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Luca Ottocento

La notte dei morti viventi: Romero e la nascita dell’horror socio-politico

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Era il 1968 quando uscì nei cinema statunitensi La notte dei morti viventi, il primo capitolo della celebre saga che portò sullo schermo le inquietudini dell’America della guerra in Vietnam e delle profonde fratture sociali. In Italia arrivò solo due anni più tardi, nell’estate di cinquant’anni fa.

Una delle saghe più importanti del cinema USA

Quella dei morti viventi di George Romero è una delle saghe più importanti della storia del cinema statunitense. Probabilmente la più coerente e solida per quanto riguarda lo statuto artistico, socio-antropologico e simbolico-metaforico. Da La notte dei morti viventi fino all’ultimo Survival of the Dead del 2009, passando per Zombie (1978), Il giorno degli zombi (1985), La terra dei morti viventi (2005) e Le cronache dei morti viventi (2007), ogni capitolo è essenziale e si differenzia per la proposizione di determinate tematiche e l’approfondimento della natura degli zombi, cadaveri che misteriosamente riprendono a vivere.

Non è mai dato sapere con certezza, in nessuno dei film, quale sia effettivamente la causa del ritorno alla vita dei morti. La scienza non è in grado di dare risposte certe e gli uomini, seguendo alla lettera l’espressione hobbesiana homo homini lupus, invece di aiutarsi vicendevolmente danno il più delle volte prova della loro innata tendenza all’egoismo, allo sfrenato individualismo, all’intolleranza e alla totale mancanza di lucida razionalità. Persino in situazioni di eccezionale emergenza, gli esseri umani non sono in grado di solidarizzare e di formare un fronte comune al fine della sopravvivenza della specie: è da questo punto focale che Romero irradia quel radicale pessimismo e quella totale sfiducia nei confronti dell’umanità che piuttosto esplicitamente sottendono tutta la saga dei morti viventi, al netto dell’inaspettata quanto efficace incursione nel registro comico-ironico di Survival of the Dead.

Il contesto sociale e politico

Romero gira La notte dei morti viventi nel 1967. Gli Stati Uniti sono un paese in pieno tumulto, le fratture sociali all’interno della popolazione americana sono profonde. Il conflitto bellico in Vietnam ha prodotto morte e devastazione e il movimento pacifista che si oppone alle atrocità e all’insensatezza della guerra è sempre più diffuso e strutturato. Il razzismo è molto radicato nonostante la nascita del Movimento per i diritti civili e nell’aprile del 1968 viene assassinato Martin Luther King, mentre sempre in questi anni riemergono gruppi violenti che si rifanno al Ku Klux Klan.

Il cineasta del Bronx riprende le tematiche degli zombi, già care a registi come Jacques Tourner (Ho camminato con uno zombie, 1943), ma modificandone l’impianto concettuale nelle fondamenta. Quello di Romero è infatti il primo audace tentativo cinematografico di costruire uno strutturato discorso socio-politico su un tema che, in precedenza, era stato visto soprattutto in contesti esotici e legati alla magia voodoo. L’idea iniziale deve molto, per stessa ammissione dell’autore, a Io sono leggenda di Richard Matheson (da cui poi nel 2007 è stato tratto l’omonimo blockbuster con protagonista Will Smith), un classico della letteratura fantastica del Novecento che narra di un mondo apocalittico in cui l’unico superstite a una misteriosa epidemia deve combattere gli altri abitanti del pianeta, trasformatisi tutti in vampiri.

la notte dei morti viventi
Un horror in bianco e nero

“La notte di morti viventi”, un horror atipico e innovativo

Girato in bianco e nero e con un budget di circa 114 mila dollari, il film rappresenta uno spartiacque essenziale nella storia del cinema horror. A partire dallo spaccato di banale quotidianità offerto dalla scena iniziale, Romero spazza via le convenzioni del genere con forza e convinzione sorprendenti.

Il film, ambientato quasi esclusivamente in una casa di campagna all’interno della quale i protagonisti cercano di difendersi dagli zombi, concede poco o nulla alle aspettative dello spettatore: Barbara, quella che sulla carta dovrebbe essere l’eroina, rimane perennemente in stato di shock; Ben, l’“eroe”, non solo è di colore, ma non prova alcuna attrazione per lei. Le altre coppie sono Harry e Helen Cooper, genitori di una giovane figlia che non si amano più (celebre è la caustica battuta della moglie al marito, che criticandolo per la decisione di chiudersi in cantina, gli dice: “Vivere insieme per noi non è una gioia, ma morire insieme non risolverà niente”) e due ragazzi, Tom e Judy, destinati ad una fine raccapricciante. Anziché cementare il gruppo, l’assedio fa emergere contrasti, debolezze, intolleranze. La violenza endemica e irrazionale scatenatasi all’esterno echeggia quella tutta umana che si consuma all’interno della casa e che culmina con il colpo di fucile con cui Ben ferisce Harry. Ed è proprio la scelta di Ben di restare al piano terreno invece di barricarsi in cantina che porterà i suoi compagni alla morte. Ben sarà quindi costretto a rifugiarsi in cantina, ma quando il mattino dopo uscirà dal nascondiglio, i soccorritori gli spareranno in fronte, scambiandolo per uno zombi: una conclusione beffarda che azzera ogni possibile happy ending o simbolica riconciliazione. La parabola dell’eroe, dunque, non è certo quella convenzionale, così come l’intero film si pone quanto più possibile al di fuori di ogni stereotipo.

