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Giada Bossi. Se la vita fosse un videogioco (o un videoclip)

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Insieme ad altri nove short film Borntwice di Giada Bossi è stato scelto dal Centro Nazionale del Corto per rappresentare l’Italia nel mondo. Estetica narrativa e tecniche di mix media caratterizzano lo stile di questa 27enne che non vuole “essere mai uguale a se stessa”.

Dopo aver studiato Digital Film Making al SAE Institute e Sceneggiatura presso la Civica Scuola di Cinema di Milano Giada Bossi ha iniziato a dirigere reportage, fashion film e videoclip tra i quali Bellissimo di Ghemon, Il tempo non ci basterà di Mecna e HD me di Mulai. Il suo ultimo progetto, Borntwice, è un corto intimista che rende omaggio alla lezione di Akira Kurosawa: un vero artista non distoglie mai lo sguardo dalle cose, siano esse orribili o bellissime.

Nowness, Fendi, Moncler, ma il progetto che hai girato a Londra per Philippe Model Paris, credo sia il video-brand che più ti somiglia.

È bello quando le persone si fidano di te e ti permettono di sperimentare. Si è trattato di un progetto filo-documentaristico in cui non c’era uno script vero, dovevo realizzare il ritratto di un personaggio, la stylist Tati Cotliar, e ho utilizzato varie tecniche di ripresa compresi cellulare e Mini DV. Avere questo tipo di libertà ha reso il lavoro creativo molto diverso, poi Londra ha location e casting fantastici! Ora sto cercando una direzione più pulita, con le inquadrature più studiate, un po’ come quella che ho realizzato per il video-brand Flowe per Alkemy. L’importante è non incastrarsi in uno stile, bisogna essere capaci di adattarsi a quello che devi raccontare. Mi piace sperimentare, rimescolare le cose e non essere mai uguale a me stessa.

Hai diretto molti videoclip della scena musicale attuale, cosa ti ha portato a scegliere questa forma espressiva?

Lavorare ai videoclip è stato il mio primo terreno di sperimentazione, si tratta di uno spazio creativo più aperto, ho potuto mettere in gioco le mie idee e il mio immaginario. Il problema è che in Italia i budget sono ridottissimi. La canzone poi è fondamentale, la stai aiutando a comunicarsi, quindi sei molto vincolato. Il più divertente da girare è stato quello con Mecna, con lui che ballava in un locale per conquistare la sua ragazza. L’ultimo l’ho fatto con Mulai, l’abbiamo realizzato con poco e niente, un video lento, riflessivo. Anche con Ghemon mi sono trovata molto bene, c’è tutta una storia che lo lega a Borntwice: dovevamo fare un videoclip con mio fratello come protagonista ma, il giorno prima di girare, Joshua ha avuto un incidente in bicicletta. Ghemon ha fatto il video con un’altra persona ma siamo rimasti legati e abbiamo recuperato con Bellissimo, Ghemon si è anche cimentato nella recitazione, è stato molto bravo. L’abbiamo girato tutto in un giorno, nonostante ci fossero tantissime scene e cambi location, è stato molto impegnativo.

Se la vita fosse un videogame avremmo tanti cuori, la modalità rinasci, la possibilità di creare un mondo e noi stessi da zero, come in Minecraft, ma Borntwice mostra cosa significhi scontrarsi così giovani con il pericolo della morte e l’impronta che può lasciarti addosso.

È un progetto molto personale, il protagonista del video è mio fratello Joshua, io ho tre fratelli più piccoli, verso i ventuno anni ho iniziato a riprenderli con la GoPro, a documentarli. Dopo l’incidente in bici, Joshua è finito in coma per tre settimane e al suo risveglio non è stato come nei film, è tutto un processo di ricordare, capire, accettare quello che non ti ricordi, muovere una palpebra, un dito. Mi ha colpita molto e da lì è nata l’urgenza di mettere insieme i pezzi, per me ma anche per lui. Ho trovato dei video in cui riprendeva se stesso mentre giocava a Minecraft, e ho scoperto una visione strana, diversa, la vita e la morte percepite da lui, filtrate dai videogiochi dove tutto sembra molto semplice, lineare, puoi ripartire, non ci sono errori irrimediabili. Ci abbiamo lavorato a quattro mani, è stato molto critico ma quando ha guardato la versione finita mi ha detto solo grazie…

Le restrizioni causate dal Covid-19 hanno influito sul tuo lavoro?

