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Stefania Covella

Charlie Chaplin: Il monello tra un sorriso e, forse, una lacrima

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Bombetta, baffetti e bastone da passeggio, pantaloni sformati e scarpe consunte, il vagabondo Charlot (The Tramp) emotivo, malinconico e disincantato è l’emblema dell’alienazione umana nell’era del progresso industriale. Charlot è il personaggio attorno al quale Charlie Chaplin, la personalità più influente del cinema muto, ha costruito gran parte delle sue opere. Fellini lo definiva «l’Adamo del cinema», un po’ come se fosse il punto zero, l’origine primordiale della settima arte.

L’attore e regista inglese è stato tra i primi a capire il profondo potere simbolico del grande schermo, le sue idee fatte di immagini e silenzi in realtà gridavano più di qualsiasi altra cosa, così Charlot incarna lo spirito del Novecento, l’uomo schiacciato dal progresso, dalla guerra e dalla miseria, ma comunque testardo e vitale.

charlie chaplin

Il monello (The Kid) è l’opera prima di Charlie Chaplin, film culto del 1921 con protagonisti lo stesso Chaplin con Jackie Coogan e Edna Purviance. Le riprese della pellicola durano circa diciotto mesi, un periodo che coincide con una serie di infausti eventi che sconvolgono la vita privata di Chaplin: perde il primo figlio poco prima dell’inizio della lavorazione, il suo matrimonio finisce durante le riprese e il film rischia il sequestro. Alcune di queste vicende autobiografiche, sembrano in qualche modo confluire nell’opera, ma in modo lieve e quasi impercettibile, come la regia stessa. Infatti, il regista inglese usa la macchina da presa con discrezione: pochissimi prima piani, riprese frontali a distanza fissa, composizione che valorizza al massimo la recitazione dell’attore che è quasi sempre al centro dell’inquadratura. Dopotutto, Stanley Kubrick stesso sintetizza Il Monello definendolo «niente stile, tutto contenuto».

Il protagonista è un orfano abbandonato dalla madre e trovato per caso da un povero vetraio, che si improvvisa padre e lotta contro tutte le avversità che gli si abbattono addosso, tra toni burlesque e cupi insieme, in una Londra divisa tra ricchi e poveri, il vagabondo e il monello cercheranno di sopravvivere e di restare uniti. Guardando gli occhi pieni di lacrime del piccolo Jackie Coogan strappato dalle braccia di Charlot per essere spedito in orfanotrofio, è sconvolgente rendersi conto che quei fotogrammi hanno quasi novant’anni e che fanno parte dell’immaginario collettivo, uno sguardo puro che si fa cinema senza ricorrere a nient’altro se non all’empatia dello spettatore.

charlie chaplin

Il monello si caratterizza già come un insieme di quelli che saranno i temi portanti del cinema chapliniano: la denuncia sociale, l’attenzione al mondo degli svantaggiati, la fusione tra comico e melodramma, la cura dell’altro e la speranza. In Il monello, Chaplin adotta un approccio emotivo, ed è qui che ha origine questa commistione tra risata e dolore che caratterizza tutta la produzione di Chaplin, così il suo slapstick irriverente si fonde al sentimentalismo. Furono in molti a criticare questa scelta stilistica, ma il successo del film è indubbio, nonostante il delicato equilibrio che rende la pellicola uno strano ibrido tra un melodramma sentimentale e un film comico.

Alla fine, è semplicemente la storia di un bambino che sperimenta la paura dell’abbandono e il bisogno di sentirmi amato e al sicuro e non esiste niente di più universale e intimo insieme. Chaplin mette in risalto una maternità sofferta e raramente rappresentata sul grande schermo e un legame famigliare non tradizionale, anzi, un nucleo totalmente improvvisato ma non per questo meno vero. «A picture with a smile and, perhaps, a tear», questa è la frase storica che apre Il monello e che sinterizza e racchiude, forse, l’intera filmografia di Charlie Chaplin.

Terrence Malick e La rabbia giovane, on the road per le Badlands

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Terrence Malick è considerato il J. D. Salinger del cinema: ha concesso pochissime interviste, stipulato un contratto che impedisce di usare la sua immagine a fini promozionali e ha dato il suo benestare per un documentario sulla sua vita, Rosy-Fingered Dawn – Un film su Terrence Malick (2002) diretto da Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann,  Gerardo Panichi e Daniele Villa, dove però non appare mai e la sua figura è descritta attraverso le interviste a colleghi e amici.

Malick inizia la sua carriera come script-doctor, non sempre accreditato e, nel 1973, scrive, dirige, interpreta un piccolo ruolo e finanzia personalmente la sua opera prima: La rabbia giovane (titolo dalla traduzione banale rispetto al più evocativo Badlands), un film indipendente interpretato da Martin Sheen (Kit) e Sissy Spacek (Holly), ispirato alle vicende reali del serial killer Charles Starkweather e della giovane compagna Caril Ann Fugate, negli anni ‘50. Un road-movie introspettivo, una spirale di delitti, una favola americana di amore e ribellione. Kit e Holly sono mossi dalla stessa inquietudine, lei scrive tutto sul suo diario – con piglio innocente – lui segue i suoi impulsi omicidi, persi e senza una direzione si muovono con la loro giovinezza rabbiosa per il paesaggio tragico e deserto delle Badlands.

