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Giulia Carlei

RBSN: la musica si fa per amore, non per soldi o fama

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Classe ’96, Alessandro Rebesani aka RBSN è un giovane e talentuoso compositore, produttore e musicista italiano. La sua strada si è intrecciata con quella di Fabrique nel luglio di questo anno, in occasione dell’evento estivo della rivista, dove Alessandro ha accompagnato la serata con le sue canzoni che fondono psichedelia, jazz, folk ed elettronica. Le sue esperienze accademiche iniziano a Roma con lo studio della chitarra, continuano nel 2015 al Berklee College of Music di Boston e poi nel 2018 al College of Music di Leeds. Dopo anni di esperienze internazionali accanto a importanti nomi europei, RBSN approda a Ropeadope, etichetta statunitense per cui ha pubblicato a maggio il nuovo singolo, Stranger Days, tratto dall’album omonimo da poco disponibile sulle piattaforme.

Quando hai capito che volevi fare della musica il tuo lavoro?

Il momento di svolta per il passaggio da musica-passione a musica-lavoro è stato il supporto dello studio di Trastevere Pyramid e del produttore Luca Gaudenzi. Con lui ho realizzato un EP che ha fatto sì che cominciassi a lavorare con il mio nome, i miei brani, il mio entourage. Da quel momento si sono aggiunte tutte le altre persone con cui ora collaboro. Se poi ti dovessi dire cosa mi ha fatto realmente capire di voler fare musica “da grande”, allora ti dico guardare School of Rock a 9 anni. Mi sono detto: “Sì, voglio fare questo!”.

Studi prima a Roma, poi negli USA e infine in UK. Che differenza hai notato tra le diverse concezioni di musica di questi tre paesi?

C’è sicuramente un modo diverso di vivere la musica. In USA e UK la musica è a ogni angolo, ed è anche un po’ più libera da scopi commerciali e modaioli. Chi fa musica lì non lo fa per farsi un nome o per guadagnare, ma per creare un ambiente sano e godibile da tutti. Quando penso all’Inghilterra, penso agli eventi di South London, dove ti scannerizzano il passaporto, ti tolgono il telefono e stai lì a ballare e ad ascoltare generi diversi per ore. In Italia invece gli eventi di ogni tipo, dai concerti alle degustazioni di vini, sono ancora troppo volti al networking e al chit-chatting. Non si guarda mai l’oggetto che in teoria è protagonista dell’occasione, ma si è sempre alla ricerca di qualcuno di nuovo da conoscere. E la fruizione di contenuti artistici di qualsiasi forma è ancora un po’ elitaria, mentre in altri paesi si abbassano i prezzi per far sì che tutti riescano ad accedervi.

RBSNLa musica è parte essenziale del cinema: hai mai lavorato all’interno di un progetto audiovisivo?

Sì, mi è capitato più volte e in varie forme. Qualche tempo fa mi è successo di lavorare, sia come attore che come musicista, al cortometraggio Trittico, diretto da Flaminia Mereu e Filiberto Signorello, con Federico Majorana e Francesco Centorame. Lì ho capito che la musica all’interno di un film è un elemento centrale per stimolare l’emozione del pubblico. Sono cambiati i tempi degli Henry Mancini o Ennio Morricone che scrivevano pezzi incredibili che funzionavano benissimo anche da soli. Oggi c’è un sound design che amplifica la dialettica del film e non è un extra-layer, ma più un within.  

C’è un film che secondo te non potrebbe esistere senza la colonna sonora?

Un esempio di brano che aumenta la suggestione già presente nella scena è The Wolves dei Bon Iver in Come un tuono. Il brano non è stato scritto per il film, ma c’è un’ottima comunicazione tra il pezzo e la scena, che la rende ancora più suggestiva. Se invece devo pensare a film in cui il soundtrack è qualcosa di totalmente intessuto alle immagini, mi vengono in mente due lungometraggi molto diversi, ma che usano la colonna sonora in modo simile. Il primo è Dune di Denis Villeneuve, dove Hans Zimmer con la sua tecnologia avanzatissima ha creato frequenze molto basse, di 45htz, che fanno vibrare fisicamente. Il secondo è Capri-Revolution di Mario Martone, dove le musiche di Apparat quasi non si distinguono dai rumori naturali delle scene. Grazie all’uso di sintetizzatori e macchine super moderne, il compositore riesce a dare un’impronta melodica a suoni assolutamente naturali, come il fruscio delle foglie o i rumori prodotti dagli uomini. 

Con la pandemia abbiamo attraversato un momento in cui l’arte si è dovuta fermare. Come hai trascorso questo periodo di chiusura?

All’inizio del 2020 ero un ragazzo che veniva da un anno molto prolifico, da tanti successi e dal primo tour europeo. Mi sono rifugiato nello studio e nella scrittura, ho metabolizzato le esperienze vissute. Ho inoltre rimodulato la band, inserendo quello che ora è uno dei pilastri del progetto RBSN, il batterista Federico Romeo. Ti posso dire che la pandemia mi ha dato modo di capire come crescere e sicuramente mi ha aiutato a farlo! Perché firmare con una super distribuzione statunitense da Roma, fare un disco a Trastevere che viene masterizzato a Berlino e mandato a New York è un giro molto figo…

E ora che si può ricominciare, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Il nuovo disco è appena uscito su tutti i dispositivi digitali e sarà su Bandcamp, se uno vorrà ordinarsi un vinile. Su Roma ci sarà un delivery a mano fatto dal sottoscritto!

Mi fai il nome di una persona per te importante sotto il profilo artistico?

Ci sono molte figure che mi hanno guidato. Però, se dovessi sceglierne una, ti direi l’artista statunitense Nick Hakim: il suo è un suono nuovissimo per un mondo super post-moderno. Hakim mi piace anche perché è simile a noi, è uno che mentre componeva il suo primo album, Green Twins (2017, ATO Records), faceva le consegne a domicilio.

Federico Demattè e il suo Inchei, che “in rumeno significa finire”

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Adolescenza: quel periodo della vita in cui solo i nostri coetanei sembrano comprenderci. Cosa succederebbe se in una fase così delicata fossimo costretti ad allontanarci proprio da loro? Tenta di dare una risposta a questa domanda Inchei, cortometraggio di esordio di Federico Demattè, vincitore come Miglior Short Film e Miglior Regia alla Settimana Internazionale della critica nell’ambito del Festival di Venezia 2021. La motivazione della giuria recita: «per la narrazione libera da ogni sovrastruttura che permette ai protagonisti di essere completamente credibili».

“Inchei” è una parola rumena che significa “finire”. Il film racconta di Armando, ragazzo rom di 15 anni che vive con la madre e i fratelli tra le baracche della periferia di Milano Est; nel pieno della sua adolescenza è costretto a lasciare amici e amori per partire con la famiglia alla volta di Berlino, dove il nuovo compagno della madre è riuscito a trovare un lavoro. Federico Demattè nasce a Trento nel ’96, si sposta nel 2016 a Berlino, poi a Londra e dopo tre anni torna in Italia pubblicando il romanzo Jennifer salta giù. Attualmente frequenta l’Accademia Naba a Milano.

Il tuo arrivo nel mondo del cinema avviene con un film che parla di addii: perché questa scelta?

La partenza è un tema che mi ha da sempre affascinato. Paradossalmente ho sempre iniziato i miei lavori parlando di momenti finali, addii: quando suonavo in una band musicale, il primo EP parlava della nostra partenza da Trento e il mio primo romanzo raccontava di quella per Berlino. È un tema che torna spesso nel mio lavoro: forse è la mia tendenza a farmi affascinare dalla nostalgia e dalla malinconia, sentimenti che mi suggeriscono tante sfumature narrative ed estetiche.

Come hai conosciuto Armando e perché hai scelto proprio la sua storia?

Prima di conoscere Armando avevo già scritto la sceneggiatura del corto, volevo parlare della partenza di un ragazzo rom. Armando mi è stato consigliato da un’assistente sociale per la sua situazione insolita: la sua famiglia, rom, aveva deciso di staccarsi dai campi nomadi e di vivere in una sorta di ibrido, una vita nelle baracche piena però di conoscenze e frequentazioni milanesi. Di Armando mi ha colpito subito la dolcezza, è un ragazzo molto sensibile e di grande empatia. E dal punto di vista “antropologico” è stato naturalmente molto interessante osservare il suo essere rom e al contempo adolescente milanese al 100%.

