La terra dell’abbastanza: vivere o morire con i fratelli D’Innocenzo

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l percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle, Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il loro primo film, presentato con successo qualche mese fa al Festival di Berlino nella sezione Panorama. La terra dell’abbastanza (qui il trailer ufficiale), nei cinema italiani a partire dal 7 giugno e già venduto in diversi paesi stranieri, racconta una storia molto dura attraverso un approccio antiretorico e sorprendentemente autentico, che permette un’immersione completa dello spettatore nelle vicende narrate. Per approfondire il lavoro fatto sul film e la loro visione della settima arte, abbiamo conversato a lungo con i generosi e instancabili fratelli, che oltre ad aver recentemente collaborato con Garrone per Dogman, hanno già pronta la prima stesura della sceneggiatura del prossimo progetto: un western sui generis che affronterà il tema archetipico del rapporto tra uomo e donna, le cui riprese sono previste per maggio dell’anno prossimo.

Del neorealismo il teorico Christian Metz sottolineava la capacità di far emergere «istanti di verità», riconducibili a una «verità di un atteggiamento, di un’in essione di voce, di un gesto, di un tono». Mi sembra che La terra dell’abbastanza abbia intimamente a che fare con questo concetto e sia in grado così di sprigionare un notevole grado di realismo.

Damiano: Cogli un aspetto importante. Per ricreare un forte effetto di realismo abbiamo puntato molto su componenti che forse non saltano immediatamente all’occhio, come la scenografia di Paolo Bonfini, la fotografia di Paolo Carnera e i costumi di Massimo Cantini Parrini. Si è trattato di un grande lavoro di squadra. L’obiettivo era quello di raccontare la nostra storia evitando tanto le edulcorazioni quanto, come ad esempio si è visto di recente in qualche film italiano, l’elogio al contrario di una periferia brutta e sciatta mostrata solo attraverso colori grigi e mancanza di linee prospettiche.

Fabio: C’è una profonda differenza tra il reale, che è una cosa che non mi piace per nulla al cinema, e il realistico, che invece è una cosa che adoro. Il film, anche dal punto di vista figurativo, ha degli elementi non puramente reali ma trasfigurati, dei primi piani e delle luci particolari che sono più sensoriali che reali. Cos’è veramente realistico, in fondo? L’emozione. E l’emozione spesso si lega al ricordo, che a propria volta si lega a pochissimi elementi che ci restituiscono un evento non in maniera nitida e oggettiva, ma attraverso il filtro del nostro stato d’animo connesso a quel particolare momento. Fare cinema nella nostra visione è proprio cercare di filmare il realismo, laddove però per realismo si intende una sorta di realismo antropologico, delle emozioni e delle percezioni.

La regia si alimenta soprattutto di primi piani e inquadrature ravvicinate, a cui si aggiungono inquadrature larghe sul contesto della periferia. Come avete lavorato sullo stile per ottenere un coinvolgimento così potente dello spettatore?

Fabio: È stato il film stesso a suggerirci la linea da seguire dal punto di vista estetico. Avendo scritto una storia che viaggia in parallelo con il protagonista e ha la carica immersiva molto forte di cui parli, era naturale andare a scavare sui primi piani per cercare di leggere quello che i personaggi stavano vivendo. Più che i fatti che si succedono, ci interessava mettere in luce come essi vengono percepiti dai personaggi. L’intento era di indagare il loro pensiero, la loro emotività, il loro senso di colpa e questa cosa era possibile farla solo standogli fisicamente addosso con la macchina da presa.

Damiano: Il nostro approccio alla regia è stato anche istintivo e lo vedo molto legato alla grande passione che abbiamo per il disegno. Disegnando entrambi da moltissimi anni ed essendo abituati a selezionare velocemente ciò che deve essere visibile o meno su carta, generalmente abbiamo un’idea piuttosto chiara di cosa vogliamo o non vogliamo mostrare in un’inquadratura. A proposito del contesto della periferia cui accennavi rispetto ai campi lunghi presenti nel film, ci tengo a dire che per noi La terra dell’abbastanza è un film che tratta essenzialmente il tema dell’amicizia, in maniera credo profonda e spero anche un po’ contraddittoria. Abbiamo deciso di ambientarlo in periferia perché è un mondo che conosciamo bene, ma si tratta semplicemente di uno sfondo.