La notte dei morti viventi getta un’ombra sinistra sull’America della fine degli anni Sessanta: la famiglia si è sgretolata (emblematicamente i Cooper vengono divorati dalla figlia trasformatasi in zombi), l’integrazione razziale è una mera utopia, la legge e l’ordine sono rappresentati da un gruppo di volontari che si fanno giustizia da soli, le immagini delle bande armate che pattugliano i campi, sparano e bruciano, evocano immediatamente lo spettro della guerra in Vietnam.

La regia e l’uso delle luci

Il primo capitolo della saga dei morti viventi è però anche un film molto interessante dal punto di vista registico e della messa in scena. La figura stilistica più ricorrente e significativa consiste nell’utilizzo sistematico della macchina da presa in posizioni più o meno oblique, nell’intento piuttosto esplicito di esprimere la precarietà della condizione dei protagonisti (e, di riflesso, di quella umana in generale) e il carattere inquietante e destabilizzante della assurda situazione in cui essi si trovano. Notevole è l’abilità nello sfruttare la povertà dei mezzi e in particolare il “ruvido” bianco e nero della pellicola: l’illuminazione sia negli interni che negli esterni ricorda l’espressionistico gioco di luci ed ombre di maestri quali Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari, 1919), Murnau e Lang. La macchina da presa è spesso fissa e quando si muove lo fa il più delle volte in modo “classico”, con la precisa finalità di seguire gli avvenimenti e i movimenti dei personaggi. Il meno assiduo ricorso alla macchina a mano o a rapidi zoom (non di rado legati ad un punto di vista soggettivo) serve invece a sottolineare momenti narrativi particolarmente forti sotto l’aspetto emotivo e ha lo scopo di stimolare l’identificazione dello spettatore con il protagonista dell’azione.

Colmo di potenti e ancora attuali metafore socio-politiche, La notte dei morti viventi ha cambiato per sempre la concezione dell’horror aprendolo a orizzonti ben più ampi (nello stesso anno per la fantascienza fece qualcosa di simile Kubrick con 2001: Odissea nello spazio) e, al contempo, rappresenta una essenziale lezione di regia, che nel corso dei decenni ha ispirato molti registi dell’horror e non solo.

Enrico Vanzina, il cinema secondo me

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Un’icona sotto il sole… di Riccione

Dalla sceneggiatura di Febbre da cavallo firmata per il padre Steno fino a quella di Sotto il sole di Riccione, in arrivo su Netflix dal 1° luglio, passando per cinepanettoni, commedie e incursioni in vari generi, Enrico Vanzina ha attraversato il cinema italiano degli ultimi quarant’anni.

Enrico Vanzina si racconta a Fabrique du Cinéma

Enrico Vanzina ha lavorato come sceneggiatore a oltre cento film e con il fratello Carlo, scomparso lo scorso anno, ha formato una coppia indissolubile tra le più prolifiche del cinema italiano contemporaneo. I Vanzina di solito vengono immediatamente associati ai cinepanettoni, termine da loro non amato che identifica il filone dei film di Natale cui hanno dato il via con Vacanze di Natale nel 1983, e ad alcuni grandi successi di pubblico divenuti dei veri e propri oggetti di culto popolare come Eccezzziunale… veramente e Sapore di mare. Figli di Steno, uno dei massimi esponenti della commedia all’italiana, Enrico e Carlo però in quattro decenni hanno spaziato anche al di là della commedia e, attraverso l’esperienza del padre, hanno conosciuto in profondità la produzione degli anni ’50 e ’60. Incontrare Enrico Vanzina, dunque, ci permette di parlare non solo dell’attività portata avanti con il fratello, ma anche del cinema italiano di ieri e di oggi.

Quello dei fratelli Vanzina è sempre stato un cinema orgogliosamente popolare, rivolto al grande pubblico. Come descriverebbe il vostro modo di intendere la settima arte?

Io e Carlo siamo cresciuti tra un gruppo di persone che nel dopoguerra ha inventato e codificato la commedia all’italiana. A casa, grazie a nostro padre, abbiamo avuto la fortuna di conoscere Monicelli, Risi, Age e Scarpelli, Scola, Comencini, Cecchi d’Amico. Ciò che poi abbiamo cercato di fare è proseguire nella direzione di quel tipo di cinema privo di moralismo caratterizzato da un’osservazione attenta, benevola e gentile della realtà, attraverso la quale era possibile raccontare in maniera buffa i difetti del nostro paese. Soprattutto a partire da Sapore di mare, abbiamo iniziato a capire che potevamo fare film che rimanessero nella scia della commedia all’italiana pur avendo una vena romantica molto forte e una tendenza più corale. Partendo dalla concezione del cinema come arte popolare e volendo attraverso di esso parlare dell’Italia, l’esigenza era quella di guardare a un pubblico che fosse il più trasversale possibile.

Spesso il cinema popolare viene contrapposto a quello d’autore. Cosa ne pensa?

Questa opposizione in realtà non ha senso di esistere. Si è sviluppata solo negli ultimi decenni, quando una deriva molto ideologica ha spinto una parte di giovani autori a rivolgersi esclusivamente a una nicchia, a un pubblico più da festival. A tutt’oggi il maggiore incasso della storia del cinema italiano rimane La dolce vita, film d’autore per eccellenza. Quando parliamo dei nostri autori più grandi come Fellini, De Sica, Visconti, Rosi e Petri, dobbiamo tenere presente che i loro lavori avevano un enorme impatto. Il vero cinema d’autore italiano, quello rimasto nella storia, è fondamentalmente popolare. La contrapposizione non veniva avvertita neppure dai diretti interessati: quando ero ragazzino, Antonioni usciva a cena con mio padre, Rosi con Corbucci, chi faceva il cinema popolare frequentava abitualmente chi faceva i film che vincevano i festival di Venezia o Cannes.