Terrence Malick

Gli omicidi perpetrati dalla coppia, quindici anni lei e venticinque lui, sono un viaggio verso la follia. Se Holly li vive come in stato di trance e senza un’effettiva partecipazione emotiva, Kit sfiora la schizofrenia mentre i suoi attacchi di rabbia si fanno sempre più incontrollabili. Ma è proprio Kit l’anello debole, quasi ricerca la cattura come una liberazione, dall’inizio è destinato a compiere quel suicidio inventato per depistaggio, che sia in un incendio o su una sedia elettrica, la morte è l’unico modo di essere libero. Mentre Holly se la cava con poco, prima di sposare un uomo qualunque e tornare alla vita normale alla quale è destinata.

L’esordio di Malick è un film insolito, accolto con sorprendente entusiasmo alla sua anteprima al New York Film Festival. La pellicola con la sua originalità e l’altissimo gusto estetico, nonostante il budget ridotto, colpisce la Warner Bros che ne acquista i diritti e la distribuisce, pagando una cifra tre volte più alta del budget del film, cogliendo il significato sociale dell’opera che delinea in modo realistico la realtà provinciale della parte più selvaggia degli Stati Uniti.

La rabbia giovane ha già in sé tutte quelle che sono le caratteristiche del cinema di Malick: la rappresentazione cruda degli avvenimenti, l’importanza della natura selvaggia, il rapporto uomo-natura, la voce fuori campo introspettiva (quella di Holly, in questo caso), la fotografia curata e l’attenzione per la colonna sonora. Questo dimostra la chiarezza di idee, lo stile già formato e la visione che Malick ha del mondo, che nel corso della sua filmografia non cambia ma matura lentamente, sfiorando vette di perfezione assoluta.

Terrence Malick

Un po’ Lolita e un po’ A sangue freddo, l’opera prima di Terrence Malick è poetica e letteraria prima ancora che cinematografica, ma basterebbe dire che Bruce Springsteen ha tratto ispirazione da La rabbia giovane per incidere il singolo Nebraska, per capire che è uno dei film più evocativi degli anni ’70, un vero e proprio cult-movie.

Terrence Malick è un autore dai contenuti duri e spietati, che presenta al grande pubblico ritratti di uomini in crisi, con sé stessi e con la società della quale fanno parte. Malick ha uno stile unico, filosofico e spirituale, ed è noto per il suo perfezionismo maniacale e per la sua capacità intrinseca di dividere sempre pubblico e critica. Il regista americano ha segnato l’arte cinematografica con una ritrovata poesia visiva di rara bellezza, meritandosi piogge di candidature agli Oscar e un posto tra i grandi del cinema.

La commare secca e la poetica contaminata di Bernardo Bertolucci

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Gli anni ’60 sono un periodo di svolta per il cinema italiano, si sta congedando il cinema classico per far posto a una nuova generazione autoriale, il successo di Accattone di Pasolini fa da apripista ad altri famosi esordi cinematografici. Ed è in questa finestra di tempo che si colloca Bernardo Bertolucci, a ventuno anni è l’esordiente più giovane della storia del cinema italiano. La commare secca (1962) è la sua opera prima, l’impronta pasoliniana è innegabile: Pasolini scrive il soggetto e gli consiglia di usare attori non professionisti, i due sono amici e Bertolucci è anche stato il suo assistente alla regia in Accattone.

Il film narra, attraverso dei flashback, l’indagine sull’omicidio di una prostituta nella periferia romana. La morte della donna (Vanda Rocci), trovata sulle rive del Tevere, viene narrata attraverso i racconti di vari personaggi, in una messa in scena che moltiplica i punti di vista. Il carabiniere (Gianni Bonagura) che interroga ragazzi di vita, ladruncoli e criminali trovati nei pressi del luogo dell’omicidio, è una voce off e lontana, come il potere che rappresenta.

I principali indiziati sono: il Canticchia (Francesco Ruiu), il Califfo (Alfredo Leggi), il soldato Teodoro (Allen Midgette), Natalino (Renato Troiani) e due adolescenti Francolicchio (Alvaro D’Ercole) e Pipito (Romano Labate). I due ragazzi si fanno adescare da un uomo e lo derubano per poter uscire il giorno dopo con delle coetanee, a raccontarlo però è solo uno dei due, perché nella fuga uno annega nel fiume. Ed è proprio la vittima del furto a rivelarsi fondamentale per risolvere l’indagine, perché è stata testimone oculare dell’omicidio e riconosce in Natalino l’assassino.

bernardo bertolucci

La particolarità della pellicola sta nei diversi punti di vista, ogni personaggio ha una propria visione del mondo e questo Bertolucci lo mostra dirigendo ogni episodio con uno stile personalizzato. Un relativismo profondo, dove l’unica certezza resta la morte, a rivelarcelo è il sonetto di Gioacchino Belli che fa la sua comparsa nell’inquadratura finale: «e già la commaraccia secca de strada Giulia arza er zampino», la commare secca del titolo è proprio la morte, alfa e omega della pellicola di Bertolucci. Il giallo viene risolto, ma quello che conta davvero è lo spaccato sociale dell’epoca che il film ci mostra, in un bianco e nero perfetto e con una cifra stilistica ben definita, nonostante la forte influenza pasoliniana.

I personaggi di Bernardo Bertolucci si muovono nella periferia del mondo, disperati e ai margini cercano un modo per andare avanti in una vita che non lesina colpi bassi. Le storie che sceglie di narrare sono drammatiche, divise tra poveri e potenti, angeli e demoni, vittime di un tormento interiore o in balia degli eventi, tra lotta di classe, rivoluzione, sesso e droga.