Le interpretazioni di Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano sono sorprendenti, così convincenti da sembrare quasi che i due attori interpretino se stessi. Come li avete guidati in questo percorso di immedesimazione?

Fabio: Il nostro copione, per il modo in cui descriveva odori, sensazioni ed emozioni dei personaggi, più che una sceneggiatura sembrava un romanzo. Sapevamo che diverse delle cose scritte non sarebbero state materialmente filmabili, ma hanno rappresentato un punto di riferimento importante tanto per gli attori quanto per i vari caporeparto. Matteo e Andrea non provengono dalla periferia ma conoscono benissimo la vita, hanno una grande curiosità nei confronti delle persone e dei loro mondi. Da questo punto di vista li vedo quasi come due antropologi: possiedono una sensibilità estrema e una capacità di capire l’animo umano che è veramente ammirevole.

Damiano: Io e Fabio abbiamo avuto diverse esperienze nel mondo del teatro collaborando con personaggi come Valerio Binasco ed Elena Arvigo. Tante figure del teatro contemporaneo conosciute nel corso degli anni ci hanno in influenzato per quanto riguarda la direzione degli attori. La cosa che non mi sarei mai aspettato lavorando con due ragazzi giovani come Matteo e Andrea era riuscire con una tale naturalezza e facilità a creare un dialogo così profondo e stimolante. Sicuramente in futuro continueremo a lavorare con entrambi, perché è stata un’esperienza molto bella.

Il film è prodotto da Pepito Produzioni con RAI Cinema e con il sostegno del MIBACT e della Regione Lazio. Come è nata invece la collaborazione con Matteo Garrone per Dogman? Come siete entrati in contatto con un regista del suo calibro?

Fabio: Ci siamo incontrati per caso una sera a cena, abbiamo avuto l’opportunità di parlare molto di cinema e fra noi è emersa subito un’affinità. Matteo proprio in quel momento stava scegliendo il nuovo progetto a cui dedicarsi. Dogman lo portava avanti da dieci anni, da prima di Gomorra. Ci ha fatto leggere le differenti stesure del film, e con lui e con i suoi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti ci siamo messi a lavorare su quel materiale. Essendo la storia ambientata in una periferia, che poi in realtà è andata progressivamente trasformandosi in una periferia dell’anima, una sorta di non-luogo, il nostro contributo è stato quello di fare in modo che dialoghi e situazioni risultassero reali. Le sceneggiature a casa di Matteo si scrivono attorno a un tavolo, quasi ad alzata di mano, ed è tutto ben pianificato. Io e Damiano dicevamo la nostra, rilanciavamo idee su personaggi che non c’erano nelle prime versioni, davamo tutto quello che potevamo offrire. Matteo ci ha fatto un regalo davvero straordinario.

Damiano: La nostra collaborazione alla scrittura di Dogman è durata circa due mesi. Tutti i giorni lavoravamo dalle 10 alle 18. Si spegnevano i telefoni e c’era solo una piccola pausa per andare in mensa a pranzare. Lavorare con Matteo ci ha fatto capire tanto sul cinema, che non è come spesso si dice una cosa per pochi eletti o per chi ha un dono particolare, ma più di ogni altra cosa presuppone impegno e lavoro quotidiano. A proposito del nostro primo incontro, ricordo che appena ci ha visto alla cena ci ha squadrato e ci ha detto che avremmo potuto fare gli italo-americani in un film. Noi gli abbiamo raccontato che stavamo preparando il nostro primo lungometraggio, lo abbiamo incuriosito e così ci ha chiesto se volevamo seguirlo in un altro locale dove stava andando. È iniziato tutto in questo modo e alla fine ci siamo ritrovati a collaborare con lui nella sua casa agli Studios della Tiburtina. Un sogno.