C’è stato un ribaltamento a causa delle norme di sicurezza, ho cercato di fare video con il materiale già girato e ho diretto da remoto. Per un momento ho avuto paura che questa sarebbe diventata la norma, fare contenuti “brutti”, arrangiati, che la gente si abituasse a questo standard di comunicazione ma in realtà è tornato quasi tutto come prima. Flowe l’abbiamo girato dopo il lockdown; ci sono dei limiti creativi dovuti al protocollo, ma possono diventare uno stimolo. Ad esempio, se non puoi avere più di due attori a meno di un metro di distanza allora studi scene con un singolo, magari all’aperto, ripieghi in modo creativo su del materiale di stock. Bisogna essere elastici e sapersi adattare.

C’è una storia che vorresti raccontare ma che non ha ancora trovato spazio?

Ho tanti soggetti e sceneggiature, sono tutte cose che bene o male mi riguardano, riesco a scrivere solo di ciò che conosco, partendo da situazioni reali in modo estremamente realistico, quasi mimetico. Come tutti mi hanno suggerito sto cercando di scrivere un corto, ma qualunque cosa scriva diventa un lungo. Tengo a un progetto in particolare e spero di poterlo girare: in una realtà di provincia, una bambina trova sul cellulare della sorella maggiore, suo idolo e modello, un video brutale. Nel tentativo di capire e giustificare la sorella, inizia un percorso che la porta a diventare e riconoscere in sé lo stesso mostro.

Martina Scarpelli, se il cibo è un demone

Una delle voci più brillanti della sua generazione

Martina Scarpelli crede nelle storie vulnerabili, provocanti, naïve, un po’ maleducate e intelligenti. È una giovane regista e illustratrice italiana emigrata in Danimarca. Ha studiato all’Accademia di Brera e, dopo aver scoperto di poter usare la telecamera al posto della matita, si è specializzata in animazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino. Il suo ultimo film Egg è stato proiettato in 200 festival in tutto il mondo e ha vinto oltre 45 premi internazionali. Martina è una delle voci più brillanti della sua generazione.

“L’animazione è un mezzo, non un genere”

Cosa ha portato Martina Scarpelli in Danimarca?

Mi sono trasferita nel 2015, ho ottenuto un posto in una residenza per registi – l’Open Workshop a Viborg – dove ho scritto e sviluppato il mio ultimo film Egg. Ero appena diplomata e volevo fare un mio film. Qui ho incontrato giovani produttrici che, come me, avevano bisogno di fiducia e ho scoperto sistemi di finanziamento accessibili, seppure non facili da ottenere. L’industria del cinema sta cominciando a considerare l’animazione come mezzo e non come un genere, poi qui c’è molto rispetto per chi lavora come freelance, soprattutto in ambito creativo.

Come funziona il tuo processo creativo, cosa ti ispira?

Di solito impiego anni pensando a un’idea prima che diventi un film. Sono lenta, faccio moltissima ricerca. Mi ispirano un sacco di cose: gli affreschi senesi del Trecento, il rock psichedelico, i miti greci, la NASA open source image collection, le piante grasse, gli zombie. Mi piacciono i contrasti e le contraddizioni. Trovo spesso spunti nell’arte classica, nella mitologia greco-romana e norrena, nel simbolismo cristiano o egizio. Guardo tantissimo all’iconografia medievale che spesso ricontestualizzo, amo legare le storie del passato al mio presente, fondendo culture e generi. È parte del mio processo artistico e alimenta ciò che scrivo, sia la mia produzione cinematografica che l’estetica dei miei film.

Un ritratto di Martina Scarpelli
Un ritratto di Martina Scarpelli

Egg è un corto autobiografico che mostra il lato più privato di un disturbo alimentare, nel cubo/casa Virginia è sola con i suoi demoni. L’opera è surreale e piena di simbolismi, hai compiuto una ricerca iconografica particolare?