Pasolini ha dichiarato «È stato girato contro di me», non in senso dispregiativo ma perché scrivendo il soggetto si è ritratto nel personaggio dell’omossessuale adescatore, in modo simbolico e autoironico. Il film riceve un’accoglienza un po’ fredda dal pubblico e dalla critica, qualcuno consiglia a Bertolucci di tornare a fare il poeta, come il padre Attilio. Una piccola parte di critica però ne apprezza proprio gli eccessi e scorge quella scintilla di talento che avrà poi modo di splendere nelle sue opere successive.

la comare secca

La commare secca si caratterizza per una poetica ambigua e contraddittoria, che esalta il senso di smarrimento dell’uomo comune. La mano di Bertolucci si nota soprattutto nelle scene di ballo, che diventeranno ricorrenti nella sua filmografia, molto bella quella nel finale che porterà al riconoscimento dell’assassino. L’opera prima di Bertolucci si rivela una pellicola popolare ma lirica, un po’ Rashomon di Akira Kurosawa e un po’ tragicommedia pirandelliana, La commare secca è un film imperfetto e contaminato da troppe influenze, ma contiene il germe di autenticità di un cinema che si rivelerà più innovativo del previsto, mosso da passione civile e dal rifiuto degli eroi.

Bernardo Bertolucci è l’autore di capolavori come Novecento e L’ultimo imperatore, il film da nove Oscar, che ha fatto la storia del cinema. Se lo sarà pure portato via la commare secca, ma i suoi film non saranno mai dimenticati.

La bella vita di Paolo Virzì, tra triangoli amorosi e Notti magiche

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Al cinema l’ultimo film di Paolo Virzì, Notti magiche, si classifica al settimo posto del box office, mettendo al centro una storia di meta-cinema: un famoso produttore viene trovato morto nel Tevere la notte del 3 Luglio 1990 e i principali sospettati sono tre giovani aspiranti sceneggiatori. La figura dello sceneggiatore è centrale non solo nel nuovo film di Virzì, ma lo è nella sua carriera, dall’opera prima La bella vita, che segna l’inizio del lungo sodalizio artistico con il talentuoso sceneggiatore e amico Francesco Bruni, che lo accompagnerà nei suoi maggiori successi, da Ovosodo a Il capitale umano. Paolo Virzì è il regista morale del cinema italiano, racconta la società e i suoi drammi dolceamari con un tocco ironico e intelligente. Cantore della vita quotidiana, dalla mancanza di lavoro alla precarietà dei sentimenti e del futuro.

La bella vita, anche se prima si chiamava Dimenticare Piombino, dalla città toscana che fa da sfondo al film, racconta l’amore al tempo della crisi della classe operaia, un triangolo amoroso interpretato da Sabrina Ferilli, Massimo Ghini e Claudio Bigagli. Il film è girato con un budget molto ridotto, usando figuranti locali e scenografie di fortuna, ma ottiene un ottimo incasso. Presentato con successo nel 1994 alla Mostra del cinema di Venezia, il film viene premiato con il Ciak d’oro, il Nastro d’argento e il David di Donatello come miglior esordio.

paolo virzi

Bruno (Claudio Bigagli) è un operaio metalmeccanico nelle acciaierie di Piombino e Mirella (Sabrina Ferilli) lavora come cassiera in un supermercato. Sono sposati da pochi anni e il loro matrimonio è in bilico: Bruno perde il lavoro a causa della crisi del metallurgico e Mirella prova una forte attrazione per Gerry Fumo (Massimo Ghini, con un piglio da Sceicco bianco felliniano) – nome d’arte di Gerardo Fumaroni – divo e presentatore di una piccola emittente televisiva locale. Bruno finisce in cassa integrazione, trascura la moglie e tenta con un lavoro in proprio, mentre Mirella cede alle avance di Gerry e tradisce il marito, anche se si rende conto molto presto che, la sua scappatoia verso una vita mondana, è solo un’illusione. Infelici e separati, i due si tengono in contatto con una corrispondenza epistolare, trovando una vicinanza nuova nella lontananza.

Bruno è la voce narrante della vicenda e ci permette di entrare subito in empatia con le sue sfortunate vicende, Virzì ama i suoi personaggi e ne mostra pregi e difetti senza giudicarli, li svela con una delicatezza affettuosa che scalda il cuore. La vicenda è godibile con una regia rudimentale fatta di scene ferme e primi piani e una sceneggiatura ironica e scorrevole, anche se ancora molto ancorata al modello classico della commedia italiana. La bella vita è una tragicommedia social-sentimentale, fatta di amori, scioperi, tradimenti e cassa integrazione, con un enorme debito verso Romanzo popolare di Mario Monicelli.

la bella vita

Si disfa la coppia e si disfano le certezze di quel tessuto sociale che perde i suoi punti fermi: il lavoro sicuro, la famiglia e la stabilità. Le cassiere, nei loro tristi spogliatoi, cantano Vaffanculo di Marco Masini, scena iconica che sottolinea l’aspetto popolare del film, presente nel titolo stesso della pellicola, perché a fare la bella vita forse è il cassaintegrato Bruno che non lavora ma percepisce lo stipendio o è Mirella – un po’ Madame Bovary di provincia – che tenta l’avventura mondana.

La verità è che la bella vita, quella priva di preoccupazioni, non appartiene alla generazione operaia degli anni ’90, in crisi d’identità. Crollano le certezze dei protagonisti che si ritrovano a cercare appigli un po’ a caso, con scarso successo, il mondo sta cambiando intorno a loro e non sono pronti, restano vittime di un cambiamento del quale non possono mantenere il passo.