Come vede oggi il cinema italiano e che differenze trova rispetto a quello conosciuto da ragazzo e in cui poi si è mosso?

Dal mio punto di vista la grande difficoltà che vive attualmente il cinema italiano risiede nell’incapacità di offrire una testimonianza di quanto sta accadendo nel mondo giovanile, che tra l’altro dovrebbe costituire il traino maggiore per il successo di un film. L’ultimo giovane regista ad aver raccontato la propria generazione è stato il Gabriele Muccino di una quindicina di anni fa. L’unica gioventù a essere raccontata oggi sul grande schermo è un certo tipo di gioventù marginale che emerge da una serie di film minimali, spesso anche molto simili tra loro e generalmente ambientati nella periferia disagiata romana. Pur essendo prodotte in grande quantità perché ancora capaci di avere un qualche successo popolare, poi, le nostre commedie contemporanee sono spesso moraliste, ideologiche e politicamente corrette, agli antipodi della commedia all’italiana. Chi è rimasto un po’ attaccato a quel modo di immaginare il cinema, ripercorrendo per certi versi il modello incarnato da Totò del re degli ignoranti che guarda il mondo e lo svela con candore facendo ridere, è Checco Zalone.

Come funzionava e si articolava il rapporto di lavoro con tuo fratello Carlo?

Era molto più complesso rispetto a quanto emergeva dai titoli. Carlo si occupava della regia, ma io in diverse occasioni lo seguivo sul set, soprattutto quando facevo anche il produttore dei nostri film, e davo un contributo importante al montaggio, una fase in cui Carlo riconosceva la necessità di un distacco rispetto a quanto accaduto durante le riprese. Carlo poi, oltre a fare il regista, scriveva benissimo. In realtà, alla resa dei conti, facevamo quasi tutto insieme fin dalla nascita dell’idea del film, pur dedicandoci io più alla scrittura e lui alla regia.

C’è un film in particolare che avreste voluto realizzare?

Nel corso dei sessanta film fatti insieme, abbiamo avuto modo di lavorare a tanto di quello che avremmo voluto. Per quanto siamo rimasti nell’immaginario soprattutto per le nostre commedie, infatti, abbiamo realizzato diverse pellicole al di fuori di questo genere. Dopo i notevoli successi di Eccezzziunale… veramente, Sapore di mare e Vacanze di Natale, abbiamo acquisito un potere contrattuale che ci ha subito permesso di variare su altri temi e generi con thriller come Sotto il vestito niente e Mystère, melò come Via Montenapoleone, film storici come La partita con Matthew Modine e Faye Dunaway o film politici come Tre colonne in cronaca con Gian Maria Volonté. Una cosa però ci è rimasta sul gozzo: un nostro grande desiderio era quello di rivisitare lo spaghetti western e una decina di anni fa abbiamo avuto in mano l’ultimo bellissimo soggetto di Sergio Leone, Colt. Abbiamo scritto un progetto lungo e molto avanzato per farne un film, che alla fine non siamo riusciti a realizzare.

Il secondo decennio degli anni Duemila è ormai alle porte. Qual è il futuro di Enrico Vanzina?

Oggi sento di dover continuare a fare quello che in famiglia abbiamo sempre fatto tutti. Da quando Carlo se ne è andato ho scritto Natale a 5 stelle di Marco Risi e adesso ho da poco finito di lavorare come sceneggiatore e produttore esecutivo a Sotto il sole di Riccione, il film d’esordio del duo YouNuts! che è una specie di rivisitazione contemporanea di Sapore di mare. Per me si è trattato di un’esperienza stimolante perché mi ha permesso di lavorare con un gruppo molto giovane di persone di talento, cui spero di aver dato un valido contributo attraverso il mio bagaglio d’esperienza. Per il resto, continuo a scrivere tantissimo e probabilmente il prossimo anno debutterò come regista.

Coronavirus, l’impatto sul cinema italiano

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Quella che si sta delineando nelle ultime due settimane a causa dell’emergenza legata al nuovo coronavirus SARS-CoV-2 è una situazione davvero drammatica per il mondo del cinema italiano. Ancor prima dell’approvazione del decreto del 4 marzo da parte del governo che ha introdotto l’immediato divieto di ogni tipo di manifestazione ed evento pubblico o privato incapace di garantire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, infatti, moltissime sale avevano già cessato temporaneamente la propria attività (in particolar modo nelle regioni del Nord maggiormente colpite dall’epidemia, ma non solo) e diversi titoli in uscita erano stati rimandati a data da destinarsi. Anche le sale rimaste aperte, così, non potendo contare sull’usuale rinnovamento della programmazione, hanno riscontrato un netto calo di presenze e incassi.