Inchei
Armando Barosanu in “Inchei”.

Con Inchei hai vinto il premio come miglior regia per «la capacità di entrare in intimità con i personaggi e gli ambienti». Come ci sei riuscito?

In molti hanno pensato che le scene che mostro nel cortometraggio fossero state “spiate”, mentre in realtà scaturiscono dall’intimità che io e gli attori abbiamo costruito insieme. Si è creata una grande vicinanza fra noi della troupe e i ragazzi e questo anche grazie al fatto che per mesi ci siamo visti e abbiamo progettato insieme battute e scene. Alla fine osservavo la compagnia di amici di Armando e, sempre per riprendere il discorso della nostalgia, mi sembrava di rivedere la mia vecchia comitiva di amici sedicenni di Trento.

Come è andata con la famiglia di Armando?

Inserirmi all’interno della famiglia è stato più complesso. La sintonia con i ragazzi è avvenuta in maniera più naturale, mentre con la madre di Armando all’inizio non nego che ero in imbarazzo. Ero frenato da scrupoli morali, non ero sicuro che fosse realmente giusto entrare così dentro le loro faccende personali. Gradualmente però ci siamo avvicinati gli uni agli altri e alla fine ciò che era nato come un “mio” progetto è diventato un obiettivo condiviso. Si è creata una sorta di simbiosi di sogni.

Nasci a Trento, nel 2016 ti  sposti a Berlino, poi a Londra e infine a Milano. A differenza di Armando tu non sembri temere cambiamenti e addii.

Ricerco in continuazione il cambiamento e contemporaneamente ne ho paura, ma mi consola il fatto che novità e futuro alla fine terrorizzano un po’ tutti. Sono un carattere fragile, sensibile e sempre indeciso ma sento di avere dei sogni così grandi che non posso contenerli. Quando si tratta di seguire questi sogni metto la paura da parte, anzi la uso proprio come fosse un mezzo per raggiungerli

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Daphne Di Cinto, da Bridgerton a Il Moro

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Best Italian Short Film agli ultimi Fabrique Awards, Daphne Di Cinto con il suo cortometraggio Il Moro sfrutta un evento storico per parlarci di un problema tutt’altro che superato. 1530, Firenze: Alessandro de Medici, figlio di una serva di origini more e di Papa Clemente VII, si trova a elaborare la sua diversità quando il padre gli affida il comando di Firenze e lo rende il primo afro-italiano a capo di un governo occidentale nell’Europa moderna. Per raccontare una grande storia, Daphne ha scelto un cast composto sia da nuove scoperte che da attori affermati: Alberto Malanchino nel ruolo di Alessandro de’ Medici, Paolo Sassanelli nei panni di Clemente VII e Andrea Melis come Ippolito de’ Medici.

Daphne Di Cinto però non è solo una regista esordiente: da quasi vent’anni lavora come attrice per il teatro, il cinema e la televisione, prendendo parte a grandi progetti come il cult Netflix Bridgerton e facendo la spola fra l’Italia e Londra, dove vive. Non è stato facile “bloccarla” per una chiacchierata davanti a un caffè…

Sei un’attrice, sceneggiatrice, regista e attivista: tu come ti definiresti?

Se mi dovessi definire con una frase ti direi “Daphne è out of the box”. Sono una persona che cerca sempre di andare oltre la comfort zone. Se c’è qualcosa che non so fare studio, imparo e poi lo faccio. Penso che la paura del “non lo so fare” sia presente in maniera particolare nel mondo del cinema perché non c’è una strada univoca, non esiste un percorso lineare. Io invece mi butto, anche perché impari a nuotare solo nuotando, non studiando teoria.

Daphne Di Cinto
Daphne Di Cinto premiata ai Fabrique du Cinéma Awards per Best Italian Short Film con “Il Moro”.

Con Il Moro infatti debutti nel ruolo di regista, vuoi raccontarci l’esperienza sul set?

È stato fantastico: si è creata tra noi una dinamica molto amichevole, un gruppo super affiatato e alla fine del set ci sentivamo come una piccola famiglia. Il tempo era pochissimo, quattro giorni, non avevamo un gran budget (ride), ma c’era un fluire creativo, abbiamo trovato lo spazio per una produzione condivisa e per ascoltare i diversi punti di vista, al di là della sceneggiatura.

I tre attori principali del tuo corto sono Alberto Boubakar Malanchino, Paolo Sassanelli e Andrea Melis: tre figure maschili molto forti ma molto diverse in termini di esperienza.

Alberto e Andrea guardavano Paolo come un maestro. Ha quella sicurezza che ti dà l’esperienza: sa che non deve fare troppo e che tutto deve essere interiore e misurato ma molto potente. Quando recitavano tutti e tre insieme giocavano veramente l’uno per l’altro, nulla li divideva.

Nonostante Il Moro sia uno short-movie storico, i temi che tratta sono molto attuali…

Quando ho studiato la vicenda di Alessandro de’ Medici mi è sembrata di un’analogia eclatante con la realtà e con il mondo di oggi. Forse con l’Italia in particolare, perché è una storia italiana che non si conosce e che dice così tanto del nostro paese. Soprattutto mi lascia sgomenta che, nonostante storie come quella di Alessandro, in Italia c’è ancora chi ha dei dubbi sullo ius soli. Mi verrebbe da chiedergli: “Ma se cinquecento anni fa il primo duca di Firenze era mixed-race, qual è il problema oggi?”.

Ci comunichi un messaggio di speranza senza tempo…

Era il mio scopo. La storia di Alessandro è una bellissima metafora per ogni italiano di seconda generazione e per tante persone che partono da condizioni non privilegiate ma possono riuscire a diventare il “duca di Firenze”! Vedendoci rappresentati non solo come gli “schiavi” ma come aristocratici ci aiuta a cambiare la percezione di noi stessi, è qualcosa di cui andare fieri. L’ideale sarebbe arrivare al giorno in cui non dovremo più fare conversazioni come questa, quando potremo scrivere film che non si incentrano sulla persona “diversa” e dove tutti i problemi girano solo intorno all’essere parte di una minoranza. Quando inizieremo a pensare così, tutti gli stereotipi spariranno, perché io mi riconoscerò in te e tu ti riconoscerai in me.

Paolo Sassanelli
Paolo Sassanelli è Clemente VII ne “Il Moro”.

C’è una persona che ti ha particolarmente incoraggiata nel perseguire questa carriera?

La prima è stata la professoressa di letteratura del mio paesello al Nord. La mia classe era particolarmente irrequieta e lei ci portava a studiare nel teatro della scuola, il primo che avessi mai visto. Ho sempre avuto un amore smodato per le storie, sia per la scrittura che per la lettura: ero la classica bambina strana che stava nell’angolo a leggere un libro mentre tutti gli altri giocavano a palla.  Lei mi ha fatto capire che il teatro poteva essere un’opportunità. Dopo di lei è arrivata un’altra “maestra”: studiavo alla Sorbona a Parigi e avevo una vicina di casa che salutavo sempre. Un giorno abbiamo iniziato a parlare e ho scoperto che era uno dei direttori artistici dell’Actors Studio di New York. Tramite lei ho fatto il provino e sono stata ammessa: lei è diventata una dei miei mentori all’Actors Studio, nonché un’amica.

Come mai il passaggio a Londra?

Dopo cinque anni e mezzo a New York mi mancava l’Europa, girare per una città e vedere la Storia. New York è una città così nuova che il pezzo di storia più antico probabilmente è Ellis Island! Quando ho pensato di tornare in Europa, Londra mi è sembrata l’ideale perché è a cavallo tra il vecchio e il nuovo mondo e in effetti sono molto contenta della mia scelta.

Nel 2019 reciti nella famosa serie Netflix Bridgerton. Questo lavoro internazionale ha influenzato in qualche modo la tua carriera da regista? 

La cosa fantastica di quel set era la professionalità incredibile e la grande collaborazione.
Era veramente una macchina da guerra, nel senso più positivo del termine, quindi sul mio set ho cercato di trasferire quello spirito: il massimo della professionalità e dell’impegno fino a raggiungere lo scopo ultimo. Bridgerton è stato inoltre un traguardo speciale perché la produttrice Shonda Rhimes è uno dei miei idoli.