Accattone di Pier Paolo Pasolini, intellettuale corsaro

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Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale corsaro, come i suoi scritti, e uno dei più grandi protagonisti del Novecento italiano. La sua vita ha destato scandalo, il mistero irrisolto del suo omicidio fa ancora discutere e la sua impronta sulla storia del cinema e della letteratura è indelebile.

Pasolini inizia a lavorare nel mondo del cinema nel 1954 come sceneggiatore per Soldati, Fellini e Bertolucci (per il suo esordio, La commare secca), che era anche il suo aiuto regista in Accattone. L’opera prima di Pasolini è stata costellata di problemi in fase di produzione e distribuzione: Accattone (1961) doveva essere prodotto da Federico Fellini che però si era tirato indietro all’ultimo momento, scontento del girato giornaliero, valutato come sgrammaticato, consigliando lapidario a Pasolini «torna a scrivere, è meglio».

La pellicola del regista friulano è una metafora di quella parte di Italia che vive nelle periferie delle grandi città, senza poter sperare di migliorare la propria condizione. La scelta di utilizzare soprattutto attori non-professionisti, nasce dalla convinzione di Pasolini che i ragazzi di vita non siano rappresentabili, poiché sono soggetti incontaminati e privi di sovrastrutture sociali.

accattone

Accattone è il soprannome di Vittorio Cataldi (un iconico Franco Citti), un sottoproletario che tenta di sopravvivere nella periferia romana. Accattone vive di espedienti, lascia la moglie, tradisce gli amici, sfrutta una prostituta, ruba, si mette nei guai e perde la vita in un incidente. Pasolini ritrae in modo impietoso, ma per certi versi glorificante, una gioventù sola e disgraziata ma anche felice, in modo spudorato e incontenibile. Accattone è un film duro, come era dura la vita nelle periferie del mondo, ma è anche poetico, un inno all’amore per gli esseri umani fragili, corrotti e senza speranze.

Il costo approssimativo del film si aggira intorno al budget di una pellicola di serie B, circa cinquanta milioni. Presentato alla 26ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia – fuori concorso – il 31 agosto 1961, il film di Pasolini riceve critiche e aspre contestazioni. Memorabile la prima romana del film, al cinema Barberini, dove un gruppo di giovani neofascisti cerca di impedirne la proiezione, lanciando contro lo schermo bottiglie d’inchiostro e finocchi, per sbeffeggiare l’omosessualità di Pasolini. Il film riceve anche il blocco della censura, Accattone infatti è stato il primo film del cinema italiano ad essere vietato ai minori di 18 anni.

L’esordio di Pasolini viene spesso catalogato come uno dei film più importanti della storia del cinema italiano, ma è anche un simbolo di innovazione e di un nuovo tipo di autorialità. Il punto di forza della pellicola sta nel realismo della recitazione, Pasolini fotografa la realtà come nessun altro regista sa fare, anche se non è visionario come Fellini e non ha la padronanza tecnica del mezzo che caratterizza la regia di Antonioni. Mette in scena la vita vera così come è ed è questo che rende il suo cinema la perfetta metafora della realtà.

accattone

La macchina da presa di Pasolini segue il protagonista lungo le strade polverose di un’estate romana bruciata dal sole, nella borgata, tra le baracche e le macerie, e lo fa con uno stile essenziale: pochi movimenti di macchina, numerosi primi piani, con quello stile un po’ agé da film muto. Con la splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e il montaggio dal ritmo perfetto di Nino Baragli, che contribuiscono a una resa perfetta dei tempi e delle immagini.

Accattone con i suoi ladri e le sue prostitute, mostrando l’ultimo tra gli ultimi, strappa il cinema alle star di Hollywood e regala ai suoi ragazzi di vita un posto nell’immaginario comune del novecento. Pasolini porta sul grande schermo un cinema poetico che non si fa merce e non serve il potere, scomodo e sincero. Questo lo sapeva bene, di Accattone lui stesso diceva «non sarà nemmeno un film bello, non lo so; l’ho immaginato come un film angoloso, fuori delle regole, con la macchina da presa costantemente puntata sulle facce dei protagonisti. Sarà comunque un film sincero».

Er mondo è de chi cià li denti, ci ricorda il film, il cinema è di chi ha uno sguardo nuovo sulle cose e nessuna paura, come Pier Paolo Pasolini che non voleva compiacere nessuno, solo far sentire la sua voce.

80 anni di Pupi Avati: Balsamus, l’uomo di Satana

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Giuseppe Avati, noto come Pupi: così lo chiama la madre e poi il mondo intero, con il diminutivo del nome di un violinista austriaco. Pupi Avati, forse più di chiunque altro, rappresenta la scalata di un uomo comune verso il cinema e di quanto la solidarietà – una mano tesa – faccia la differenza. Quella abissale però, alla Sliding doors.

Dall’ambiente del cinema, Avati ha dichiarato spesso di essersi sentito più compatito che apprezzato, un regista di storie familiari – come diceva la critica Emilia Costantini – cantore di Bologna, scelta per orgoglio provinciale (quando ancora Bologna poteva considerarsi così): una città a misura del suo mondo, per farsi bello davanti agli amici, rivalersi sulle ragazze che non l’avevano amato e forse neanche capito «Ancora oggi quando faccio i miei film, in qualche modo sono come delle cartoline e delle lettere d’amore che mando ai miei amici, alle ragazze che mi hanno rifiutato». Con spirito ribelle si inventa un mestiere che non ha mai fatto, per farlo nel proprio posto sicuro del mondo, quasi al solo scopo di dimostrare qualcosa agli altri.