Il mese di febbraio appena concluso è stato il peggiore degli ultimi 10 anni, con 42,5 milioni di euro di incasso in luogo dei 50,2 milioni dello scorso anno e un calo del 15,39%. Questo l’effetto del coronavirus sul cinema in poco più di una settimana, dal 21 febbraio (primo giorno in cui si è manifestata l’emergenza) al 29 febbraio, con il week-end del 27 febbraio-1° marzo che ha visto un – 75,62% di incassi rispetto a quello del 28 febbraio-3 marzo del 2019. In questi primi giorni di marzo, con il progressivo aumento del numero di contagi e il generale aggravarsi della situazione, i dati sono sempre più peggiorati, fino ad arrivare agli sconcertanti numeri di ieri, giovedì 5 marzo, primo giorno successivo all’attuazione del decreto: l’incasso totale in tutte le sale rimaste aperte (il numero degli schermi in funzione è passato in 24 ore da 2.395 a 1.946, contro i 3.893 del 2019) è stato di soli 105.203 euro, con un – 89,95% rispetto al primo giovedì di marzo dello scorso anno. Persino il confronto con il già difficilissimo giovedì della scorsa settimana segna un impietoso – 44.10%. Volevo nascondermi di Giorgio Diritti con protagonista Elio Germano, reduce dall’Orso d’argento di Berlino, si è posizionato al primo posto della classifica con 19.165 euro e i titoli della top 10 di ieri, tutti insieme, hanno portato in sala soli 13.428 spettatori sull’intero territorio nazionale.

Si tratta di numeri inediti e molto preoccupanti, inferiori persino a quelli che siamo abituati a vedere ad agosto e purtroppo destinati con ogni probabilità a peggiorare, vista la difficoltà di molti esercenti a rimanere aperti garantendo le misure previste dal decreto governativo. Se attualmente risultano attivi circa la metà degli schermi nazionali, è presumibile che nei prossimi giorni diversi altri cinema saranno costretti a chiudere, considerato anche che la scarsissima affluenza potrebbe verosimilmente non permettere di coprire i costi di gestione quotidiani. In una fase di incertezza così profonda legata al potenziale drammatico impatto dell’emergenza del coronavirus sulla tenuta del sistema sanitario e sullo stato di salute già precario della nostra economia, non ci resta davvero che sperare che la situazione possa tornare al più presto alla normalità. Per il nostro cinema (i dati che arrivano dal mondo dello spettacolo dal vivo sono persino peggiori), ma ancor prima per l’intero sistema Paese.

 

Festa del Cinema: L’agnello, la Sardegna ferita di Mario Piredda

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Bolognese di adozione – nella città emiliana ha studiato cinema e lavora ormai da due decenni – ma sardo di nascita, Mario Piredda ha sempre raccontato nelle sue storie la propria terra di origine. Già in due pluripremiati cortometraggi, infatti, il regista e sceneggiatore trentanovenne mostrava la provincia della Sardegna come una terra bellissima in cui domina la natura ma anche un profondo senso di isolamento, il dramma della disoccupazione e una mortificante mancanza di prospettive, soprattutto per i più giovani. Se in Io sono qui (2011) il protagonista era un ragazzo il cui unico sbocco consisteva nell’arruolamento nell’esercito, in A casa mia (2016, vincitore l’anno successivo del David di Donatello) ci si concentrava sul dramma di una famiglia costretta a vendere la casa di proprietà per provare ad andare avanti, nel contesto di una condizione economica assai precaria.

Ne L’agnelloopera prima presentata in concorso a Roma nella sezione Alice nella Città, Piredda sfrutta la forma del lungometraggio per affrontare ulteriormente e con maggiore organicità i temi già toccati nei corti sopracitati. Questa volta il personaggio principale è Anita, una diciassettenne che deve affrontare la malattia del padre Jacopo, affetto da una leucemia per cui sarebbe necessario quanto prima un trapianto. Per mantenere il padre, Anita lavora come donna delle pulizie in un albergo e, nel frattempo, prova a riallacciare i rapporti con lo zio Gaetano, che da anni ha rotto con il fratello Jacopo ma potrebbe costituire la sola concreta possibilità di salvezza per l’uomo, qualora risultasse compatibile alla donazione.

Sullo sfondo di una provincia povera e poco abitata situata nei pressi di una delle numerose basi militari presenti sul territorio sardo, il film narra con delicatezza, intimità e asciuttezza il dramma di un’adolescente costretta a battersi con tutte le forze nel tentativo di salvare il padre, probabilmente ammalatosi a causa dell’inquinamento dovuto alle attività militari. Nelle zone limitrofe a dove si svolgono sperimentazioni di nuove armi ed esercitazioni di guerra simulata, infatti, negli ultimi anni si è verificato un numero di casi di tumori preoccupante, oggetto di diverse inchieste giornalistiche.

L’esordiente Nora Stassi nei panni della protagonista è sorprendente per come riesce a rendere con notevole forza la determinazione, la vitalità e le inquietudini di Anita e Mario Piredda, oltre a un talento per messa in scena e scrittura (la sceneggiatura è opera sua insieme a Giovanni Galavotti), dimostra così di avere una indubbia abilità anche nella direzione degli attori. Dopo Filippo Meneghetti, autore dell’ottimo Deux di cui vi abbiamo parlato nella nostra recensione, dalla Festa del Cinema di Roma arriva la segnalazione di un altro regista italiano su cui ci sentiamo di puntare per il futuro.

Venezia 76: Martin Eden, Pietro Marcello affascina ma non rende giustizia a Jack London

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A quattro anni di distanza dal successo internazionale di critica di Bella e perduta (che vinse premi in numerosi festival in giro per il mondo, tra cui Locarno), Pietro Marcello torna con un progetto molto ambizioso: l’adattamento di uno dei più importanti romanzi dello scrittore statunitense Jack London, Martin Eden. Vista la natura anticonvenzionale e libera del suo cinema, da sempre refrattario alle standardizzazioni e difficilmente riducibile a qualsivoglia etichetta, l’attesa per questo nuovo film di finzione del quarantatreenne regista casertano era molto alta. E Marcello, anche in questo caso, si conferma un cineasta talentuoso dallo sguardo originale, che si pone fieramente al di fuori delle logiche dell’industria.