Progetti futuri?

Tantissimi! Dato che sono un po’ una nerd per quanto riguarda la Storia, sto continuando un percorso incentrato su personaggi storici. Inoltre sto lavorando a una serie ambientata nell’Italia contemporanea, quindi tornerò qui spesso! A me questo paese manca tantissimo e se non fosse per il lavoro tornerei qui.

Giulio Pranno, magnetico e multiforme

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Il suo esordio al cinema è stato sotto la guida di Gabriele Salvatores in Tutto il mio folle amore nel 2019: un ruolo complesso e delicato, ma l’interpretazione di Giulio lo porta a conquistare critica, pubblico e il regista stesso. «Con Gabriele è stato amore a prima vista», dice Giulio Pranno, ed è proprio da questo amore che nasce una seconda collaborazione nel 2021 per Comedians. Nel 2020 Pranno ottiene un ruolo da coprotagonista in Security di Peter Chelsom e lo vedremo fra poco nei cinema in La scuola cattolica diretto da Stefano Mordini, con Benedetta Porcaroli.

Ti avvicini alla recitazione nel 2012 con un corso di teatro a Roma. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta e che ricordi hai di quegli anni?

È stato mio padre a consigliarmi di iscrivermi al corso di teatro in un momento per me abbastanza difficile. Ero chiuso, non uscivo di casa e non frequentavo molte persone. All’inizio ero titubante, poi mi sono fidato di lui e ne è valsa la pena. Il momento in cui ho capito veramente che quella della recitazione era la mia strada è stato il giorno in cui ho interpretato il personaggio di Puck in Sogno di una notte di mezza estate. In quell’occasione improvvisato e mi sono preso il mio primo applauso a scena aperta. Consiglio a tutti un’esperienza in teatro, è un’arte che porta a galla tante cose profonde e aiuta nella vita, a prescindere che si abbia o no un interesse specifico nella recitazione.

In Tutto il mio folle amore interpreti Vincent Manzato, un sedicenne affetto da autismo. In che modo hai studiato il personaggio?

Per il provino mi sono preparato con un insegnante di teatro che mi ha suggerito delle idee molto forti che sono state utili. Poi a Roma ho frequentato alcune comunità di ragazzi con sindrome dello spettro autistico. Sicuramente però la cosa che mi è stata più utile è stato il contatto diretto con Andrea [Andrea Antonello, a cui è ispirato il personaggio di Vincent]. È una personalità pazzesca, quando l’ho conosciuto ha affascinato me come tutti quelli che gli stanno attorno, è davvero magnetico. Ho da subito desiderato che Vincent facesse lo stesso effetto, che fosse un catalizzatore di emozioni esattamente come lo è Andrea. Ho rubato molti modi di fare da lui: ad esempio si metteva lo zaino sotto l’ascella e poi alzava le mani facendolo cadere. La cosa mi ha colpito a tal punto che con Salvatores abbiamo deciso di far compiere al mio personaggio la stessa azione anche se con un bastone. Sono estremamente grato sia ad Andrea che alla sua famiglia. Ho dormito in casa loro per due giorni ed è stata un’esperienza incredibile. Per me era fondamentale rendere giustizia a una persona così bella.

E Andrea ha apprezzato?

Dopo aver visto il film mi ha mandato il messaggio più bello che potessi desiderare: «Giulio, sei un vero autistico!». Lo conservo tutt’ora e lo rileggo spesso. Quando siamo andati assieme a presentare il film alla Mostra del Cinema di Venezia, Andrea è stato molto felice e, nonostante non fosse capace di esprimerlo a parole, la sua gioia era evidente.

Quest’anno ti abbiamo visto diretto di nuovo da Salvatores in Comedians, dove interpreti un giovane aspirante comico con una vena inquietante, quasi sadica. C’è un film o un personaggio a cui ti sei ispirato?

È stato un personaggio molto complesso, una vera sfida. Non mi sono ispirato a qualcuno in particolare, ma Gabriele mi ha consigliato di vedere il film sul comico Lenny Bruce [Lenny di Bob Fosse con Dustin Hoffman, 1974], un capolavoro. Abbiamo fatto settimane di prove e abbiamo costruito un personaggio molto sfaccettato, che spero venga capito. Salvatores è un grande nel dirigere gli attori e ha una tecnica che mi piace moltissimo, da vero paraculo… Apparentemente ti lascia carta bianca, ma alla fine del film ti rendi conto che hai fatto esattamente ciò che lui desiderava!

Nel 2020 Security di Peter Chelsom, nei panni di Dario, un ragazzo coinvolto in vicende di violenza a Forte dei Marmi. Come è stato essere diretto da un regista britannico?

Inizio confessandoti che non so parlare inglese [ride]. La storia di come sono arrivato a far parte di questo film è assurda. Ero in treno e ho incontrato casualmente il produttore del film, chiacchieriamo un po’ e mi dice che Chelsom sta lavorando a un progetto dove c’è un personaggio perfetto per me. Mi convinco e vado per conoscere il regista, sicuro di dover fare un provino, ma in realtà mi sono ritrovato con Peter che, semplicemente guardandomi, mi dice: «Per me sei tu che devi fare questo film». Sono rimasto senza parole. Chelsom è un ottimo regista che ha lavorato con grandissimi attori, essere diretto da lui è stata un’esperienza molto formativa. L’unica vera difficoltà è stato il tempo, avevamo poco più di cinque settimane e abbiamo praticamente fatto tutte le scene con un solo take. Non è stato facilissimo, a volte mi sarei voluto concentrare di più sul mio personaggio, però sicuramente è stato costruttivo e divertente.

Ti abbiamo visto a Venezia 78 in La scuola cattolica di Stefano Mordini, sull’ambiente borghese che ha reso possibile il massacro del Circeo. Puoi parlarci del tuo personaggio?

Avevo fatto il provino per un altro personaggio, ma secondo Stefano non ero adatto. Non ti nego che all’inizio ci sono rimasto piuttosto male perché il film mi interessava molto e l’idea mi sembrava bella. Dopo un po’ di tempo però mi arriva una chiamata: un altro attore non poteva più partecipare e Stefano chiedeva la mia disponibilità. Ho accettato di corsa, tempo 24 ore ed ero felice sul set. Con Mordini mi sono trovato bene, è sempre molto sicuro e schietto, mi piace.

Veniamo al video di Un’altra dimensione dei Måneskin nel 2019. Grandi, fuori dalle regole, un successo internazionale. Come li hai conosciuti e che rapporto hai con loro? 

I Måneskin sono dei miei cari amici, con Damiano ero compagno di liceo e abbiamo sempre fatto parte dello stesso gruppo. Ci frequentiamo e ci vediamo tutt’ora. Il video è stata una sua proposta. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto: «Io cerco un attore e tu sei attore, ci conosciamo bene e la pensiamo allo stesso modo, perché non lo facciamo insieme questo video?». È stato un giorno di riprese veramente figo, con gli YouNuts alla regia, che hanno sempre girato grandi videoclip.

Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, chi sceglieresti?

Una persona che stimo molto e con cui vorrei prendermi un caffè è Francesco Bruni. Ho iniziato da poco a seguirlo su Instagram e ho scoperto che, oltre ad avere un grande talento, ha anche un grande umorismo e penso che mi divertirei molto a prendere un caffè con lui, scambiandoci qualche idea o qualche pensiero buffo.

Fotografa: ROBERTA KRASNIG, Assistenti fotografa: LAURA AURIZZI ELISA MALLAMACI, Stylist: STEFANIA SCIORTINO, Abiti: Gucci, Capelli: ADRIANO COCCIARELLI@HARUMI / GIADA UDOVISI@HARUMI , Prodotti per capelli: BODY E SUN SCHWARZKOPF PROFESSIONAL, Trucco: ILARIA DI LAURO@ IDLMAKEUP

La tecnica, ovvero come conquistare la tua prima ragazza

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La tecnica è un cortometraggio di formazione co-diretto da Clemente de Muro e Davide Mardegan, alias CRIC. Vincitore del Cortinametraggio 2021, il film ha anche concorso al Torino Film Festival 2020 e al Leeds Film Festival.