In cinquant’anni di prolifico lavoro Avati si è confrontato con un caleidoscopio di generi: dal biografico con La cena per farli conoscere, all’horror La casa delle finestre che ridono, al cinico Regalo di Natale. A premiarlo è stato soprattutto il pubblico capace di riconoscersi nel realismo e nella semplicità del suo cinema dei piccoli sentimenti.

pupi avati

Avati, prima del cinema, credeva che il suo grande sogno fosse il jazz, si è esibito come clarinettista dilettante tra il ’59 e il ’62 con la Doctor Dixie Jazz Band, almeno fino a quando Lucio Dalla non è arrivato a rubargli la scena. Almodóvar raccontava degli anni al call center come i peggiori della sua vita, Avati lo fa dei quattro passati a fare il rappresentante della Findus surgelati. La visione di 8½ di Federico Fellini, cambia tutto, gli mostra che i film possono racconta la vita, non sono solo storie di inseguimenti e cowboy.

La storia di Pupi Avati è anche quella delle grandi donne che l’hanno circondato e che hanno creduto nel suo sogno, dalla madre vedova, Ines, che ha venduto casa per aprire una pensione e avvicinarsi al centro della città per sostenere i suoi sogni, a Laura Betti che l’ha introdotto nel giro degli artisti che gravitavano in piazza del Popolo, portandolo alle cene con Moravia, Bertolucci e Pasolini, con cui poi ha scritto Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975).

Un alone di mistero circonda l’imprenditore che ha finanziato i suoi primi due film, un uomo incontrato al Bar Margherita che – come leggenda vuole – gli ha lasciato sedici assegni dal valore totale di 160 milioni di lire. L’opera prima di Pupi Avati è Balsamus, l’uomo di Satana (1968), la storia gotica e surreale di uno stregone. Balsamus (Bob Tonelli) – un chiaro riferimento al Conte di Cagliostro – è un ciarlatano, la gente si rivolge a lui credendolo capace di risolvere la sterilità, curare gli animali e creare elisir d’amore. Raccoglie attorno a sé una congrega di signore borghesi e, con la sua corte dei miracoli, vive in una grande dimora indossando abiti settecenteschi. Fisicamente incapace di amare la moglie, si suicida.

pupi avati

Ci sono già degli elementi tipici del cinema del regista bolognese: gli attori Gianni Cavina e Bob Tonelli, l’ambientazione bucolica e lo humor nero. In sala è un fiasco, un film approssimativo e atipico, pesante con qualche momento divertente e una colonna sonora disturbante, volutamente ossessiva. Si intuisce già la capacità di Avati di trarre il meglio dagli attori ed è apprezzabile il tentativo di catturarne i volti trasfigurati inseguendo suggestioni felliniane e pasoliniane.

Balsamus, l’uomo di Satana, resta una pellicola per cinefili appassionati e sognatori, amanti delle stramberie e dei misteri. Della sua opera prima, Avati dice: «essendo fortunatamente perduta, la possiamo considerare perfettamente riuscita, perché nessuno potrà mai vederla». Il film invece è talmente poco riuscito che Pupi si sente deriso dalla città intera, al bar lo prendono in giro e lui scappa a Roma. Quattro anni dopo, lo salva la generosità di Ugo Tognazzi. Se Avati è un uomo che ha fatto della sua umanità, delle debolezze portate addosso come medaglie, uno stile di narrazione e un accorciare le distanze con il pubblico, lo deve proprio a Tognazzi. L’attore, che ha recitato in due dei suoi film, si approcciava agli altri con una dichiarazione di debolezza, la prima cosa che raccontava di sé era un suo fallimento, anche molto personale e potevi essere autentico e rispondere con una tua debolezza, creando intimità e amicizia o restare spiazzato e perderlo.

Pupi Avati è un miracolo della provvidenza cinematografica, un sognatore che nella Bologna degli anni ’60 è passato dai bastoncini di pesce al cinema, dopotutto i sogni sono di chi li insegue fino alla fine (ne sa qualcosa Terry Gilliam). I film di chi si è arreso, dopotutto, non li ha visti nessuno.

25 anni senza Fellini: Lo sceicco bianco, tra miti e illusioni

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Federico Fellini è considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema, nell’arco di quasi quarant’anni, da Lo sceicco bianco (1952) a La voce della luna (1990), ha vinto cinque premi Oscar e dato vita a personaggi memorabili. I suoi film più celebri La stradaLe notti di CabiriaLa dolce vita e Amarcord sono entrati nell’immaginario collettivo cambiando il concetto di cinema e influenzando intere generazioni di registi (come racconta Spielberg).

Fellini a sedici anni è già innamorato del cinema, inizia da giovanissimo a disegnare fumetti satirici e a scrivere sui giornali, per poi cimentarsi nella sceneggiatura radiofonica e cinematografica. Roberto Rossellini lo chiama per collaborare a Roma città aperta e continua a lavorare come sceneggiatore con Lattuada, Germi e Comencini.