La nota storia del giovane marinaio dalle umili origini che per amore di una bella ragazza altoborghese decide di acculturarsi e lottare strenuamente per divenire uno scrittore di fama, viene trasposta dal regista e dal co-sceneggiatore Maurizio Braucci (già collaboratore di Marcello nel citato Bella e perduta) in una Napoli dove i riferimenti temporali non sono mai ben definiti e tendono a spaziare nel corso dei decenni del Novecento. Dalla California di inizio secolo scorso del romanzo, dunque, si passa a un capoluogo campano sospeso nel tempo. L’intento è quello di evidenziare come il testo di London, pubblicato integralmente per la prima volta nel 1909, abbia anticipato alcuni dei grandi temi che hanno segnato profondamente tutto il Novecento: la contrapposizione tra visione individualista e socialista del mondo, la prepotente affermazione della cultura di massa, la lotta di classe.

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A questo scopo, come del resto ci aveva già abituato in Bella e perduta, Pietro Marcello gioca in maniera intrigante con l’alternanza di riprese dal vivo e materiale d’archivio, rendendo così anche sul piano prettamente visivo il legame delle vicende narrate con quelle della Storia (il film si apre con alcune immagini dell’anarchico e scrittore italiano Errico Malatesta). Se questo stratagemma stilistico conduce a momenti molto stimolanti, in particolar modo sul piano strettamente formale (ogni singola inquadratura è una gioia per gli occhi di chi guarda), a deludere è l’assenza di una struttura drammaturgica sufficientemente forte e del necessario approfondimento dei complessi temi introdotti.

Nel suo libero adattamento del lavoro di London, Marcello decide di isolare solo pochi momenti-chiave del romanzo. In questo modo, però, diversi importanti passaggi narrativi risultato troppo veloci (ad esempio, la nascita in Martin Eden dell’ardente passione per la cultura e dell’interesse per la politica, le incomprensioni con la donna di cui si innamora a prima vista e con il marito della sorella) e alcuni rapporti tra i personaggi, fondamentali per lo sviluppo della storia, rimangono in superficie (su tutti, quello tra il protagonista e l’intellettuale Russ Brissenden).

Di conseguenza il film non si dimostra in grado di sfruttare il notevole potenziale drammatico e melodrammatico che risiede nella pagine dello scrittore statunitense e finisce anche per non stimolare un’adeguata riflessione sui nodali temi che vorrebbe mettere in risalto. Nonostante la rara eleganza formale, le buone prove di tutti gli attori principali (Luca Marinelli è una conferma, la giovane Jessica Cressy una piacevole sorpresa) e l’assai lodevole volontà di seguire sentieri poco battuti nel panorama cinematografico italiano, dunque, Martin Eden fallisce nel suo obiettivo primario: portare sul grande schermo la consistenza e l’acutezza dell’opera di Jack London. 

Venezia 76: Carlo Sironi convince con la sua opera prima Sole

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La maternità e l’analisi dei contesti sociali disagiati sono temi ricorrenti nella sinora ristretta filmografia di Carlo Sironi. Già nei cortometraggi Cargo (2012) e Valparaiso (2016), molto apprezzati nel circuito dei festival internazionali, il cineasta trentaseienne si era infatti concentrato su questi aspetti: nel primo venivano raccontate le vite di una prostituta ucraina incinta e di un ragazzino che la porta quotidianamente sulle strade della provincia romana; nel secondo, si mostravano le vicende di una donna in gravidanza rinchiusa in un centro di identificazione ed espulsione della capitale.

Presentato in concorso nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia e ben accolto dalla critica, Sole è incentrato sul rapporto che si instaura tra Ermanno (l’esordiente Claudio Segaluscio), un giovane privo di prospettive che passa le giornate tra slot machine e piccoli furti, e Lena (Sandra Drzymalska), una ragazza polacca giunta in Italia con l’intenzione di vendere la figlia che porta in grembo allo scopo di raggiungere la Germania e dare una svolta alla propria vita. Per soldi Ermanno accetta di fingersi il padre della bimba, così da rendere più semplice il successivo affidamento allo zio e alla moglie che non possono avere figli. Il ragazzo dovrà assistere Lena nella fase precedente il parto ma, quando i due impareranno a conoscersi, le cose inizieranno lentamente a cambiare.

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Girato in formato 4:3 facendo ricorso quasi esclusivamente a riprese con macchina fissa, l’esordio nel lungometraggio di Sironi è stilisticamente rigoroso e assai efficace nel rendere sul piano formale il sentimento di isolamento, spaesamento e inquietudine che domina i due protagonisti. Senza concedere nulla alla retorica o a banali edulcorazioni, Sole ci conduce con indubbia forza visiva in una periferia perlopiù indefinita (anche se il dialetto parlato è quello romano e il film è stato girato tra Roma e Nettuno) dalla quale non sembra esserci scampo e ha il notevole pregio di evitare tanto sentimentalismi quanto facili soluzioni. 

Nonostante il ritmo della narrazione risulti a tratti eccessivamente lento e la scarsità di dialoghi non permetta sempre di mettere adeguatamente a fuoco le dinamiche psicologiche che guidano i personaggi, Sole si rivela un’opera prima audace, asciutta e molto interessante che segnala la presenza di un futuro, potenziale nuovo autore nel panorama cinematografico italiano. Non è un caso, d’altronde, che il film nella sua fase di sviluppo sia stato ammesso ai laboratori creati nel contesto di alcuni dei principali festival cinematografici (la Résidence de la Cinéfondation di Cannes, il Sundance Mediterranean Lab, la Script Station della Berlinale e il TorinoFilmLab). Ne siamo certi, del romano Carlo Sironi sentiremo parlare ancora.