Protagonista della vicenda è Leo, adolescente insicuro e un po’ goffo, figlio di pastori della campagna toscana. Un giorno conosce Cesare, un turista coetaneo più determinato che insegnerà a Leo “la tecnica” per conquistare la ragazza che ama e lo supporterà nella ricerca della fiducia in sé, aiutandolo a superare l’imbarazzo della prima volta (qui il trailer).

Emozioni e insicurezze intensificate dal paesaggio reale e semplice di Larderello, paesino toscano nella provincia di Pisa. Un’autenticità sottolineata ancor di più da un dialetto evidente, un toscano informale e genuino, e da un cast composto dagli abitanti di Larderello alle prese con una videocamera per la prima volta. Un corto “senza tempo” che racconta la più pura delle vicende senza fronzoli né orpelli, ma con la semplicità e la naturalezza della più bella delle cose: il primo amore.

Clemente De Muro e Davide Mardegan, vi firmate come duo con il nome d’arte CRIC: come è nata la vostra amicizia e collaborazione?

C.d.M Ci siamo conosciuti a 19 anni, una vita fa! Studiavamo lettere e filosofia a Milano e avevamo amicizie comuni in Cattolica. Da lì abbiamo iniziato a collaborare facendo prima foto e poi cominciando a scrivere e girare piccole storie. È bastato poco perché iniziassimo il nostro percorso insieme da registi. Da quel momento siamo una cosa sola: CRIC. È un nome nato per scherzo, un suono pensato all’università che da sempre ci è sembrato divertente, ci piaceva e ci è rimasto addosso.

D.M Io e Clem siamo cresciuti insieme, abbiamo sempre avuto come obiettivo comune quello di produrre qualcosa di narrativo. Quando co-dirigiamo pubblicità ci vengono sempre richiesti prodotti storytelling. Siamo partiti da subito cercando di sfatare il mito dei 30 secondi della pubblicità che dominava questo mondo per arrivare a trattare delle storie più lunghe, delle vicende più articolate. Anche per questo il passaggio dagli spot alla fiction è stato naturale.

Il cortometraggio La tecnica è ambientato a Larderello, un piccolo paese sulle colline toscane abitato da meno di mille persone, cosa vi ha portati lì?

D.M Stavamo facendo dei sopralluoghi per un altro progetto e siamo rimasti talmente affascinati da Larderello che abbiamo subito scelto di ambientare lì la vicenda. È un posto unico, riempito da centrali geotermiche, acque sulfuree e geyser, sperduto nella Toscana più sconosciuta, è una campagna vera che è rimasta ferma nel tempo. Abbiamo girato il corto nell’estate del 2019, è stato un tuffo nel passato: odori, suoni e colori mi hanno ricordato le vacanze della mia infanzia, quei mesi torridi in cui si veniva parcheggiati dai nonni mentre i genitori ancora lavoravano. Il paesaggio inoltre a livello visivo ci è sembrato molto particolare e forte, un verde inesplorato a cui a volte si contrappongono delle ciminiere che sembrano quasi provenire da uno scenario nucleare.

C.d.M L’effetto che volevamo dare era quello di un luogo senza tempo, qualcosa che risultasse come un ricordo non collocabile né in un presente né in un passato ben precisi. Era lo scenario giusto per immortalare la storia di un passaggio, di un cammino verso avvenimenti importanti come il primo bacio o il primo approccio con una donna.

La storia è genuina come i ragazzi che avete scelto per interpretarla: giovani abitanti del paese per la prima volta davanti a una telecamera. In questo caso siete stati voi ad insegnare loro “la tecnica”. Come è stato?

C.d.M La costruzione del cortometraggio è andata avanti un passo alla volta, un po’ come fosse un reportage fotografico. Siamo arrivati nel paese, abbiamo iniziato a conoscere le persone del luogo, ci siamo presentati alla scuola e qui abbiamo avuto modo di conoscere i ragazzi. La scelta degli interpreti è stata amore a prima vista: li abbiamo riconosciuti subito. Con Leonardo è immediatamente nata una grandissima empatia, lui è molto simile al suo personaggio e lo ha subito colto. Nilde ha una personalità fortissima, è nata in una famiglia di artisti e in un contesto molto stimolante, trasmette forza e creatività. Infine Cesare è un cuore d’oro, oltre ad averci aiutato come attore ci ha anche dato una mano a risolvere problemi pratici, a radunare gli amici e a creare un bellissimo gruppo.

D.M. Sono più che orgoglioso della scelta che abbiamo preso, non tornerei mai indietro prendendo attori professionisti o persone che comunque hanno già avuto un primo approccio con un set. Penso che la vera essenza del corto sia proprio nell’insieme dell’essenzialità dei posti e delle personalità scelte, l’hanno reso puro come desideravamo. La cadenza degli interpreti, il loro accento, il fatto che fossero protagonisti del luogo non solo nella vicenda, i loro atteggiamenti radicati nella cultura di quel posto, è tutto questo che ha conferito al corto un’aura diversa.

La tecnica corto
Uno dei giovani protagonisti de “La tecnica”.

Per girare avete usato una Kodak 16 mm, che dà alla fotografia un’impronta retrò: questo ha un significato particolare o è una ragione puramente estetica?

D.M. I motivi sono tanti. Non è stata una scelta casuale né presa alla leggera perché richiede un impegno e dei costi diversi. Sicuramente la pellicola ha dato ancora di più il sapore di ricordo estivo che domina l’interno cortometraggio. Inoltre venendo dalla pubblicità avevamo voglia di confrontarci con uno strumento che fosse il mezzo cinematografico per eccellenza.

C.d.M Della pellicola mi è piaciuto il fatto che fosse una protagonista in più tra la macchina da presa, gli attori e le location. Mentre il digitale è immediato, con la pellicola si crea una sorta di tensione e di incertezza emozionanti. È un esercizio che ci ha fatto capire che non abbiamo un hard disk infinito, ma un numero limitato di scene che dobbiamo ben spendere. Ti toglie il vizio di vedere subito ciò che hai fatto, lascia un alone mistero e ti obbliga a un’attenzione e una cura particolari in ogni singola scena. È un metodo un po’ zen di dare tempo al tempo e di accontentarsi di qualcosa che non è per forza preciso o maniacale. 

Progetti per il futuro?

C.d.M Stiamo continuando a fare pubblicità e parallelamente stiamo preparando una serie per Netflix che gireremo questo autunno e che uscirà nell’inverno del 2022, una storia di relazioni con una forte componente al femminile, di affermazione e di lotta. Inoltre stiamo sviluppando un’altra serie TV di cui siamo ancora in fase di scrittura, abbiamo girato un trailer e preparato la struttura.

Per concludere vi faccio una domanda che pongo alla fine di tutte le mie interviste: se dopo di me poteste scegliere una persona importante per te con cui prendere un caffè, chi scegliereste?

C.d.M Penso che entrambi vorremmo prenderci un caffè con Michelangelo Antonioni [ride ndr], è il primo nome che mi viene in mente se penso a “persona importante per te”. Si potrebbe fare una bella cena di vino in montagna, o al mare alle Eolie.

D.M. Io forse lo prenderei anche con Ermanno Olmi, in un alpeggio, organizzerei una cena anche con Clem e senza dubbio, Antonioni… Proprio un sogno. 

 

 

Gabriel Montesi, da Cassano a Bukowski con passione

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Eclettico e intenso, Gabriel Montesi, classe ’92, è una delle promesse più promettenti del cinema italiano. Inizia da un piccolo teatro di Aprilia per entrare successivamente alla Scuola d’arte cinematografica Gianmaria Volontè: per lui il cinema è collettività, scambio e armonia tra anime diverse. Negli ultimi anni ha lavorato con registi del calibro di Fabio e Damiano D’Innocenzo e Matteo Rovere e lo abbiamo visto da poco nei panni di Antonio Cassano diretto da Luca Ribuoli. È una persona istintiva che preferisce «occuparsi del presente anziché preoccuparsi del futuro», perché è così che sono nati alcuni degli incontri che hanno segnato la sua carriera.

Ti avvicini al mondo della recitazione a meno di vent’anni. Nel 2019 termini il tuo percorso alla Volonté. Chi è oggi Gabriel Montesi?

