Federico Demattè e il suo Inchei, che “in rumeno significa finire”

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Un'immagine da "Inchei", il corto di Federico Demattè vincitore all'ultima edizione della SIC.

Adolescenza: quel periodo della vita in cui solo i nostri coetanei sembrano comprenderci. Cosa succederebbe se in una fase così delicata fossimo costretti ad allontanarci proprio da loro? Tenta di dare una risposta a questa domanda Inchei, cortometraggio di esordio di Federico Demattè, vincitore come Miglior Short Film e Miglior Regia alla Settimana Internazionale della critica nell’ambito del Festival di Venezia 2021. La motivazione della giuria recita: «per la narrazione libera da ogni sovrastruttura che permette ai protagonisti di essere completamente credibili».

“Inchei” è una parola rumena che significa “finire”. Il film racconta di Armando, ragazzo rom di 15 anni che vive con la madre e i fratelli tra le baracche della periferia di Milano Est; nel pieno della sua adolescenza è costretto a lasciare amici e amori per partire con la famiglia alla volta di Berlino, dove il nuovo compagno della madre è riuscito a trovare un lavoro. Federico Demattè nasce a Trento nel ’96, si sposta nel 2016 a Berlino, poi a Londra e dopo tre anni torna in Italia pubblicando il romanzo Jennifer salta giù. Attualmente frequenta l’Accademia Naba a Milano.

Il tuo arrivo nel mondo del cinema avviene con un film che parla di addii: perché questa scelta?

La partenza è un tema che mi ha da sempre affascinato. Paradossalmente ho sempre iniziato i miei lavori parlando di momenti finali, addii: quando suonavo in una band musicale, il primo EP parlava della nostra partenza da Trento e il mio primo romanzo raccontava di quella per Berlino. È un tema che torna spesso nel mio lavoro: forse è la mia tendenza a farmi affascinare dalla nostalgia e dalla malinconia, sentimenti che mi suggeriscono tante sfumature narrative ed estetiche.

Come hai conosciuto Armando e perché hai scelto proprio la sua storia?

Prima di conoscere Armando avevo già scritto la sceneggiatura del corto, volevo parlare della partenza di un ragazzo rom. Armando mi è stato consigliato da un’assistente sociale per la sua situazione insolita: la sua famiglia, rom, aveva deciso di staccarsi dai campi nomadi e di vivere in una sorta di ibrido, una vita nelle baracche piena però di conoscenze e frequentazioni milanesi. Di Armando mi ha colpito subito la dolcezza, è un ragazzo molto sensibile e di grande empatia. E dal punto di vista “antropologico” è stato naturalmente molto interessante osservare il suo essere rom e al contempo adolescente milanese al 100%.

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Armando Barosanu in “Inchei”.

Con Inchei hai vinto il premio come miglior regia per «la capacità di entrare in intimità con i personaggi e gli ambienti». Come ci sei riuscito?

In molti hanno pensato che le scene che mostro nel cortometraggio fossero state “spiate”, mentre in realtà scaturiscono dall’intimità che io e gli attori abbiamo costruito insieme. Si è creata una grande vicinanza fra noi della troupe e i ragazzi e questo anche grazie al fatto che per mesi ci siamo visti e abbiamo progettato insieme battute e scene. Alla fine osservavo la compagnia di amici di Armando e, sempre per riprendere il discorso della nostalgia, mi sembrava di rivedere la mia vecchia comitiva di amici sedicenni di Trento.

Come è andata con la famiglia di Armando?

Inserirmi all’interno della famiglia è stato più complesso. La sintonia con i ragazzi è avvenuta in maniera più naturale, mentre con la madre di Armando all’inizio non nego che ero in imbarazzo. Ero frenato da scrupoli morali, non ero sicuro che fosse realmente giusto entrare così dentro le loro faccende personali. Gradualmente però ci siamo avvicinati gli uni agli altri e alla fine ciò che era nato come un “mio” progetto è diventato un obiettivo condiviso. Si è creata una sorta di simbiosi di sogni.

Nasci a Trento, nel 2016 ti  sposti a Berlino, poi a Londra e infine a Milano. A differenza di Armando tu non sembri temere cambiamenti e addii.

Ricerco in continuazione il cambiamento e contemporaneamente ne ho paura, ma mi consola il fatto che novità e futuro alla fine terrorizzano un po’ tutti. Sono un carattere fragile, sensibile e sempre indeciso ma sento di avere dei sogni così grandi che non posso contenerli. Quando si tratta di seguire questi sogni metto la paura da parte, anzi la uso proprio come fosse un mezzo per raggiungerli

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