Egg è un film su una donna che deve mangiare un uovo che non vuole mangiare. È una storia su come prendere il controllo di qualcosa di cui hai paura e fallire. È un film simbolico, le mura del mio monolocale a Milano (il cubo) non si sono mai mosse, non ho ingoiato l’uovo intero (lo feci a pezzi), e non sono annegata nel mio appartamento. L’animazione è fiction per definizione, tutto è costruito ma non c’è nulla di “non vero” in Egg. Ho cucito la mia storia sull’iconografia medievale del vizio di Gola: una donna con il collo lunghissimo. Gli antichi credevano che il piacere del cibo fosse legato al tatto e non al gusto, al contatto del cibo con le pareti della gola.

Il bello dei tuoi lavori si condensa nel tuo sguardo sul personaggio femminile, sulla sua bellezza liquida, sensuale e repellente insieme, perturbante. L’uovo che lei teme e desidera sembra il centro ma non lo è. Ed è perfetto per rappresentare un disturbo alimentare, la gente si concentra sul cibo e non sui sentimenti.

A volte mi viene chiesto cosa significa l’uovo, quando in realtà è totalmente ininfluente. Egg è la storia di una donna forte e vulnerabile, che fallisce scoprendo attraverso il fallimento una rassicurante serenità. Non è vittima, non è debole, è lei il centro. È un’esplorazione di forza, ossessione e desiderio che mostra l’aspetto attraente di questa malattia, senza giustificarla.

Frame da "Egg" di Martina Scarpelli
Frame da “Egg” di Martina Scarpelli

In Egg è stato realizzato un ottimo lavoro di sound design e d’animazione, come hai gestito il lavoro con questi reparti?

Egg è stato animato per la maggior parte da me, con l’aiuto di un piccolo team. L’animazione non è tecnica, il personaggio non è mai uguale; la linea è continua e nitida, mai rotta, a volte nervosa. Volevo si respirasse l’ossessione, l’estrema pulizia, la perfezione distorta a cui questa malattia ti porta. Volevo anche che l’animazione fosse sensuale e tangibile, ricordando il tipo di seduzione che alcuni provano in situazioni elettrizzanti, a volte collegate alle paure. Al sound design hanno lavorato Amos Cappuccio, che non usa mai il suono in maniera scontata, e Andrea Martignoni che ha tantissima esperienza e una grande sensibilità. Delle musiche si sono occupati Amos e la performer danese Sofie Birch, gli ho chiesto di ascoltare i Nine Inch Nails a ripetizione, mi piaceva il lavoro fatto su The Social Network di David Fincher, volevo profondità, texture, dolcezza e paura nelle musiche per il film. Hanno fatto un gran lavoro.

A cosa stai lavorando adesso?

Ho vari progetti nel cassetto: un paio di nuovi cortometraggi che raccontano altre storie di donne e una collezione di corti animati incentrati su alcuni processi penali a esseri non-umani intitolata The fiction of truth and the truth of fiction, che è forse un’occasione per commentare l’assurdità della nostra realtà. Tutte storie vere. Poi sto scrivendo un lungometraggio, un’opera animata che sarà musicata e cantata dal vivo: Psychomachia – A total failure with a slight sense of success. È vagamente ispirata al poema latino Psychomachia di Prudenzio; mischia la tradizione classica a un umorismo scuro e contorto, tipicamente scandinavo, che riflette bene il tempo e il luogo in cui mi trovo ora. Si tratta di un bizzarro tributo ai molti volti della nostra personalità, un film eccentrico che celebra il successo e il fallimento di chi cerca di essere qualcosa a tutti i costi. Sarà un grandioso mix di bugie e illusioni. Ho ottenuto in Danimarca i primi finanziamenti per la scrittura ma non mi dispiacerebbe avere un co-produttore italiano, essendo un’opera in musica.

Damiano Giacomelli: il mio cinema “provinciale”

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Damiano Giacomelli, filmmaker lontanto dalle mode

Dopo studi itineranti tra Urbino, Bologna e Parigi Damiano Giacomelli (nato a Tolentino) ha iniziato la sua carriera come sceneggiatore e filmmaker d’inchiesta. Lontano dai centri nevralgici del cinema europeo, ha trovato nelle Marche quel cinema del reale lontano dalle mode e dalle tendenze dell’industria cinematografica. Vincitore del Torino Film Festival e del concorso I love G.A.I. – Giovani Autori Italiani nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia, Damiano Giacomelli si conferma come uno dei maggiori talenti del cinema italiano indipendente e periferico.

Le Marche, terra di frontiera

Possiamo considerare il tuo come un cinema delle origini? Quasi identitario?