Non lo so [ride], ancora non lo so. La ricerca di me stesso è stata la vera ragione per cui mi sono avvicinato alla recitazione. Avevo 19 anni, ero in quella fase della vita in cui non sai né chi sei né chi vuoi essere, io e un mio amico siamo andati ad Aprilia a seguire un corso di teatro dentro una ex fabbrica abbandonata, ci sembrava un’atmosfera divertente. In seguito mi sono avvicinato a Roma frequentando dei laboratori e nel 2016 sono entrato alla Volontè, ed è stata una delle più grandi opportunità che mi sia mai capitata. Grazie alle persone che ho conosciuto lì ho capito veramente l’importanza del gruppo e che il cinema è un’arte collettiva. In assoluto sono una persona che preferisce puntare a occuparsi del presente più che a preoccuparsi del futuro. Ho sempre vissuto l’oggi e ciò mi ha portato a fare begli incontri, ho messo da parte tante esperienze che ora mi stanno aiutando a costruire la mia persona.

Ti abbiamo visto lo scorso anno in Favolacce dei fratelli D’Innocenzo. Come ti sei trovato nei panni di Amelio?

È stato un viaggio bellissimo, a volte ancora mi manca quel set e le sue sensazioni. Ho incontrato i fratelli D’Innocenzo grazie al casting director Davide Zurolo che mi mise a fare la spalla durante i provini di Favolacce. Ho sentito da subito una forte intesa con Fabio e Damiano, legata forse anche al fatto che proveniamo tutti da un’infanzia vissuta in un piccolo paesino. Questo credo che ti regali una certa poetica e un preciso modo di vedere le cose, di recepirle e di ascoltarle. Amelio è stato un personaggio che mi ha posto molte domande sul concetto di famiglia. L’intero film racconta di persone che hanno l’obiettivo di raggiungere un desiderio di perfezione, una famiglia divinizzata. La figura di Amelio è un po’ il paradosso del film, il completo opposto del personaggio interpretato da Elio [Germano ndr]: è euforico, non sa bene come fare il padre e non sa come dare amore, quindi tratta il figlio Geremia più come se fosse un amico, un fratellino. Favolacce è un film che, oltre ad avermi fatto riflettere come attore, mi ha messo in discussione anche come spettatore, stravolgendo i miei concetti personali di vita e di morte, di buono e di cattivo.

In Romulus di Matteo Rovere eri il re Cnaeus. Cosa ti ha lasciato questo personaggio?

Cneaus è un re che si autoproclama all’interno di un gruppo, interpretarlo mi ha ricordato Il Signore delle mosche. Domina il branco per garantirsi una sopravvivenza più lunga. È un personaggio interessante e mi ha fatto molto piacere tornare a lavorare con Rovere che avevo già conosciuto precedentemente sul set de Il primo re. Di questa serie ho amato anche il fatto che il concetto di “branco” (in senso positivo) si è ricreato perfettamente anche all’interno del set, mi sono trovato circondato da persone meravigliose che mi hanno aiutato a costruire il mio personaggio e a sostenerlo. Ho legato moltissimo con Claudio Bellisario, un giovane attore formidabile conosciuto lì, e con Marco Cicalese, con cui invece avevo già condiviso tutto il percorso all’interno della Volontè.

Gabriel MontesiTi abbiamo rivisto su Sky in Speravo de morì prima, miniserie italiana diretta da Luca Ribuoli: che effetto ti ha fatto interpretare un mito del calcio come Antonio Cassano? 

Quando ho fatto il provino per Cassano mi sono presentato al casting con il suo taglio di capelli, per calarmi meglio nel personaggio. Ricordo che guardandomi allo specchio ho pensato: “Ao’, però ce prendo!”. Nonostante la somiglianza fisiognomica è stato impegnativo interpretare una personalità geniale e stravagante come quella di questo mito del calcio. Una delle sfide più grandi poi è stato il dialetto barese: per questo devo ringraziare infinitamente Francesco Zenzola, un attore fantastico senza il quale non sarei riuscito a fare nulla. Lui è di Bari e abbiamo fatto insieme un doppio lavoro: siamo arrivati prima a un barese più pulito e poi a uno con cadenza “spagnoleggiante” dovuta all’anno che Cassano ha passato in Spagna con il Real Madrid. È stata la prima volta che ho interpretato una persona reale e grazie a questo ho imparato che mi piace restituire e non imitare. Scegliendo alcuni gesti e alcune movenze è come se restituissi a Cassano una parte di sé e così facendo lo ringraziassi in modo vero e puro.

Sarai anche nella serie Christian, sempre per Sky, diretta da Stefano Lodovichi e Roberto “Saku” Cinardi. Vuoi parlarci della trama?

Christian, interpretato da Edoardo Pesce, vive alla periferia di Roma in un contesto di criminalità. Sopravvive “menando”, fino a quando non si ritrova con dei segni sulle mani, che scopre essere delle stimmate. La serie viaggia su questo contrasto, si costruisce sul limite tra il reale e i miracoli. Qui io interpreto Penna, un piccolo malvivente amico della compagnia di Christian. Lavorare con Edoardo è stato davvero formativo e divertente, è un grande. Personalmente non credo al “sovrannaturale” ma sono sicuro che esista un qualcosa che va oltre i nostri limiti, che superi i nostri pensieri. Mi piace spostare lo sguardo.

Sei considerato una delle giovani promesse del cinema italiano: come vedi il futuro di questo mondo? Un consiglio ai giovani che vorrebbero fare il tuo lavoro?

Se io so’ una promessa già siamo messi male! Non lo so, stiamo vivendo un presente in cui il futuro fa un po’ paura ma in ogni caso sono ottimista, e penso che ci sarà presto una grande rinascita. Comunque, spero in una reazione più che in una resistenza. A un giovane che si sta avviando in un percorso lavorativo come il mio dico di continuare, di non arrendersi mai e soprattutto di sentire la “fame” di questo mestiere. Per me recitare ormai non è neanche più una passione, è una sorta di bisogno fisico che mi fa star bene, una parte di me senza la quale non riesco nemmeno a immaginarmi. Non ci dobbiamo far fermare dalla situazione di distacco che stiamo vivendo, dobbiamo interagire con persone con la stessa passione, perché il cinema è collettività, è scambio, è armonia tra anime diverse.

Gabriel MontesiHai interpretato ruoli diversi, quasi sempre drammatici: quale di questi ti è rimasto particolarmente impresso?

Ogni ruolo ha lasciato in me qualcosa e non ne vorrei scegliere uno in particolare. Ho paura che dovendo prediligere un personaggio sugli altri mi lascerei troppo influenzare, mentre voglio sentirmi sempre libero e completamente adattabile. Se dovessi scegliere invece una personalità che vorrei interpretare e che mi piacerebbe studiare, è quella di Martin Luther King.

Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, chi sceglieresti?

Mio fratello Gianmarco, per me lui è stato ed è tuttora un maestro, è una persona ribelle e coraggiosa che va dritto per la sua strada. Non ha paura di osare e per questo ha e avrà per sempre tutta la mia stima. Pensando a lui mi viene in mente una frase di Bukowski: «Godo nel minacciare il sole con una pistola ad acqua».

Fotografa: ROBERTA KRASNIG Assistenti fotografa: LAURA AURIZZI / ELISA MALLAMACI Stylist: CONSUELO MOCETTI per STEFANIA SCIORTINO STYLIST Trucco: ELEONORA DE FELICIS@HARUMI Capelli: GIADA UDOVISI@HARUMI Abiti: HUGO BOSS / LEVI’S / BOMBOOGIE / BERNA / ANERKJENDT

Onolulo, il sogno di due ragazze in fuga

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Quello della violenza di genere è un tema importante e finalmente presente nel dibattito pubblico almeno dai tempi del #metoo: il giovane regista Iacopo Zanon ha scelto questo tema per il suo cortometraggio Onolulo (prodotto da Zerosix Productions e Pinup Filmaking, distribuzione Elenfant), candidato finalista ai Fabrique Awards 2020

Onolulo parla di due giovani donne che in modi diversi sono vittime di violenza di genere.