Venezia 76: Il sindaco del rione Sanità secondo Mario Martone

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Primo dei tre film italiani in concorso alla 76a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Il sindaco del rione Sanità segna il ritorno dietro la macchina da presa di Mario Martone a un solo anno di distanza dall’ultimo Capri-Revolution, presentato dodici mesi fa in anteprima mondiale proprio al Lido. L’idea di portare sul grande schermo la celebre commedia in tre atti del 1960 di Eduardo De Filippo, incentrata sulla figura di un potente boss intento a gestire il rione Sanità sostituendosi completamente allo Stato, è venuta al regista nel 2017 mentre lavorava all’adattamento teatrale portato in scena con successo al teatro NEST, nella periferia napoletana di San Giovanni a Teduccio. Gli attori sono in grandissima parte gli stessi dello spettacolo e così la realizzazione del film è stata insolitamente rapida, con le riprese che si sono svolte in sole quattro settimane.

Come ha spiegato oggi lo stesso Martone durante la conferenza stampa veneziana, l’intento era quello di proporre al cinema il lavoro teatrale di due anni fa rimanendo il più fedele possibile al testo di Eduardo, in un’ottica però di attualizzazione drammaturgica che trasportasse le vicende nella Napoli contemporanea: “Tutto è iniziato dall’intuizione del protagonista Francesco Di Leva di far interpretare il personaggio di Barracano da un uomo giovane, che rimandasse all’età dei boss di oggi, invece che da un anziano di 75 anni come nell’opera originale. Da qui, proprio come in una scacchiera, sono derivate tante altre mosse concatenate fra loro, che ci hanno portato a misurarci con il lavoro di Eduardo con grande fedeltà, anche sul piano della struttura in tre atti, ma al tempo stesso proponendo una reinvenzione in chiava odierna”.

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Dal film emergono con forza riflessioni su temi universali presenti nel testo di De Filippo, quali la centralità dei rapporti familiari, il senso del dovere e quello di colpa, la lealtà e il tradimento, così come ci si concentra sul sottile confine tra bene e male. Per Martone era molto importante rappresentare anche sul grande schermo “la Napoli perbene e la Napoli criminale, il muro che da sempre le divide così come la zona grigia che invece le fa convergere”. Da questo punto di vista, come ci ha tenuto a sottolineare lo stesso cineasta napoletano, è centrale il personaggio di Della Ragione, il fido dottore che aiuta il boss Antonio Barracano a gestire il potere: “Il ruolo di questo figlio di un professore dell’Università di Napoli, che non si sa perché viva con Barracano in una specie di rapporto pinteriano tra prigionia e amore, è fondamentale. Si tratta di un rapporto molto complesso e ambiguo che ha la funzione di stringere concretamente le due Napoli su cui riflette Eduardo. Dall’altra parte invece c’è il panettiere Arturo Santaniello, che è il vero antagonista di Barracano, colui che gli getta in faccia la sua onestà come a volerlo umiliare. Un gesto, questo, che porterà a una serie di conseguenze intricate e inattese”.

In sala come evento speciale distribuito da Nexo Digital solo dal 30 settembre al 2 ottobre prossimi, Il sindaco del rione Sanità può contare su un cast ben assortito e di alto livello (tra cui spiccano in particolare gli ottimi Francesco Di Leva/Antonio Barracano e Massimiliano Gallo/Arturo Santaniello) e riesce in un’impresa che sulla carta non era affatto semplice: restituire al cinema con buona efficacia la complessità e la profondità del lavoro di uno dei più grandi drammaturghi italiani del Novecento. Il cinema italiano in concorso a Venezia ha iniziato con il piede giusto.

Venezia 76: 5 è il numero perfetto, Igort e il suo esordio riuscito solo a metà

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Quello di Igort, al secolo Igor Tuveri, era uno degli esordi più attesi della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia apertasi ufficialmente ieri con la proiezione dell’intenso La vérité di Kore-eda. Dell’adattamento cinematografico del suo romanzo grafico più noto, 5 è il numero perfetto, se ne parlava difatti da più di un decennio. Inizialmente tra i produttori doveva figurare l’ex direttore del Festival di Venezia Marco Müller e dietro la macchina da presa nel corso degli anni si è pensato al regista romano classe 1955 Egidio Eronico e al cineasta cinese Johnnie To, con Igort che avrebbe dovuto partecipare solo in veste di sceneggiatore. Il progetto però ha preso definitivamente piede solo quando il nostro, in assoluto uno dei più celebri autori di fumetti e illustratori italiani a livello internazionale insieme a Lorenzo Mattotti (curioso come anche quest’ultimo abbia esordito nel lungometraggio con l’ottimo La famosa invasione degli orsi in Sicilia), ha accettato di curarne la regia.

Presentato in concorso alle Giornate degli Autori, 5 è il numero perfetto è un adattamento piuttosto fedele della pluripremiata graphic novel edita in Italia nel 2002 e poi pubblicata in numerosi paesi del mondo: siamo a Napoli nel 1972 e il vecchio guappo Peppino Lo Cicero (Toni Servillo), ritiratosi da tempo a vita privata, si trova costretto a tornare in azione per vendicare il figlio, giovane sicario ucciso durante una notte di lavoro in seguito al tradimento di un uomo di cui non si conosce l’identità. Per raggiungere il proprio scopo, Peppino coinvolge di nuovo il suo storico braccio destro, il temibile Totò ‘o Macellaio (Carlo Buccirosso), con il quale farà scorrere molto sangue per le vie del capoluogo campano alla ricerca della verità sulla morte dell’amato figlio.