Tra i luoghi che ho frequentato, quello in cui abito è forse il più lontano dai centri principali del fare cinema. Così quando lavoro faccio poco riferimento alle tendenze e molto al rapporto con la realtà che mi circonda. La provincia delle aree interne ormai è questione di reduci. Spesso mi trovo a indagare situazioni in cui qualcuno incontra (o si scontra con) le omologazioni della società di massa. Tanto chi resiste, quanto chi aderisce, lo fa spesso in modo sghembo e non allineato. Ne deriva un disadattamento che oggi risuona in tante anonime province dei paesi occidentali.

Le Officine Mattòli sono un progetto un po’ ibrido, come è nato?

Fino al 2010 ho incrociato le prime esperienze professionali con brevi laboratori scolastici a Tolentino (MC). I corti che giravamo coi ragazzi avevano buoni risultati nei festival di settore e così mi hanno proposto un laboratorio extra-scolastico in città. Anziché tenerlo io, ho pensato di coinvolgere professionisti attivi a livello nazionale. Su questi presupposti è nata un’associazione, ancora oggi impegnata nella formazione e nell’organizzazione eventi. Negli anni hanno collaborato come docenti Daniele Gaglianone, Francesco Amato, Stefania De Santis, Daniele Ciprì, Gianluca Arcopinto, Gaetano Bruno, Daniele Orazi, Francesca Inaudi, Andrea Segre e tanti altri. Nel 2014 poi con Eleonora Savi abbiamo creato Officine Mattòli Produzioni, la società che ha prodotto i miei primi lavori.

Damiano Giacomelli
Damiano Giacomelli sul set de La strada vecchia

Con La strada vecchia hai vinto a Venezia il concorso I love G.A.I. Cosa distingue questo corto dagli altri tuoi lavori?

Il corto racconta di un giovane venditore ambulante di patate, che per la prima volta mette in discussione il mestiere esercitato da suo padre e suo nonno prima di lui. È ambientato nella zona di valico tra le Marche e l’Umbria, sulla statale che percorrevo regolarmente per arrivare a Roma. Oggi una nuova superstrada mi fa risparmiare mezz’ora, tagliando però fuori gli ambulanti della strada vecchia. Diversamente dagli altri miei lavori di finzione, qui non partivo da un personaggio, ma da un contesto e una vicenda. Questo mi ha dato maggiore libertà nella costruzione dei personaggi, cui gli attori hanno dato un contributo decisivo, a partire da Fabrizio Falco, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane.

Spera Teresa invece si è aggiudicato la vittoria al Torino Film Festival, sembra collocarsi a metà tra la fiction e il documentario sociale.

L’ho scritto in mezza giornata nell’immediato post-sisma, tra un trasloco e l’altro. Al centro del corto c’è un personaggio, Teresa, costruito sulla sua ottima interprete: Rebecca Liberati. L’altro ingrediente è un nuovo quartiere della mia città, nato tra un magazzino di fallimenti e uno dei più grandi villaggi container in Italia. Avevo iniziato a giocare col mockumentary per promuovere il festival Borgofuturo [di cui è direttore artistico, a Ripe di San Ginesio, ndr]. In Spera Teresa ho ripreso quel linguaggio con maggiore studio e progettazione, cercando però di mantenere l’energia grezza che può veicolare.

I tuoi sono lavori indipendenti, spesso ti occupi della regia ma anche di scrittura e produzione, come ti destreggi tra i vari ruoli?

Al centro ci sono le storie, le altre scelte seguono a cascata. Per questo, anche se può sembrare poco ortodosso, l’attraversamento di più ruoli mi aiuta a dare continuità al processo produttivo e creativo. Ci sono storie che è più indicato mettere in scena tra amici, se non da soli. Per altre è necessario un gruppo più ampio di collaboratori, con competenze più specifiche. L’importante è non perdere contatto con la natura del progetto.

Damiano Giacomelli sul set di Noci sonanti
Damiano Giacomelli sul set di Noci sonanti

Nel 2019 il documentario Noci sonanti, girato in co-regia con Lorenzo Raponi, ha vinto il premio opera prima al Biografilm di Bologna. Ha richiesto un lungo periodo di lavorazione?