La scrittura del corto è partita dall’immagine di una ragazza che scappa da una brutta situazione e si infila nella macchina di un’amica per salvarsi. Sono due donne che non navigano nell’oro e che hanno bisogno di lavorare per sopravvivere. Una, interpretata da Michela De Rossi, si guadagna da vivere esibendosi su siti pornografici, l’altra, Carlotta Antonelli, fa la cameriera. Le conosciamo in un momento in cui Carla subisce un’avance esplicita e aggressiva da parte di un cliente sul lavoro, mentre Giulia riceve una proposta da parte di un utente del sito di fare l’amore a pagamento: due universi che si intrecciano e che alla fine si aiuteranno a vicenda.

Perché hai scelto questo tema per il tuo cortometraggio?

Ho iniziato a riflettere su questo problema prima del caso Weinstein (2017). Penso che il genere maschile debba decostruire una mentalità che va avanti da secoli e che è stata edificata su una serie di pregiudizi e di falsi miti. Ora, per fortuna, abbiamo negli Stati Uniti una vicepresidente donna, Kamala Harris, e spero che questo sia un segnale importante per ridurre lo squilibrio di genere. Purtroppo durante la pandemia abbiamo visto come la violenza di genere sia aumentata: è evidente che quello che stiamo vivendo, oltre a farci soffrire tutti umanamente, ha anche portato parecchi uomini a infliggere sofferenze alle loro conviventi.

Nella scena dell’incubo che fa una delle due protagoniste durante la notte in fuga c’è un messaggio importante: vuoi spiegarci meglio il suo valore simbolico?

Qualsiasi tipo di violenza lascia un segno su di noi. Anche un’avance, un corteggiamento aggressivo come appunto nel caso di Carla, causa delle conseguenze psicologiche che possono riemergere nei sogni, o meglio negli incubi. Mi interessa molto questo aspetto perché viviamo in una società nella quale quando si parla di violenza sulle donne si dà particolare importanza ai danni fisici e meno a quelli psicologici, che invece sono altrettanto dolorosi. Nel corto, durante la scena del sogno, mi sono rifatto a un’estetica alla Nightmare di Wes Craven e al film horror di autore, prendendo spunto anche da Stephen King. Mi interessava che l’uomo dell’incubo non fosse troppo connotato fisicamente, perché deve rappresentare tutto il mondo maschile.

Onolulo finisce con un’alba. Che significato ha per la storia?

Quella dell’alba è una citazione di un film di Gianni Amelio a cui sono molto legato, Il ladro di bambini. Ho voluto raccontare come, alla fine di questo viaggio dove le ragazze hanno parlato di loro e si sono capite meglio, si arrivi a un nuovo inizio pieno di nuove possibilità. Nella vita ognuno di noi ha delle opportunità per ricominciare, fare la cosa giusta, risolvere gli errori commessi e ripartire migliore di prima.

Carlotta Antonelli
Carlotta Antonelli

Honolulu è la capitale delle Hawaii dove le due protagoniste vorrebbero scappare. C’è un motivo per cui hai scelto questa isola?

L’idea viene da un vecchio film Disney, La spada nella roccia, in cui a un certo punto Merlino fa uno dei suoi incantesimi e parte come un razzo per andare proprio ad Honolulu. Questo luogo è un po’ come se fosse la metafora dell’isola felice, uno spazio immaginario in cui ci sono le palme, fa sempre caldo e c’è il mare, una sorta di terra promessa. Le protagoniste del corto vivono delle situazioni complicate e si trovano talmente schiacciate dalla realtà che credono che l’unico posto dove vivere felici possa essere questo luogo magnifico. Mi ha divertito il fatto che in realtà non sanno nemmeno pronunciare il nome di quest’isola, per loro non è “Honolulu” ma “Onolulo”, una versione storpiata che sta a rappresentare un mondo totalmente immaginario rispetto a ciò che realmente cercano.

Le protagoniste sono due attrici in ascesa, Carlotta Antonelli e Michela De Rossi.

L’incontro con loro è stato bellissimo, Carlotta e Michela sono due ottime professioniste, con tante “note” dentro di loro e una meravigliosa sensibilità. Il loro essere giovani e sotto alcuni punti di vista “fuori fuoco” è proprio quello che cercavo: l’umanità di due donne alla ricerca di loro stesse, non ancora completamente individuate. Le ho conosciute grazie a Gabriella Giannattasio, casting director con cui collaboro da anni. Girare con loro è stato molto divertente e intenso: Carlotta e Michela si sono dedicate con tanto amore a questa storia, interpretandola con unicità e rispetto.

Nuovi progetti in cantiere?

In questo momento sto scrivendo due serie che mi sono state chieste da case di produzione che hanno visto proprio Onolulo. Contemporaneamente continuo a coltivare il mio sogno di andare in sala. Ho davanti a me due fogli, uno per la televisione e l’altro per il cinema. Sono molto curioso di vedere che cosa succederà al grande schermo dopo questa pandemia. Già prima del Covid molto del lavoro si stava spostando sulle grandi piattaforme streaming. Oggi credo che un autore, quando progetta un nuovo lavoro, debba chiedersi: lo scrivo per la TV o per il cinema?

Faccio questa domanda alla fine di tutte le mie interviste: se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, con chi lo prenderesti?

Sicuramente con Ernest Hemingway. In lui ho sempre visto una sorta di secondo padre, quindi mi piacerebbe chiedergli tante cose, non solo di letteratura, ma anche di caccia e pesca!

“Con Le sorelle Macaluso a Venezia”, parla la produttrice Marica Stocchi

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Marica Stocchi: giovane, donna, produttrice indipendente. Nel 2018 con Giuseppe Battiston fonda Rosamont, società di produzione cinematografica nata per realizzare film di alta qualità rivolti al pubblico e al mercato nazionale e internazionale. Con Rosamont Marica Stocchi ha prodotto due film subito approdati nell’empireo dei festival: Here we are di Nir Bergman, in coproduzione con Israele, tra i selezionati del Festival di Cannes 2020, e Le sorelle Macaluso di Emma Dante, in competizione alla 77a Mostra del Cinema di Venezia.

Di te si conosce ancora poco, in concorso a Venezia con un film di Emma Dante e a Cannes con un film in coproduzione con Israele: tu, Marica Stocchi, come ti definiresti?

Se dovessi scegliere una frase per descrivermi ti direi che sono una persona che ama raccontare storie. Nella mia vita ho sperimentato tanti mondi lavorativi differenti: prima in teatro, poi giornalista per “Il Messaggero”, collaboratrice per la casa editrice Minimum Fax e altre realtà editoriali, il tutto sempre con l’unico scopo di stare in mezzo alle storie.

Nel 2018 hai fondato la casa di produzione Rosamont insieme a Giuseppe Battiston. Come è nata questa collaborazione?

L’incontro è avvenuto sul set di Bookshow, il programma televisivo a cui stavo lavorando per Minimum Fax Media e che abbiamo realizzato per Sky Arte. Alcuni grandi attori italiani leggevano parti del loro libro preferito nella loro città e così ho conosciuto Giuseppe nella sua Udine. È stata fin da subito stima e simpatia reciproche. Poi, dal momento in cui ho iniziato a occuparmi di cinema, Giuseppe mi ha proposto di produrre il suo primo film da regista: «Aspetto che tu concluda il tuo primo film come produttrice, e se sopravvivi ti prometto che torno». È tornato e, quando ho deciso di fondare la mia società, lui era lì, il partner perfetto! Il nome significa “tramonto rosso”, da una poesia di Pierluigi Cappello, grande poeta friulano amico di Battiston, precocemente scomparso.

Marica Stocchi
Marica Stocchi

Le sorelle Macaluso, scritto e diretto da Emma Dante, è in concorso al Festival di Venezia. Raccontaci qualcosa del film.

