estate, dove può succedere qualsiasi cosa.  Ma l’autrice, attingendo forse inconsapevolmente a una certa Nouvelle Vague, scava più a fondo, dietro e oltre i suoi personaggi e soprattutto intorno alla sua Lia, portando a galla una difficile e inaspettata situazione familiare. Irene Vetere, che per questa interpretazione ha vinto i Fabrique du Cinéma Awards 2021, e Lorenzo Aloi sono i protagonisti scelti dalla regista che abbiamo incontrato per un’intervista, poi diventata una ricca conversazione sul suo cinema e il suo lavoro sul set.

La tana è il tuo film d’esordio, potremmo definirlo un coming of age alla Eric Rohmer per questo incontro brusco e non romantico tra due giovani. Da quanto ti ronzava in testa questa storia, e quando hai deciso che doveva diventare un film?

Quando scrivo una storia le prime cose alle quali penso e mi affeziono sono i personaggi e luoghi. Avevo in testa già da tempo le figure di Lia e Giulio. M’interessavano molto questa contrapposizione di spiriti – uno più innocente, l’altra più problematica e brusca all’apparenza – e i luoghi del film, ispirati a quelli della mia infanzia. Mia nonna aveva una casa in campagna e di fronte c’era un’altra casa semiabbandonata che per me è sempre stata un mistero. Poi volevo portare avanti una tematica che avevo sviluppato nel corto precedente, Supereroi senza superpoteri, così mi è venuto tutto in modo abbastanza naturale. L’occasione si è presentata con Lumen Film, che mi ha chiesto se, avendo una storia, volessi partecipare alla Biennale College. E la mia era molto adatta ad uno sviluppo di micro-budget. C’erano poche location, pochi attori, quindi ho proposto La tana.

Come hai vissuto questo set e come hai scelto la location?

Inizialmente l’idea era quella di girare in Umbria, nei luoghi che conosco. Ma a causa del budget, e avendo lavorato durante la pandemia in zona rossa, era complicato. Non siamo riusciti a portare il set in Umbria e abbiamo iniziato la ricerca nelle campagne romane. All’apparenza sembra facile trovare due case una di fronte all’altra, in campagna. Però dovevano avere caratteristiche specifiche: dovevano essere abbastanza vicine, guardarsi una con l’altra, e una delle due doveva sembrare quasi abbandonata. La ricerca delle location è stata la cosa più complessa forse, ed è arrivata alla fine della preparazione al set. Ma abbiamo avuto fortuna perché le case trovate erano molto adeguate all’immaginario che avevo in testa. Poi è stato fatto un grande lavoro di scenografia, soprattutto per invecchiare la scasa di Lia. Riguardo alle riprese, il periodo del set per me è stato quello più rilassante di tutto il percorso del film. Pur con tempi strettissimi. Abbiamo girato solo in diciotto giorni, riuscendo a ultimare fino a tredici scene al giorno. Con tempi così stretti hai pochi momenti per pensare o andare nel panico. Il set dunque l’ho trovato molto naturale, il peggio invece è stato prima, durante il percorso con Biennale, che richiedeva più nervi saldi e l’esser messi spesso alla prova, oltre alla preparazione con gli attori.

Nel tuo lavoro precedente, il corto di montaggio Supereroi senza superpoteri, hai lavorato prevalentemente sul montaggio di materiali video provenienti dal tuo passato familiare. Ora invece hai messo in scena importanti dinamiche familiari con gli attori. Continuerai questa indagine emotiva sulle relazioni più strette o pensi di aver chiuso un cerchio e guardi ad altre tematiche?

Ne La tana ci sono diverse tematiche che mi sono portata dietro dal corto. Il tema dei ricordi, della nostalgia per i tempi passati sono cose entrate inconsciamente nel film perché mi appartengono. Quindi l’indagine familiare m’interessa molto, soprattutto tutto quello che ci si nasconde dietro, e come influenza la vita di figli e genitori. Staccarmene completamente non credo ci riuscirei, ma non voglio rifare lo stesso film per tutta la vita.

Forse la nostalgia di cui parli visivamente l’hai inserita in questi 4:3, formato sia del film che del corto, e in alcuni dettagli che metti della natura. Fiori e foglie in inquadrature molto strette, quasi pixelate. Credo rivelino molto della tua sensibilità, anche se sono immagini di raccordo.