Il film racconta l’estate che Siddhartha trascorre con suo padre, vivendo da uomini liberi nella natura, secondo lo stile di vita radicale dell’uomo… fino all’esame di quarta elementare, unico momento istituzionale della vita del bambino. Stabilito un rapporto di fiducia con i due protagonisti, abbiamo girato per due mesi con due camere. La co-regia con Lorenzo Raponi ha permesso di seguire entrambi con la stessa consapevolezza di racconto. Alla fine, avevamo un girato consistente, che abbiamo montato in due sessioni nell’arco di quasi due anni, con Aline Hervé ed Enrico Giovannone.

A cosa stai lavorando adesso?

Al mio primo film di finzione, ambientato sui Monti Sibillini. Il film ha a che fare con il fenomeno delle fake news, trasportato sulla dimensione di una piccola realtà di paese. Abbiamo già ottenuto un primo fondo dal bando della Marche Film Commission e stiamo lavorando sulla chiusura del budget.

Marco Pellegrino e Luca Jankovic. Moths to Flame

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A cinquant’anni dal primo passo sulla Luna, Moths to Flame rende omaggio all’impresa che per anni ha stimolato le fantasie dei complottisti. L’allunaggio è il pretesto per parlare della ricerca della verità, in un’epoca come la nostra flagellata dalle fake news.

Nel corto vincitore ai Nastri d’Argento 2019, l’attore hollywoodiano David Menkin interpreta l’idealista Neil Armstrong, mentre Buzz Aldrin, più pragmatico, è impersonato da un impeccabile David Callahan, attore americano prestato alla televisione italiana. I due astronauti sono facce della stessa medaglia e devono compiere un’impresa che si rivelerà essere solo un’illusione. Una simbologia di dualità ricorrente che ritroviamo anche dietro le quinte, con i due registi: Marco Pellegrino, autore del soggetto e delle musiche, e Luca Jankovic, regista sperimentale e fondatore di Box Vision.

[questionIcon] Attratti come falene dalla luce artificiale del cinema, hanno collaborato sotto ogni punto di vista raggiungendo una sintonia palpabile.

[answerIcon] M: Ho seguito una gavetta standard, mi sono trasferito dieci anni fa a Roma e ho iniziato a lavorare parallelamente come assistente alla regia e aiuto casting, collaborando a diversi film e serie italiane di rilievo internazionale, tra le quali Habemus Papam di Nanni Moretti, La passione di Carlo Mazzacurati, To Rome with Love di Woody Allen, Brutti e cattivi di Cosimo Gomez e Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani. Ho sempre portato avanti l’interesse per la regia lavorando anche come regista di videoclip e parallelamente come musicista.

[answerIcon] L: Appena finito il corso di Digital Filmaking alla SAE di Milano, ho iniziato subito a lavorare come filmaker nei reparti più tecnici. Nel frattempo, ho iniziato a girare cortometraggi. Nel 2017 ho fondato Box Vision e ho prodotto I mostri 2.0, un progetto ispirato al film di Dino Risi I mostri (1963), una serie di sette cortometraggi. Mi sento in una fase di sperimentazione, più provo progetti differenti tra di loro e più imparo.

[questionIcon] Come è stato lavorare in co-regia?

[answerIcon] M: È stata un’esperienza importante e molto bella. Ho realizzato altri lavori insieme a dei co-autori, ad esempio ho scritto un romanzo a quattro mani con Giulio Beranek Il figlio delle rane, che è uscito l’anno scorso per Bompiani. Mentre Moths to flame è stata la mia prima esperienza di co-regia vera e propria, al di fuori delle esercitazioni scolastiche. Lavorare in due amplifica le potenzialità, ma è stato possibile grazie alle lunghe chiacchierate e allo scambio di energia propositiva. Certo, serve il compromesso e aumenta anche il fattore dell’imprevedibilità, che permette di aggiungere qualcosa e forse di innamorarsi ancora di più del progetto.

[answerIcon] L: Per me è la prima co-regia, ho accettato il progetto al volo: non è un’esperienza semplice ma con Marco, forse per questione di carattere, non ci sono state tante difficoltà. Ci piacerebbe lavorare ancora insieme.

[questionIcon] Escluso il DOP Alessandro Dominici, vi siete affidati a una troupe under 35: Matteo Chemel, Silvia Cremaschi, Fabio Filigi e Orash Rahnema. È stato difficile reperire i fondi?