Le sorelle Macaluso è tratto dall’omonimo spettacolo che Emma ha portato a teatro con grande successo. Quello con Emma è stato un altro incontro importante: lei era alla ricerca di un produttore e io sono riuscita, grazie al rapidissimo aiuto di RAI Cinema, a trovarle i necessari finanziamenti. Lavorare con lei è come stare sulle montagne russe… non ti annoi mai! Da grande regista di teatro quale è, Emma ha avuto una grande cura nel valorizzare le caratteristiche teatrali del suo cinema senza mai ridimensionarle. Durante le riprese ha vissuto non come regista dietro la camera, ma come un’anima dentro il gruppo delle sorelle. Ha sentito le loro azioni e a volte le ha modificate allontanandosi dalla sceneggiatura per adeguarsi all’energia che sentiva in quel preciso momento. Questo tipo di improvvisazione ha regalato al film uno dei suoi punti di forza, poiché permette allo spettatore di entrare in quello stesso gruppo, con quella stessa intensità. La vicenda narrata nel film è quella delle cinque sorelle Macaluso, che vivono nella periferia di Palermo, descritte in tre diversi momenti della loro vita: da bambine, in età adulta e infine da anziane. Alle cinque sorelle si è anche aggiunto un sesto personaggio: l’appartamento. La casa nella periferia di Palermo partecipa infatti attivamente a tutti gli sconvolgimenti della vita familiare, mutando insieme alle sorelle. Il film uscirà il 10 settembre distribuito da Teodora e invito vivamente il pubblico ad andare a vederlo al cinema, perché ritengo che la sala sia il luogo giusto dove vivere quest’esperienza.

Here we are di Nir Bergman, coproduzione israeliana, selezionato al festival di Cannes 2020. Una collaborazione internazionale importante.

Here we are racconta il rapporto tra un padre e un figlio con una disabilità che lo rende incapace di interagire con il mondo, in modo puro e vero, mai drammatico o triste. Credo questa sia in assoluto la cosa più straordinaria del film: nonostante il tema sia molto delicato, si prova malinconia, ma non tristezza. E sono orgogliosa di dire che questa è la prima coproduzione ufficiale tra Italia e Israele.

Progetti in cantiere?

Stiamo lavorando al primo film da regista di Giuseppe Battiston, scritto insieme a Marco Pettenello, che si trova già in uno stato relativamente avanzato. Le riprese erano previste per lo scorso maggio, ma a causa dell’emergenza Covid abbiamo rimandato al prossimo anno. È un film completamente diverso dai due precedenti, è una commedia che si avvicina un po’ al cinema di Mazzacurati, il più grande maestro di Giuseppe. Il cast è davvero straordinario e questa è una delle caratteristiche di Giuseppe regista: non lesinare sulla ricerca degli attori, anche la parte più piccola del film è affidata infatti a un bravissimo interprete. Due, questo il titolo, è una coproduzione internazionale con la Slovenia: tengo molto a costruire collaborazioni internazionali perché credo che lavorare con altri paesi sia un importante gemellaggio artistico e creativo, grazie al quale si incontrano tradizioni e culture diverse.

Fabrique è un giornale letto soprattutto dai giovani che amano il cinema e stanno muovendo i primi passi in questo mondo. Che consigli daresti loro, in base alla tua storia professionale?

Il primo consiglio che ci tengo a dare è quello di non mollare mai, perché quando si ha la fortuna di sapere ciò che si vuole si deve perseguire l’obiettivo con forza. Contemporaneamente a ciò credo sia fondamentale essere, passami il termine un po’ abusato, estremamente “liquidi”. È indispensabile possedere la capacità di ascoltare quello che il mondo ti propone e di adattarsi a situazioni diverse, perché sono tutte esperienze che alla fine ti migliorano e ti insegnano qualcosa di nuovo. Non ritengo esista un unico percorso da seguire o regole fisse da rispettare, perché l’unico percorso che ha senso è il tuo, ti costruisce mentre tu costruisci lui.

Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, con chi lo prenderesti?

Non si può fare questa domanda a una mamma che lavora tante ore al giorno come me, perché ovviamente ti dice il proprio figlio! Il mio ha appena compiuto 12 anni e mi sorprende tutti i giorni, cambia continuamente e questo mi diverte e mi incuriosisce. In questi ultimi due anni così intensi ha accettato con pazienza i miei tempi, le mie mancanze, i miei entusiasmi e le mie incertezze: gli sono davvero grata.

 

Gabriel, sex robot per signore

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Gabriel è la storia di Agatha, una donna di settant’anni da poco vedova, che ha come unico stimolo la presenza della focosa giovane coppia che le abita accanto. A eccitarla è in particolar modo Gabriel, il seducente vicino di casa, per il quale sente una grandissima attrazione. In un momento di estrema solitudine la donna cerca su Internet un qualcosa che possa appagare le sue fantasie erotiche e scopre una pagina di robotica sessuale dove acquista un robot che decide di chiamare “Gabriel”. Inizia così per Agatha un percorso verso un mondo intrigante e sconosciuto.

Una sceneggiatura a due mani

Pierfrancesco Artini, classe 1988, cresce a Padova ma lascia presto l’Italia per trasferirsi prima a Londra, dove frequenta una scuola di cinema, e successivamente a Madrid. Giovane e talentuoso, nel suo percorso artistico incontra Claudio Masenza, sceneggiatore, direttore artistico, critico e regista di fama internazionale. Da questa collaborazione nasce Gabriel, cortometraggio girato in spagnolo a Madrid, da dove lo sentiamo via skype, “triangolando” con Masenza che ci risponde da Roma.

Pierfrancesco, come è nata l’idea di Gabriel?

Da un articolo che parlava della creazione nel 2019, da parte della compagnia americana Realbotix, di un robot sessuale chiamato “Harry”. La cosa che più mi ha sorpreso è che il robot era nato solo con sembianze femminili e quindi pensato principalmente per l’appagamento sessuale degli uomini. Solo di recente è stato prodotto il primo prototipo maschile rivolto alle donne. Con questo cortometraggio ho voluto mostrare come in realtà la pulsione sessuale sia un bisogno fisiologico che appartiene ad entrambi i sessi, in ugual modo e soprattutto a qualsiasi età.

Da anni vivi a Madrid, che rapporti hai con il cinema italiano?

L’Italia l’ho lasciata ormai da dieci anni, dopo il liceo mi sono spostato a Londra per studiare cinema. Mi sono trasferito a Madrid quando mi è stata data la possibilità di aprire uno studio fotografico dove ancora oggi lavoro, AR.TE studio. La fotografia è sempre stata un punto saldo della mia vita e poter far convivere questo mondo con quello del cinema per me è la realizzazione di un sogno. Rispetto al cinema italiano invece nutro un rapporto di grandissimo rispetto e costante ammirazione e mi riferisco a registi quali Matteo Garrone, Ferzan Ozpetek, Pietro Marcello e Gabriele Mainetti.

Progetti per il futuro?

Al momento ho in cantiere due sceneggiature che ho scritto durante la quarantena e che adesso stanno prendendo forma. Nonostante le ovvie preoccupazioni per la tragedia globale che abbiamo vissuto con il Covid, la clausura obbligata è stata per me qualcosa di molto formativo e produttivo.

La sceneggiatura di Gabriel è stata scritta con Claudio Masenza: come nasce la vostra collaborazione?

Io e Claudio siamo amici da molti anni e il tutto è nato da un comune amore per il cinema. Non scherzo se ti dico che Claudio è la persona con la più grande cultura cinematografica che abbia mai conosciuto. È capace di dire con nonchalance: “No, questo è già stato fatto nel ’45! Questo lo si è visto nell’82!” Impressionante!  Per me Claudio è un grandissimo modello di riferimento, una fonte di ispirazione costante, un’enciclopedia vivente dotata inoltre di un’immensa simpatia. Abbiamo scritto diverse cose assieme e questa è la prima che abbiamo visto realizzata.

Pierfrancesco Artini e Claudio Masenza
Pierfrancesco Artini e Claudio Masenza

Claudio, come hai conosciuto Pierfrancesco?

Attraverso Instagram, dove ci siamo reciprocamente commentati dei post e io mi sono subito reso conto del suo talento. Diciamo che poi la vera collaborazione artistica è avvenuta nel tempo. La storia di Gabriel mi è sembrata fin dall’inizio innovativa e per questo ho collaborato volentieri con Pierfrancesco alla scrittura. La forza di Gabriel sta nel riuscire a trattare la sessualità di una donna anziana, argomento visto da sempre come una sorta di perversione anomala e grottesca. Mi piaceva l’idea di trattare questa tematica come ciò che penso sia nella realtà: una normalità.

Da colonna portante del cinema quale sei, cosa pensi del nuovo cinema emergente italiano?