5 è il numero perfetto

Fumettista, illustratore, saggista e musicista, con questo suo esordio dietro la macchina da presa Igort conferma la propria fama di artista poliedrico e, coadiuvato in primis dall’ottimo direttore della fotografia Nicolaj Brüel (Dogman) e dallo scenografo Nello Giorgetti, dimostra di avere anche una buona sensibilità sul piano dello sguardo cinematografico. Se dal punto di vista visivo il film risulta senz’altro affascinante con i numerosi riferimenti al cinema noir e nella ricostruzione di un’inedita Napoli cupa e piovosa, a convincere meno è lo sviluppo della storia e del rapporto tra i personaggi principali, il cui approfondimento psicologico rimane il più delle volte in superficie. Per quanto Igort avesse già esperienza in qualità di sceneggiatore cinematografico (negli ultimi anni ha co-sceneggiato L’accabadora di Enrico Pau e Last Summer di Leonardo Guerra Seràgnoli), infatti, è proprio lo script il punto debole della sua opera prima. 

Dopo una buona prima mezz’ora in cui vengono introdotti in maniera piuttosto intrigante vicenda e personaggi, il film non riesce a restituire ritmo e densità del romanzo grafico e, pur intrattenendo discretamente lo spettatore, si perde in alcune lungaggini e ridondanze di troppo (la stessa struttura divisa in cinque capitoli sul piano narrativo non risulta particolarmente efficace). Ad eccezione del protagonista ottimamente interpretato da Toni Servillo, gli altri personaggi sono troppo deboli sul piano della scrittura e diviene così difficile per chi guarda appassionarsi fino in fondo a quanto avviene sullo schermo. Sebbene 5 è il numero perfetto cerchi con coraggio di far dialogare i linguaggi del fumetto e del cinema, dunque, complessivamente non può considerarsi un’operazione del tutto riuscita. Davvero un peccato.

Guarda in alto: l’arte del sogno secondo Fulvio Risuleo

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Dopo i successi internazionali ottenuti grazie ai cortometraggi, Fulvio Risuleo esordisce nel cinema con Guarda in alto, un’opera incentrata sulle avventure oniriche di Teco, giovane fornaio che scopre un mondo bizzarro e fiabesco sui tetti di Roma.

 

Tra gli addetti ai lavori, di Fulvio Risuleo si parlava già da qualche anno come uno dei possibili nuovi talenti del cinema italiano. Il ventiseienne regista romano, infatti, con Lievito madre aveva vinto nel 2014 il terzo premio alla Cinéfondation del Festival di Cannes, sezione dedicata ai lavori provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo, mentre l’anno successivo, sempre nel contesto della kermesse francese, grazie a Varicella si era aggiudicato il premio per il miglior cortometraggio alla Semaine de la Critique.

Con il suo primo film Guarda in alto, presentato alla Festa del Cinema di Roma del 2017, il giovane autore formatosi al Centro Sperimentale torna alle atmosfere surreali che a diversi gradi caratterizzavano le sue opere brevi e conferma il proprio talento immaginifico, dimostrando già maturità dietro la macchina da presa. Cineasta, sceneggiatore ma anche fumettista, Fulvio ci ha parlato del suo originale esordio, così diverso rispetto a quanto solitamente offerto dal panorama cinematografico italiano.

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L’idea di ambientare il film in un mondo fantastico sui tetti di Roma è affascinante. Com’è nata?

Inizialmente volevo fare un film d’avventura ambientato a Roma, qualcosa di vicino a un road movie. Mentre stavo lavorando a questa idea, trovandomi su un tetto di un palazzo di Piazza Vittorio ho notato che i tetti circostanti erano collegati, o quantomeno molto vicini, e così ho immaginato di spostare tutti i personaggi a cui stavo pensando al di sopra della città. Mi sono subito reso conto che la cosa poteva funzionare e mi piaceva il fatto di rendere quello dei tetti un mondo dove tutto fosse possibile. Ho così coinvolto il co-sceneggiatore Andrea Sorini e insieme abbiamo ricercato un equilibrio sul piano narrativo. Per me era fondamentale che il film risultasse in qualche modo credibile e potesse essere accettato da un pubblico ampio, non solo dagli appassionati del genere fantastico.

Il protagonista si imbatte in diversi personaggi stravaganti, molto diversi tra loro ma accomunati dall’esigenza di trovare qualcosa di più eccitante della mera quotidianità. In un certo senso, il tuo mi sembra un film “politico” sulla necessità di sognare per vivere appieno la vita.

Dal mio punto di vista il film non ha significati particolarmente profondi, però il principale è proprio questo, suggerito in maniera esplicita dal titolo e da un personaggio verso la fine. È molto importante avere curiosità e volontà di esplorare contesti nuovi: se le cose si vanno a cercare, si vive meglio. Volevo che tutti i personaggi incontrati da Teco fossero come lui, cioè persone bloccate che sui tetti hanno trovato il luogo ideale per esprimersi. L’idea di un personaggio ipnotizzato poiché si sente inadatto, inadeguato rispetto alla vita, mi interessava molto. Ognuno di noi a tutte le età può avere un analogo momento di difficoltà, non si tratta semplicemente di una questione generazionale.