Il momento cruciale per Fellini è proprio il passaggio alla regia, quando non pensava di fare il regista ma credeva di bivaccare sornione nel limbo della sceneggiatura, irresponsabile e lontano dal lavoro collettivo. Il primo giorno di lavorazione de Lo sceicco bianco (1952) si rivela un fallimento: non riesca a girare neanche un’inquadratura. Parte da Roma all’alba con la sua Cinquecento, con il batticuore come poco prima di un esame, e si ferma a pregare in chiesa perché il portone che si apre gli sembra di buon auspicio.

lo sceicco bianco

Sulla strada buca una gomma e soffre al pensiero di essere in ritardo per la sua prima regia, per buon cuore un camionista siciliano gli cambia la ruota ma il coraggio è un servizio extra che non fornisce nessuno. La paura di Fellini è fortissima e mentre il motoscafo lo porta verso il barcone, dove già da un’ora è imbarcata tutta la troupe, non si ricorda neanche la trama del film; ma poi, posa il piede sul set ed è pronto all’avventura.

Lo sceicco bianco è un’opera creata da quelli che sarebbero stati i grandi nomi del cinema italiano: Michelangelo Antonioni è coautore del soggetto, Ennio Flaiano della sceneggiatura e il protagonista è un giovane Alberto Sordi. Il film ha uno stile umoristico e onirico che viene definito fantarealismo. La pellicola esordisce al Festival di Venezia, dove subisce lo snobismo di critica e pubblico, gli stessi che l’anno successivo lo premiano con il Leone d’Oro per I vitelloni.

Fellini nella sua opera prima smonta gli idoli, le illusioni e i fenomeni di costume della borghesia provinciale italiana del dopoguerra. La sua attenzione è però rivolta soprattutto ai sentimenti della protagonista e alla piccola tragedia personale che si compie nel cuore di Wanda, prima che nella vita dei coniugi Cavalli. Wanda (Brunella Bovo) ed Ivan (Leopoldo Trieste), sono in viaggio di nozze a Roma. Lei ne approfitta per recarsi alla redazione del suo fotoromanzo preferito per incontrare il protagonista: lo Sceicco bianco (Alberto Sordi).

lo sceicco bianco

Wanda capisce presto che il suo idolo è un uomo patetico e volgare e ne respinge le pesanti avances. Afflitta tenta di gettarsi nel Tevere ma viene salvata, mentre Ivan la cerca per tutta Roma e vive delle rocambolesche avventure che lo portano a dormire con una prostituta – senza però tradire la moglie. I due alla fine si ritrovano, un po’ disillusi e senza eroi.

In questa pellicola è palese la nostalgia felliniana per le icone popolari, che sempre l’hanno sedotto, La vita vera è quella dei sogni dice una signora alla spaesata Wanda e, man mano che la giovane vede il suo sogno svanire, le luci si fanno opache e Fellini ci mostra le bassezze di chi si preoccupa dell’onore, delle conoscenze in Vaticano e della retorica patriottica, prima che dei sentimenti.

Lo Sceicco Bianco è una commedia nel senso più stretto del termine, tratta il dramma umano, quello risibile, che racconta le illusioni e le spoglia e permette di grattare oltre la superfice della satira ecclesiastica, collegiale e goliardica. Perché alla fine il cinema, come la vita, a volte è un circo, un varietà di marcette e udienze pontificie e idoli vecchi e nuovi e siamo un po’ tutti borghesi e provinciali, mentre scordiamo l’autenticità per inseguire i miti.

Damiano Damiani e Il Rossetto della discordia

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Uno stacanovista e un perfezionista, Damiano Damiani, in ogni suo film dimostra una cura certosina della recitazione dei suoi attori e una profonda analisi della psicologia dei personaggi. Il suo cinema da artistico si fa civile e denuncia la violenza, le ingiustizie e l’uso del potere a scopi personali.

Damiano Damiani è noto al grande pubblico per la trilogia psicologica Il rossetto, Il sicario e L’isola di Arturo (tratto dall’omonimo romanzo di Elsa Morante), ma ha girato anche spaghetti western come Quién sabe? (1967) e Un genio, due compari, un pollo (1975). Soprattutto, è uno dei più grandi esponenti dei filoni del giallo all’italiana e di quello d’impegno politico-civile, con la pellicola Il giorno della civetta (1968), tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Mentre per la televisione ha diretto due celebri sceneggiati: La piovra (1984), serie sulla mafia per eccellenza, e Il treno di Lenin (1990).

In realtà Damiani esordisce con un documentario La banda d’Affori (1947) si dedica alla sceneggiatura e ci mette ben quindici anni per tornare dietro la macchina da presa. A trentanove, gira Il rossetto (1961), una storia ispirata a un fatto vero di cronaca: una donna assiste all’omicidio di una prostituta e si innamora dell’assassino, che la sfrutta per sfuggire alla giustizia.

il rossetto

In un quartiere imborghesito della periferia romana, l’ingenua tredicenne Silvana (Laura Vivaldi), si innamora del vicino di casa trentenne, Gino (Pierre Brice). La ragazzina l’ha visto uscire dall’appartamento di una prostituta che è stata trovata uccisa, Silvana non lo rivela alla polizia – che arresta un garzone innocente – e sfrutta la cosa per avvicinarsi a Gino. L’uomo sta al gioco per tenerla buona, anche se è fidanzato con una ragazza ricca, che frequenta solo per interesse. Il commissario Fioresi (Pietro Germi), dopo qualche difficoltà, riesce a comprendere le dinamiche malsane che sono venute a crearsi e ad arrestare il colpevole.

La prima inquadratura è un iconico movimento di macchina all’indietro, dalla tv accesa al volto insanguinato della prostituta assassinata, i titoli di testa scorrono sulle foto di cronaca nera. Rosso è il sangue sulle mani di un assassino e rosso è il rossetto che macchia la reputazione di una tredicenne, nei perbenisti anni ’60. La credibilità di Silvana è messa in dubbio per un tocco di colore sulle labbra e tanto bastava per dubitare della parola di una tredicenne e a far mettere in dubbio tutto, il carnefice diventa vittima e le indagini quasi saltano all’aria, ma l’ispettore Fioresi capisce presto di star cadendo in un pregiudizio.