[answerIcon] M: Abbiamo realizzato il progetto senza fondi pubblici, un investimento che abbiamo fatto per noi. È un momento particolare per Milano, c’è terreno fertile per i lavori più narrativi, ovviamente è la capitale della pubblicità ma ci sono molti giovani autori e artisti che hanno voglia di sperimentare e si sono prestati per l’impresa. Abbiamo realizzato il corto con un budget di circa 15 mila euro e con la co-produzione di Box Vision e dell’inglese Paguro Film di Giada Mazzoleni, in collaborazione con l’Ananim Production di Ghila Valabrega e il giovane team di Overclock.

[answerIcon] L: Abbiamo girato in un sottoscala nel quartiere Giambellino, eravamo un po’ in ansia all’idea di portare David Menkin, che aveva recitato per produzioni hollywoodiane, nella periferia di Milano, in un seminterrato. L’atmosfera sul set era professionale ma rilassata allo stesso tempo, abbiamo ribattezzato il quartiere Giambhollywood, e in pausa pranzo abbiamo dato lo stesso nome anche a una pizza. In quel seminterrato abbiamo ricostruito tutte le scene partendo da zero, tappezzando le pareti di rosso e rivoluzionando lo spazio; quando abbiamo finito abbiamo messo tutto a posto, ma la differenza era comunque abissale, tanto che abbiamo lasciato una porta rossa come segno del nostro passaggio! E il proprietario, che non riusciva ad affittare il locale da anni, c’è finalmente riuscito. Abbiamo portato bene…

[questionIcon] Parlatemi del lavoro sul set con gli attori, entrambi professionisti stranieri. Com’è stato lavorare con loro? So che li avete lasciati liberi di improvvisare.

[answerIcon] L: Abbiamo avuto un po’ di difficoltà con la lingua, anche se uno dei due è americano ma vive in Italia da anni. Abbiamo impostato la lavorazione per poter fare due giorni di prove, uno con David Callahan e uno con David Menkin che è arrivato da Londra. Abbiamo lasciato loro libertà di movimento per poi fissare quello che ci piaceva. Da lì abbiamo modellato la regia, la spontaneità creativa degli attori ha aiutato moltissimo, anche per calibrare il linguaggio e le espressioni.

[answerIcon] M: Infatti una prima fase di traduzione è stata fatta con Callahan stesso, anche grazie a un suo contatto: Peter Flood, dialoghista per Le iene di Quentin Tarantino. Siamo riusciti così a fare un editing più interessante e aderente al linguaggio usato nell’America dei Sixties. Ci siamo concentrati molto sui dettagli narrativi e filologici di quegli anni. Il nostro è stato un lavoro un po’ vintage: ad esempio, non abbiamo potuto usare la pellicola, ma abbiamo scelto delle ottiche anamorfiche degli anni Sessanta.

[questionIcon] A cosa state lavorando adesso?

[answerIcon] L: A un corto interamente ambientato in un ascensore che sta per cadere, al cui interno si ricrea una versione in miniatura della società italiana di oggi: un anziano un po’ bigotto e razzista, un muratore dell’Europa dell’est e una ragazza madre. Ho anche un paio di soggetti per lungometraggio, uno dei quali affronta i temi dell’amore, dell’inadeguatezza e della difficoltà del diventare adulti.

[answerIcon] M: A Faber Nostrum, l’album tributo a Fabrizio De André: in particolare al videoclip de I Ministri per la cover Inverno e con la band pugliese La Municipal per la cover di La canzone di Marinella. Ho anche una sceneggiatura in prima stesura, una storia al femminile, il tema è l’integrazione, parla di razzismo e vendetta.

Cosa farebbe Billy Wilder? Da Il frutto proibito a L’appartamento

Nel corso de Il Cinema ritrovato a Palermo stagione 2018/2019 è stata restaurata e proiettata in 4K la pellicola più famosa di Billy Wilder: L’Appartamento, il film che forse più di tutti ha rappresentato la commedia brillante americana durante la Golden Age hollywoodiana, tra sarcasmo, scene esilaranti e strette allo stomaco. Ventisette film e mai un’opera mediocre, 6 Oscar e 14 nomination, una carriera lunga quarant’anni divisa tra drammi e commedie, insieme ai fedeli co-sceneggiatori Charles Brackett e I.A.L. Diamond e alla lunga serie di fedeli interpreti ricorrenti come Audrey Hepburn, Tony Curtis, Marlene Dietrich, Jack Lemmon e Marilyn Monroe.