L’accompagnamento sonoro di Sun Araw è suggestivo. Come sei entrato in contatto con il musicista neo-psichedelico statunitense e che apporto cercavi dalla colonna sonora?

Per il film non volevo una tradizionale musica cinematografica di commento. Non mi interessava quella musica un po’ subdola che non capisci mai se c’è o non c’è: l’intenzione era di sottolineare con forza solo alcuni specifici momenti dell’azione, affidandomi a composizioni originali che creassero un contrasto interessante con le immagini. Per ottenere questo risultato ho cercato su internet vari artisti e mi sono così imbattuto in Sun Araw. Quando ci siamo incontrati ci siamo capiti subito e sono stato fortunato perché, oltre a essere un musicista bravissimo, è una persona sensibile con cui sono entrato in contatto facilmente. Il molto materiale da lui prodotto per il film, in gran parte non presente nel montaggio finale, verrà pubblicato in un album.

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L’opera prima è interessante anche dal punto di vista stilistico. Che tipo di approccio hai avuto alla regia?

L’idea era di puntare su un registro realistico per creare una sorta di contrappunto rispetto alla natura fiabesca della storia. Non volevo che le bizzarrie del film venissero sottolineate da una messa in scena troppo appariscente. Mi piace molto quando si crea questo cortocircuito, come accade ad esempio nella letteratura fantastica, dove spesso la scrittura è realistica mentre gli elementi narrati sono surreali. Fin dall’inizio, quindi, volevo girare ricorrendo a qualche piano-sequenza ma soprattutto a inquadrature molto lunghe e larghe. Abbiamo usato spesso grandangoli per poter stare un po’ in disparte, lontani dall’azione, e riprendere tutto senza dover seguire un personaggio o un altro. È stata dunque una regia più descrittiva della totalità dei personaggi: non a caso, i primi piani sono abbastanza pochi e hanno lo scopo di evidenziare particolari sensazioni dei personaggi, come accade nella seconda parte con Teco e Stella e nel finale con il muto e la bambina.

Per le atmosfere che evoca e per l’inventiva immaginifica, Guarda in alto a tratti mi ha ricordato il cinema di Michel Gondry e Spike Jonze. Quali sono state le tue ispirazioni?

Gondry e Jonze sono due dei registi che preferisco in assoluto e quindi penso che tanto i loro lavori brevi quanto quelli lunghi mi abbiano condizionato. In generale, la scuola di quei registi degli anni novanta che venivano dal mondo dei videoclip e della pubblicità, di cui fanno parte anche Jonathan Glazer e Chris Cunningham, mi ha sempre affascinato. Magari i loro lavori non saranno sempre completamente riusciti, ma mi ispirano perché trasmettono la voglia di uscire un po’ dagli schemi muovendosi con maggiore libertà e sperimentando con più linguaggi. Per questo film però i punti di riferimento sono soprattutto legati al mondo del fumetto, una mia grande passione. Anche se la storia di Guarda in alto è pensata in maniera indipendente e non è direttamente legata a nulla in particolare, dovendo fare un film d’avventura con un protagonista giovane che vaga in una Roma un po’ strana ho pensato molto ai fumetti di Tin Tin, mentre per quanto riguarda opere più contemporanee una fonte di ispirazione è stata Black Hole di Charles Burns.

Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?

Sto scrivendo un nuovo film che vorrei concludere in tempi brevi, perché la sceneggiatura ce l’ho in testa da tempo. Si tratta di un giallo che ruota attorno a un bulldog francese, con due storie molto diverse che vengono unite dal cane e dei personaggi che si improvvisano investigatori. Nel frattempo ho finito un fumetto per cui sono in cerca di un editore, che si muove un po’ sulla stessa lunghezza d’onda del mio primo Pixel, tra il demenziale e il filosofico.

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Drive Me Home: in esclusiva la prima clip in anteprima

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In esclusiva assoluta per «Fabrique du Cinéma» la prima delle tre clip che anticipano Drive Me Home, il film d’esordio di Simone Catania interpretato da Vinicio Marchioni e un sorprendente Marco D’Amore, in sala a fine 2018.

Il trentottenne Simone Catania, fondatore della casa di produzione indipendente Indyca (Ibrahimovic – Diventare leggenda e Happy Winter, presentato fuori concorso a Venezia nel 2017), ha scritto il suo primo film con Fabio Natale, un on the road girato fra Nord Europa e Sicilia.

Le clip, che contengono scene inedite e costituiscono una sorta di prequel del film, sviluppano l’idea avviata con il cliccatissimo videoclip della canzone Così sbagliato, presente nella colonna del film e interpretata da Le Vibrazioni.

«Con le clip in qualche modo il film inizia sul web e il pubblico può già capire il mood della pellicola, che comunque è autonoma sul piano narrativo» spiega Catania.

Drive Me Home parla di due uomini, in passato amici molto stretti, che non si vedono da quindici anni poiché qualcosa ha portato alla rottura del loro rapporto e inizia con uno dei due, Antonio (Marchioni), che ritrova l’altro, Agostino (D’Amore), camionista dall’anima inquieta, alla guida di un fiammante truck che percorre l’Europa da nord a sud.

Trovate l’intervista completa a Simone Catania e Francesco Sarcina de Le Vibrazioni sul nuovo numero di Fabrique, distribuito in esclusiva alla 75 Mostra del Cinema di Venezia e poi nelle sale di Roma, Milano, Torino, Bergamo, Bologna, Firenze, Pisa.