È quindi evidente che Damiani scelse quel caso proprio per mettere a nudo i piccoli grandi drammi umani della periferia, fatta di giovani arrivisti, giornalisti senza scrupoli, dei pregiudizi della gente e di donne fatte a pezzi.

il rossetto

Il rossetto è un finto-giallo, il colpevole è abbastanza prevedibile, ma la pellicola fornisce uno spaccato dell’Italia dell’epoca, ipocrita e perbenista e ne indaga i costumi e la sessualità negli anni ’60, ma soprattutto della sua degenerazione morale. L’opera prima di Damiani, riprende un po’ Un maledetto imbroglio e alcune suggestioni dai noir francesi e americani. Ottima la sceneggiatura asciutta di Zavattini e misurati gli attori, Pierre Brice e Laura Vivaldi, mentre Pietro Germi interpreta il commissario disilluso con quella vena ruvida che fa da specchio umano al disincanto piccolo borghese.

I risvolti ambigui e torbidi della storia non sono mai morbosi, nel cinema di Damiani, il suo stile di regia si mantiene asciutto e sicuro e sono pochissime le incoerenze e le approssimazioni, che non ledono un’opera stratificata e decisamente innovativa per l’epoca.

Pier Paolo Pasolini definì sia l’uomo che il cineasta come «un amaro moralista assetato di vecchia purezza» e così è il cinema del regista friulano: puro, forse polemico, ma autentico. Damiani era un regista capace di declinare la sua passione per la realtà quotidiana a partire da ciò che lo circondava e a incidere profondamente nelle coscienze, ma sempre con ironia e misura, in un raro equilibrio che il cinema moderno sembra aver dimenticato.

Terry Gilliam e i Monty Python e il Sacro Graal, pazzo o visionario?

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Terry Gilliam inizia la sua carriera come illustratore, diventa un ottimo animatore e poi presta la sua follia al cinema. Ironico, fuori dagli schemi e imprevedibile è l’unico membro americano (ormai naturalizzato britannico) dei Monty Python. Arriva in Gran Bretagna per evitare l’arruolamento nella guerra del Vietnam e inizia a lavorare come cartoonist per la televisione. In questo modo conosce Chapman, Cleese, Palin, Idle e Terry Jones, i fondatori del gruppo teatrale Monty Python. Insieme realizzano per la BBC Flying Circus (1969), una serie comica di successo, fatta di gag e sketch animati realizzati con la tecnica del cut out. Proprio con i Monty Python, Gilliam compie poi il salto verso il grande schermo, come regista.

Nella carriera di Gilliam non mancano però i fallimenti, le lotte contro la casa cinematografica che prese le redini del suo Le avventure del barone di Munchausen, la morte di Heath Ledger durante Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo, i ventinove anni di sforzi compiuti nel tentativo di girare The Man Who Killed Don Quixote, basato sul Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, immortalati in un documentario: Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe. Ora però finalmente al cinema con Adam Driver e Jonathan Pryce come protagonisti, un chiaro omaggio a Orson Welles (qui la sua opera prima), infatti Don Quixote è il suo film incompiuto.

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Nel 1975  Gilliam fa il suo esordio come regista, insieme al collega Terry Jones, realizza il primo lungometraggio comico che si prende gioco della Storia. Un insieme di gag esilaranti, ma ormai un po’ datate, dal ritmo poco fluido e dall’umorismo no-sense e grottesco. Monty Python e il Sacro Graal è un film a basso costo che racconta la storia di Re Artù (Graham Chapman) che, dopo aver vagato per la Gran Bretagna alla ricerca dei cavalieri per la sua tavola rotonda, riceve da Dio la difficile missione di trovare il Santo Graal. Comincia così la difficile ricerca tra gag, conigli assassini e personaggi comici come il cavaliere nero e il mago pazzo.

Il film risulta sorprendentemente vincente, nonostante sia tutto affidato al caso, della regia se ne incaricarono Gilliam e Jones solo perché nessuno degli altri quattro voleva prendersene la responsabilità. Inoltre, alcune delle gag più riuscite, derivano da dei problemi di budget risolti in modo assolutamente creativo e integrato alla storia e alla comicità no-sense del film, come il finale monco e l’uso delle noci di cocco per simulare il rumore degli zoccoli dei cavalli al galoppo.

La potenza comica di questa pellicola, deve tutto all’umorismo perfettamente calibrato che combina monologhi filosofici e gag linguistiche a battute scatologiche e sessuali. Per non parlare dell’autoironia e dell’escamotage usato contro la pratica dei sottotitoli: vengono scritti in finto norvegese e nella versione DVD si può selezionare, tra le modalità di vsione, quella sottotitoli per chi non apprezza il film che consiste nel testo dell’Enrico IV di Shakespeare.

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I film di Terry Gilliam hanno un aspetto peculiare e riconoscibile per il suo stile esasperato ed eclettico. Decisamente postmoderno, mescola il bello al kitsch, la cultura alta ai fenomeni pop, l’antico al moderno. Da Brazil (1985) – condiderato il suo capolovoro – a L’esercito delle 12 scimmie (1995), il protagonista dei suoi film è spesso un anti-eroe travolto da una situazione straordinaria. Il cinema, dichiara, «deve stimolare il pubblico a pensare in modo diverso. C’è chi lo fa creando scandalo, a me interessa cambiare lentamente il punto di vista, fare innervosire il pubblico, farlo preoccupare al punto da chiedersi “ma cosa sta succedendo?”» e, soprattutto, deve spingere le persone ad esplorare la propria immaginazione.