Billy Wilder inizia a lavorare come sceneggiatore per filmetti di serie B, per poi acquisire notorietà scrivendo per Ernst Lubitsch il film Ninotchka gli vale una nomination all’Oscar  ̶ e Howard Hawks per il quale scrive Colpo di fulmine e La porta d’oro e guadagna altre due nomination. Finalmente, nel 1942, arriva la possibilità di girare la sua opera prima: Il frutto proibito (The Major and the Minor), una commedia degli equivoci tratta dall’opera teatrale Connie Goes Home di Edward C. Carpenter e adattata da Wilder e Charles Brackett.

billy wilder

È la divertente storia di Susan Kathleen Applegate (Ginger Rogers), una bella massaggiatrice delusa dalla vita di New York e stanca dei clienti che attentano alla sua morale, per questo decide di tornare nel suo paese d’origine ma si accorge di non aver abbastanza soldi per il biglietto. Così Susan si traveste e si atteggia da dodicenne, per usufruire della tariffa ridotta. Sul treno però incontra casualmente Philip Kirby (Ray Milland), maggiore dell’esercito e istruttore in un collegio militare. L’uomo vedendola sola decide di prenderla per qualche tempo in custodia. I due iniziano a provare dei sentimenti l’uno per l’altra e solo dopo una serie di numerosi equivoci riescono a sposarsi.

Una commedia spiritosa e leggera, con un ottimo incipit e un tollerabile rallentamento nella parte centrale, comunque mai noiosa. La pellicola esce nelle sale il 16 settembre del 1942, il successo è immediato: costata 928 mila dollari ne incassa 3 milioni solo negli Stati Uniti. Frutto proibito ricalca alcuni stilemi della screwball comedy classica ma introduce un sarcasmo per niente politically correct, tra sottointesi e rovesciamenti. Wilder stesso definisce questo suo primo film una commedia commerciale, scritta appositamente per farsi notare, eclettico e irriverente il regista austriaco ha sfidato con furbizia il perbenismo hollywoodiano, restando sempre sul filo del rasoio, evitando così la censura.

Come autore Wilder ha sempre sostenuto l’importanza delle storie sopra ogni cosa, mentre la macchina da presa è solo il mezzo della fruizione scenica, uno strumento non invasivo e privo di virtuosismi, concentrato sull’interpretazione attoriale e al servizio dei personaggi, perché per Wilder il miglior regista è quello che non si vede. Dopotutto, il suo idolo e mentore è il regista tedesco Ernst Lubitsch, infatti Wilder aveva appeso nel suo ufficio un cartello che recitava: «How would Lubitsch do it?».

billy wilder

Frutto proibito è un film più intelligente e provocatorio di quanto Wilder voglia far credere, a partire dall’ambiguità del titolo originale: The Major and the Minor, il maggiore (nel senso militare e anagrafico) e la minorenne. Come in tutto il suo cinema la leggerezza della messinscena maschera la complessità della sua poetica. Il tema centrale della sessualità è trattato in modo brillante ma sempre con garbo, dalla metafora delle falene attratte dalla lampadina alla tattica della Linea Maginot del cadetto che tenta di baciare Susan.

Il senso del film lo sintetizza il personaggio di Lucy in una battuta: «L’amore, in fondo, è uno stato di miopia astigmatica», lo stesso vale per lo spettatore e alla sospensione dell’incredulità che gli permette di dimenticare i trent’anni di Ginger Rogers per trovarla credibile nel suo travestimento da ragazzina. Nella vita e al cinema spesso scegliamo di credere alla finzione solo se è recitata abbastanza bene da non poter fare altrimenti, soprattutto se la bugia è bella come Ginger Rogers, e questo Wilder lo sapeva bene. «Nessuno è perfetto» recita la battuta conclusiva del film A qualcuno piace caldo ma Wilder, con il suo cinema brillante e senza tempo, ci va molto vicino.