Allora, innanzitutto una cosa che ho imparato è che se sei un over-70 e lavori in questo mondo da mezzo secolo diventi automaticamente una “colonna portante del cinema italiano” e a tratti anche un mito! [ridiamo ndr].  Ho iniziato a vedere i film da piccolissimo, quando ancora non esisteva la televisione ed io, essendo un bambino particolarmente furbo, finivo i compiti presto e trascorrevo i pomeriggi al cinema. Quindi diciamo che per me oggi è impossibile vedere i film delle nuove generazioni senza fare un collegamento con film che ho già visto. Di fondo non posso che considerare il nuovo cinema un omaggio al vecchio. Mi è capitato comunque di rimanere folgorato da film come Mademoiselle [2016, diretto da Park Chan-wook ndr] che credo sia visivamente di una bellezza struggente e disarmante.

Faccio questa domanda alla fine di tutte le mie interviste: se dopo di me poteste scegliere una persona per voi molto importante con cui prendere un caffè, chi scegliereste?

P.A. Senza alcun dubbio Alfred Hitchcock. Provo una grande ammirazione verso di lui fin da quando avevo 14 anni perché i miei genitori mi facevano vedere tutti i suoi film. Hitchcock è stato non solo un grandissimo regista ma anche un grande innovatore di tecniche cinematografiche e sarei proprio curioso di ascoltarlo o anche solo di stargli accanto…

C.M. Dopo di te prenderei molto volentieri un caffè con Bernardo Bertolucci, uno degli amici più importanti della mia vita che ancora oggi mi manca tantissimo. Dopo un anno e mezzo dalla sua scomparsa, mi viene ancora spontaneo desiderare di telefonargli per proporgli la visione di un film raro che ho visto online. Vorrei che questo fosse un piccolo regalo indirizzato a lui, un modo per ripetergli che mi manca e che gli voglio un bene immenso.

Ileana D’Ambra, la trasformista

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Un esordio coraggioso

Ileana D’Ambra è una giovane attrice al suo debutto cinematografico accanto ad Elio Germano nel film Favolacce dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo (Orso d’Argento per la sceneggiatura a Berlino), da qualche giorno in onda sulle maggiori piattaforme streaming.

Vilma, donna-bambina

Scelta dai talentuosi fratelli romani per il suo volto “portatore di dolcezza”, Ileana D’Ambra si è messa in gioco con grande coraggio e ci ha regalato un personaggio senza filtri, Vilma, per la quale è ingrassata di quasi 20 kg.

Ti abbiamo vista nei panni di Vilma in Favolacce, vuoi raccontarci qualcosa di lei?

Vilma è una ragazza di 19 anni, vive e lavora con la mamma, il papà non lo vediamo, ed è fidanzata con Mattia. Lei però non è sola e si presenta fin dalla prima scena con un grembo gonfio che dentro contiene una bambina. Vilma la definirei una “middleclass decaduta”, come d’altronde tutti i personaggi del film.  È un personaggio pieno di contraddizioni: è molto bambina, lo si nota da aspetti estremamente infantili come il suo modo di vivere la femminilità e la sessualità. Un’altra contraddizione di Vilma è il contrasto tra il suo voler apparire gentile e i suoi naturali modi un po’ rudi e sgraziati.

Ileana D'Ambra al Festival di Berlino
Ileana D’Ambra al Festival di Berlino

Come sei stata scelta dai d’Innocenzo?

Io non credo nella fortuna, credo semplicemente che esista il momento giusto. Fare l’attrice per me è stata una scelta di vita legata a una passione innata. In questo mestiere devi avere le spalle larghe per accettare un quantitativo gigantesco di no e tradurli in occasioni per crescere e migliorarsi. È fondamentale essere resilienti e volgere al positivo quanto ti capita, perché è proprio grazie a questo che le esperienze personali diventano nuove “sfumature” di te nel tuo lavoro. Ecco, penso che con Favolacce sia arrivato il mio momento giusto.

Vilma è stato un personaggio impegnativo dal punto di vista psicologico ma anche fisico, considerando che per interpretarlo hai dovuto prendere quasi 20 kg.

In realtà, nonostante l’iniziale difficoltà, credo sia proprio grazie a questo importante aumento di peso che mi sono realmente calata nel personaggio di Vilma. Fin da subito il mio viso, scelto dai fratelli D’Innocenzo perché – dicono – “portatore di infinita dolcezza”, con l’aumentare dei chili cambiava e diventava altro, così come il mio fisico e il mio portamento. Ero goffa e scoordinata, con un’andatura da camionista! Ho capito che Vilma stava prendendo forma dentro di me.

Questo è stato il tuo primo film, che effetto ti ha fatto il set?

Inizio dicendoti che Fabio e Damiano riescono a rendere veramente semplici anche le cose più difficili. Da subito è scattato come un “clic” tra di noi, una sintonia e una stima reciproca che ha reso tutto estremamente naturale. Non dimenticherò mai il primo giorno sul set. Avevo l’adrenalina a mille e non appena sono arrivata mi sono detta: “Ok, questo è il mio posto, sono a casa mia!”. È esattamente per questo che spero di continuare a fare il cinema, perché mi sono veramente sentita al mio posto come mai sentita prima. La prima scena che ho girato, ambientata in un mercatino, per me non ha semplicemente rappresentato la nascita di Vilma, ma è stato anche l’inizio di un percorso di cambiamento personale. Una cosa con cui ho dovuto da subito fare l’abitudine sono stati i piani strettissimi sul mio viso e sul mio corpo. Prima dell’inizio delle riprese ho trascorso due giornate con Paolo Carnera, il direttore della fotografia, e con lui ho assistito ai provini per la camera e alla scelta degli obiettivi e delle lenti. È stato molto utile perché ho imparato e capito quello che poi ho ritrovato sul set.

Ileana-D-Ambra
Un ritratto di Ileana D’Ambra

Favolacce è uscito in un momento difficile e ci ha tenuto compagnia durante un periodo di isolamento forzato. Tu come hai trascorso il lockdown? Cosa ne hai guadagnato?

Ovviamente il radicale cambiamento di quotidianità che mi ha portata a passare da ritmi serrati e pienissimi a giornate lente e vuote, soprattutto all’inizio, è stato duro. Anche se il mio lavoro mi ha aiutata perché mi ha abituato a una routine mai scandita da orari fissi e allo stare molto spesso da sola, a studiare, a pensare, a guardare film. L’inizio del lockdown ha combaciato con il mio ritorno da Berlino, Favolacce aveva appena vinto l’Orso d’Argento per la sceneggiatura e io ero gasatissima. Mi sono guardata allo specchio e mi son detta: “Vai Ileana, questo è il tuo momento!”. Insomma ero pronta a non fermarmi più, ma una sorte ironica ha deciso di chiudermi in casa. Le mie giornate sono state altalenanti: a volte mi svegliavo piena di voglia di fare altre, quelle più no, le passavo a letto, tra libri e pensieri. La cosa bella è stata che durante questo periodo ho avuto la possibilità di sentirmi veramente vicino il mondo fuori. Mi spiego meglio: fin da piccolissima, ho sempre avuto una grande empatia verso gli altri e durante l’isolamento forzato mi sono sentita un tutt’uno con il mondo che insieme a me soffriva, cambiava e si adattava passo dopo passo.

Nuovi progetti? Hai già qualcosa in mente?

Al momento c’è un progetto di cui però per ora preferisco non dire nulla. Parlando in generale del futuro comunque spero che questo brutto periodo ci abbia finalmente fatto capire quanto la cultura sia importante per tutti. Spero che l’industria cinematografica possa riprendere al più presto, perché senza i film in questi lunghi giorni chiusi in casa non ce l’avremmo mai fatta!  Come dice poi lo scrittore Stefano Massini, quando viene a mancare la cultura emergono emozioni come la paura e altri sentimenti che inducono alla violenza.

Mi piace concludere le mie interviste con una domanda. Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, con chi lo prenderesti?

Oddio, questa è una domanda davvero difficile [ride ndr]… Posso dirti due persone? La prima sarebbe sicuramente stata Goliarda Sapienza, di cui in questa quarantena ho finito di leggere L’arte della gioia, un libro rivoluzionario, con una figura femminile in continua evoluzione. La seconda invece è Marion Cotillard, attrice di quel cinema francese che tanto amo. Non ti nego che uno dei miei più grandi sogni è quello di lavorare in un set internazionale, sono certa che mi arricchirebbe tantissimo. Sì, direi che farmi due chiacchiere con Marion mi farebbe molto piacere!