I fratelli d’Innocenzo, Favolacce e la malinconia degli adulti

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A dirla tutta, a 31 anni Fabio e Damiano D’Innocenzo sono una delle voci più originali e promettenti del panorama italiano, ma i riflettori puntati non sembrano averli cambiati più di tanto. La principale differenza rispetto al passato è la maggior facilità nel fare i film, ma anche nel pubblicare le loro poesie e addirittura un libro fotografico. «Adesso ci vogliono tutti» commenta Damiano. Barba lunga, capelli scomposti, look casual, i due gemelli sono più uniti che mai dopo la prima grande prova internazionale e dopo Favolacce, che arriva oggi nei principali store digitali italiani.

Dalla periferia di La terra dell’abbastanza alla provincia di Favolacce, i D’Innocenzo operano un decentramento per raccontare uno spaccato sociale tutto sommato tradizionale, nonostante la crisi economica che incombe, ma sotto la cui superficie serpeggiano nevrosi e disagio. La novità è che stavolta al centro della storia non vi è più l’adolescenza criminale bensì l’infanzia. Un’infanzia che nasconde risvolti inquietanti. La tensione, in Favolacce, traspare in controluce nella quotidianità, dai giochi e dai comportamenti dei piccoli protagonisti e guida la storia verso un climax imprevedibile. Questo, per i D’Innocenzo, era «l’unico modo possibile di raccontare questa storia che abbiamo scritto quando avevamo diciannove anni. Non avevamo strutturato il film in tre atti e non avevamo nessun tipo di velleità aristotelica del racconto classico, ma avendo visto tanti film e avendo in mente quello che volevamo raccontare abbiamo creato una struttura ipnotica. Succede poco, ma quel poco esprime una minaccia. Come diceva Carver, l’idea è dare il senso di una minaccia che sta per arrivare anche se poi magari non arriva. L’attesa è sempre più forte del fatto compiuto. Creare una prima parte di film rarefatta arrivando poi a un climax emotivo ci sembrava un bel contrappunto».

La scelta di raccontare l’infanzia, in Favolacce, ha portato i registi a selezionare un eccezionale cast di giovanissimi, facce meravigliose e innocenti che si contrappongono all’abbrutimento e alla volgarità degli adulti. Bambini incredibilmente consapevoli, nel film, che compiono scelte controcorrente in virtù della loro comprensione del mondo. Una visione senza dubbio fuori dal comune, ma non secondo il punto di vista dei D’Innocenzo, come ammette Fabio: «Da piccoli siamo sempre stati dei grandi osservatori, molto perspicaci. Sentivamo che c’era qualcosa che non andava, che c’era qualcosa di malinconico nel mondo, negli adulti. Mi dicevo “Quando crescerò capirò che mi sbaglio”. Sono cresciuto e ho capito che avevo ragione io. Da piccolo ero molto lucido, poi crescendo ti annacqui un po’. Ora sono molto benevolo coi miei 30 anni, ma se mi fossi visto da piccolo mi sarei fatto schifo».

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Eppure hanno molto di cui essere soddisfatti i D’Innocenzo, entrati nell’industria italiana dalla porta principale con un’opera prima lodata unanimemente dalla critica a cui è seguita la collaborazione con Matteo Garrone alla sceneggiatura di Dogman. «Questa è la porta principale, ma prima noi eravamo i ladri. Ci cacciavano tutti» scherzano loro. «Noi non abbiamo fatto scuole di cinema, abbiamo fatto l’Alberghiero. A diciannove anni ci siamo detti “Proviamo a fare cinema”, ma ce lo siamo detto tra noi, senza che nessuno lo sapesse. Non avevamo strumenti né conoscenze, ma sapevamo quello che volevamo fare. Volevamo scrivere, per noi il film era finito quando era finito lo script, così abbiamo scritto trenta copioni. Poi abbiamo conosciuto Alex Infascelli, che ci ha portato dal suo agente e abbiamo iniziato a fare i ghostwriter. Questo ci ha permesso di collaborare con tanti registi importanti e di conoscere tanti tipi di cinema. Poi abbiamo collaborato con Matteo Garrone e quando gli altri lo hanno saputo hanno cominciato a chiamarci. Se ci meritiamo di aver vinto a Berlino è per quei dieci anni che abbiamo passato a faticare».

Sempre d’accordo nelle risposte, che si spartiscono equamente, Fabio e Damiano D’Innocenzo sembrano incarnare tutti i luoghi comuni sui gemelli, presentandosi al photocall della Berlinale tenendosi per mano. «Anche se cerchiamo di simulare una certa nonchalance, la vittoria a Berlino è stata davvero significativa per noi» ammette Damiano. «Prima di essere registi, siamo cinefili e siamo cresciuti coi film di Berlino. Per noi fare i registi vuol dire avere i soldi per poter andare al cinema. Non posso negare che la notte prima della proiezione al Festival ho fatto fatica ad addormentarmi. Per affrontare tutto questo avevo bisogno della stretta di mano di mio fratello e lui della mia». Questa simbiosi che vivono i due registi si ripropone anche nel lavoro, ma è proprio vero che non litigano mai? «Sul set di Favolacce ci è capitato in due occasioni di essere in disaccordo» svela Fabio. «Ci siamo chiusi in camerino a parlare e quando siamo usciti avevamo trovato l’accordo. Nel film precedente, che era il primo, siamo stati quasi tutto il tempo chiusi in camerino».