La ricerca che faccio sull’immagine riguarda l’emotività: cerco ciò che apparentemente si lega a un’immagine, magari non c’entra niente, ma può suscitare emozione nello spettatore. Avevo fatto lo stesso con Supereroi utilizzando immagini amatoriali. Qui invece si tratta di immagini fatte con il cellulare per dare una sensazione di vicinanza. Più che narrativa, hanno funzione di suggestione. E quella nostalgia ho cercato di restituirla anche dall’interno della casa della protagonista, perché rappresenta tutto quello che è stato e che ora non c’è più. Quindi di un passato che in qualche modo sopravvive.

Invece per quanto riguarda i protagonisti, che vivono in un certo qual modo un’iniziazione sentimentale immersi nella natura, un po’ come accade in Chiamami col tuo nome, o in Io ballo da sola, come hai lavorato con gli attori?

Il periodo estivo, soprattutto quando si è giovani, è quello in cui tutto può accadere. Le cose magiche accadono sempre d’estate, c’è una strana atmosfera. Io intanto volevo che le due case fossero quasi due personaggi del film perché rappresentano i protagonisti stessi. Dovevano rispecchiare la relazione che Giulio ha poi con Lia. Sia attraverso le finestre che in tutte le scene, una cosa molto importante era per me il gioco continuo tra il dentro e il fuori. Quindi con Irene e Lorenzo abbiamo preparato il film con quasi due mesi di prove. Ci vedevamo regolarmente due volte a settimana, ma io volevo che si creasse un rapporto sia tra loro due, che tra me e loro. Inizialmente non abbiamo lavorato sulle scene del film, ma facevamo esercizi slegati dal contesto, esercizi di fiducia e di rimozione delle barriere d’imbarazzo che stanno tra persone sconosciute. Per esempio, andavamo al ristorante e facevo loro interpretare Giulio e Lia in quella situazione. Solo successivamente siamo passati alle prove del film vere e proprie, perché poi sul set non ci sarebbe stato tempo di provare o improvvisare. Era importante impostare tutto il lavoro da prima.

Irene Vetere
Irene Vetere vince i Fabrique du Cinéma Awards 2021 per “La tana”.

Hai scritto la sceneggiatura insieme a Edoardo Puma. È piena di silenzi e sfumature non facili da rendere. I due attori, rispetto anche alle prove, cosa hanno apportato in termini personali a La tana? Hanno tirato fuori dal cappello a cilindro qualcosa d’inaspettato che ti ha sorpresa?

Alcune scene sono cambiate durante le prove perché la sceneggiatura originale, nei dialoghi, era ancora più scarna del film come lo vedi ora. Così in prova aggiungevamo delle “sporcature” per rendere più naturale la scena, grazie ai suggerimenti di Lorenzo e Irene che mi aiutavano a renderla più adeguata in certi punti. Irene mi ha stupita molto perché ha sciolto tutta l’emotività che tratteneva nei take per esigenza di copione: è andata oltre il suo 100% dandosi completamente al film. Infatti dopo mi ha confessato che durante le prove preservava il suo lato più emotivo per farlo uscire completamente davanti alla macchina da presa. Tanto che in alcune scene, dopo lo stop, scoppiava in un pianto liberatorio.

Hai appena iniziato il tuo cammino da regista, ma qual è il genere di film che non vorresti mai girare? E quello dove invece ti piacerebbe cimentarti in futuro?

Che non vorrei mai fare perché non lo sento nelle mie corde? Sicuramente qualcosa tra azione e fantascienza. Perché sono cose troppo lontane da me. In verità ti avrei risposto inizialmente l’horror, perché non lo guardo, ma girarlo potrebbe essere divertente. Un genere che mi piacerebbe fare invece è il comico. Anzi, il tragicomico, il grottesco.

Mai come oggi il cinema in sala è minacciato da quello digitale, da salotto. Secondo te perché la sala è il posto migliore per guardare un film?

Prima di essere regista nasco spettatrice. Andare al cinema è sempre stata una mia buona abitudine. Per me è un rituale, un’esperienza collettiva: uno dei motivi che mi spinge a fare i film è sentire l’energia che scorre tra le persone. Mentre giro o scrivo un film finalizzo tutto alla sola esperienza di sala. Lo stare insieme davanti a un grande schermo porta anche dibattito. Se un film divide e fa discutere significa che qualcosa si è smosso e il film è riuscito. Invece guardare un film nella solitudine di un salotto annienta le possibilità di scambio di riflessioni e appiattisce l’esperienza cinematografica. Da qualche parte ho letto che Cronenberg, alla sua prima volta in un cinema, da bambino, chiese a suo padre dove vivessero quelle persone sullo schermo. E il papà, girandosi indietro e indicando il proiettore, gli rispose che vivevano tutte in quella luce lì. Secondo me è esattamente questa la magia che si crea quando si sta in sala.