Terry Gilliam è soprattutto un visionario, qualcuno che si è sempre sentito diverso e che ha amato la diversità negli altri e ha fatto dell’ironia – su di sé e sul mondo – una bandiera. Non a caso, ha dichiarato spesso di credere che il suo cinema dia «conforto a chi crede di essere l’unico pazzo al mondo e che – dopo avere visto i miei film – sa che ce ne è almeno un altro». Pazzo o visionario? Non importa, se Terry Gilliam può continuare a lottare contro i mulini a vento del cinema.

Mario Martone, Elena Ferrante e la Morte di un matematico napoletano

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Mario Martone ha concluso quest’anno la trilogia iniziata da Noi credevamo e Il giovane favoloso con Capri-Revolution, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia, un film corale con una bravissima Marianna Fontana come protagonista.

Il regista napoletano incarna poco lo stereotipo dell’artista: intellettuale ma senza esibizionismi, sognatore ma concreto artigiano della sua arte, decisamente un uomo di teatro con la vocazione per il cinema. Fa parte di quella corrente che viene chiamata il risorgimento napoletano: quell’affacciarsi del cinema come una vrenzola dal balcone, quello sguardo sulle cose che trasforma il privato in pubblico. La poetica di Martone è tutta lì, nella ricerca di una verità nascosta sotto la pelle quando si fa sottile, insieme a quel mescolarsi continuo e perfetto tra letteratura e cinema.

Uno dei film più famosi di Martone è la sua opera seconda, L’amore molesto (1995), tratto dal romanzo d’esordio di Elena Ferrante, la sua tetralogia pubblicata dalle Edizioni E/O è stata portata di recente sul grande schermo dai primi due episodi de L’Amica Geniale, la serie diretta da Saverio Costanzo e realizzata dall’inedita alleanza tra HBO, Wildside, RAI, Tim Vision e Fandango .

mario martone

L’opera prima di Mario Martone è meno famosa, nonostante la vittoria ai David e ai Nastri d’argento per il miglior esordio: Morte di un matematico napoletano (1992) è la storia del luminare Renato Caccioppoli, uno scienziato talentuoso ma tormentato, consumato da un logorio interiore che l’ha portato al suicidio. La pellicola mostra l’ultima settimana di vita di Renato (Carlo Cecchi), a partire dalla stazione in cui viene fermato dalla polizia per ubriachezza, per passare poi alle lunghe passeggiate e agli incontri con il fratello Luigi (Renato Carpentieri), l’ex moglie (Anna Bonaiuto), i compagni del PCI e gli studenti; soprattutto Pietro, interpretato da Toni Servillo in una delle sue prime apparizioni cinematografiche.

Martone dipinge, in un modo un po’ naïf, un uomo disilluso e stordito dall’alcol, ma soprattutto ne tratteggia il rapporto conflittuale con Napoli, che accoglie ma prosciuga e sa negarsi come la più crudele delle madri. La regia è aspra e secca e la macchina da presa, con l’ottima direzione della fotografia di Luca Bigazzi, segue Renato tra le viscere di una Napoli crepuscolare. E pensare che il film, Martone, lo voleva girare in bianco e nero, ma poi Bigazzi gli ha fatto cambiare idea, colpito dal giallognolo della luce napoletana. Morte di un matematico napoletano è una pellicola realizzata camminando a lungo, un po’ come Caccioppoli, che si spostava solo a piedi. Nel film quasi non compaiono automobili e, dopotutto, sono proprio le lunghe passeggiate del matematico ad averlo reso un personaggio impresso nella memoria collettiva: genio errante, emaciato e dall’impermeabile logoro.

morte di un matematico

Caccioppoli diceva «Quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare loro possibile non avanzeranno mai di un passo», così Martone lo gira lo stesso, questo film quasi senza budget, e riesce a realizzare una pellicola ambientata nel ’59 riprendendo la Napoli del ’91. Mancavano i soldi per fare il film, trovare i costumi e ricostruire le scenografie con la cartapesta, allora ha cercato la Napoli del passato in quella presente. Non è un’operazione che sarebbe riuscita ovunque, perché Napoli è tante città in una e quello di Martone è un lavoro quasi archeologico, uno scavare. Un po’ come cercarsi dentro e trovare un dolore che ci somiglia e che ricorda il passato, come quella Facoltà di Matematica abbandonata, ancora con le tribune e i palchi a restituire quel senso di soggezione, distanza e spettacolo accademico.

Caccioppoli e Martone non avevano in comune solo la città, il matematico aveva abitato proprio nel palazzo dove Martone aveva vissuto in adolescenza «un grande palazzo napoletano, di quelli che sono più che altro delle piccole città» e allora, forse, questa storia ha scelto Martone e non il contrario. Ed è un po’ tutto lì, quel senso ancestrale di cinema, quell’esorcizzare i propri fantasmi sul grande schermo per lasciarseli alle spalle.

Per Martone, il cinema è fatale, accade e non si può cambiare mai più, lo paragona al tirare frecce: c’è tutta una preparazione ma a scagliarle basta un attimo. Vi sfido a dimenticarla, una volta vista, la morte di quel matematico napoletano, il funerale profondo e ipocrita insieme, quella mano che non afferra il polso e quella luce gialla che illumina ogni cosa ma non salva nessuno.