Ridley Scott: da I duellanti a Blade Runner

I replicanti, i cartelloni pubblicitari digitali, i rifugi spaziali, le videochiamate dalle cabine telefoniche e i comandi vocali alle macchine: questo è il 2019 secondo Blade Runner, capolavoro di Ridley Scott del 1982. Se sui cartelloni ci siamo e Alexa e Google Home sono entrati nelle nostre case, i robot con capacità emotive non sono ancora in mezzo a noi, le videochiamate possiamo farle comodamente dal cellulare, i danni climatici (per ora) non ci hanno costretto a rifugiarci su altri pianeti e – per fortuna – non vanno più di moda i trench e le spalline.

Il regista britannico ha realizzato nel corso della sua carriera film di vario genere e dal successo altalenante, da Alien a il già citato Blade Runner, dal road-movie Thelma & Louise al peplum moderno Il Gladiatore, passando per adattamenti e commedie.

Ridley Scott ha iniziato a lavorare negli anni Sessanta come scenografo per la famosa serie tv di fantascienza Doctor Who, per poi passare alla regia televisiva per la BBC, mentre nei primi anni Settanta ha fondato la Ridley Scott Associates, una società molto prolifica in campo pubblicitario, celebre il suo spot per il lancio dell’Apple Macintosh intitolato 1984 come il capolavoro di George Orwell.

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Nel 1977 Scott ha quarant’anni e ha ottenuto i finanziamenti per dirigere la sua opera prima, I duellanti (The Duelists) tratto da The Duel il racconto di Joseph Conrad, a sua volta ispirato da una storia vera, un cult che sarà preso a modello di riferimento da generazioni di cineasti.

Il film, ambientato in età napoleonica, è incentrato sull’interminabile duello, nato per futili motivi, tra due ufficiali di cavalleria: Gabriel Féraud (Harvey Keitel) di umili origini e fedelissimo a Napoleone e l’aristocratico Armand d’Hubert (Keith Carradine). l duellanti non lo sapevano quando hanno scelto un motivo per odiarsi, il vero nemico era nello specchio, nel doppio, la parte di loro stessi che nell’altro non potevano fare a meno di voler estirpare. Il loro è un duello lungo vent’anni, considerato uno dei migliori della storia del cinema, anche se neppure durante l’ultimo scontro i due riescono a uccidersi. D’Hubert infatti non preme il grilletto, sceglie di graziare Féraud dichiarandolo virtualmente morto, ponendo fine alla contesa.

Come il racconto, il film si chiude con un’immagine: Gabriel Féraud, visto di spalle, osserva il sole tramontare sul paesaggio, impossibile non paragonare quest’immagine al quadro di Joseph Sandmann che ritrae Napoleone su uno scoglio di Sant’Elena, mentre contempla l’orizzonte.

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Le ambientazioni del film sono caratterizzate da un forte senso estetico e realistico, magistrali le abilità attoriali e i duelli realizzati con vere sciabole da sei chili l’una e la cura dei particolari colti dalla cinepresa di Ridley Scott tra banchetti, amori e duelli. Il regista britannico gira veri e propri tableux vivants, muove la macchina da presa incorniciando i personaggi con un’abilità molto matura per un esordiente. I duellanti si rivela un esercizio di virtuosismo raro, soprattutto per un film con soli 900.000 dollari di budget, anche un po’ sfortunato, se si pensa che è stato girato quasi tutto in esterni in soli cinquantotto giorni di riprese, cinquantasei dei quali funestati dalla pioggia.

La pellicola conquista all’istante gran parte della critica e del pubblico, vince un premio per la migliore opera prima al Festival di Cannes e un David di Donatello come miglior film straniero. I duellanti diventa in pochissimo tempo oggetto di culto e viene spesso paragonato al Barry Lyndon di Stanley Kubrick, una somiglianza puramente estetica. L’opera prima di Ridley Scott, che sia considerata fuori dalle righe nel genere cappa e spada o ben fatta in quello degli affreschi storici, è di sicuro una delle migliori trasposizioni letterarie della storia del cinema, un trattato sull’odio e sulla natura umana dove l’uomo razionale e quello selvaggio coesistono per sempre.

Alberto Viavattene. Uno storyteller diviso tra videoclip, horror e Sorrentino

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Alberto Viavattene è un giovane regista torinese, ha un cognome indimenticabile e uno spiccato gusto estetico per la fotografia. Diviso tra i videoclip e i set dei film di Sorrentino, ha trovato nell’horror la sua dimensione naturale. Roxane Duran, una delle star della serie Riviera su Sky Atlantic, è la protagonista del suo ultimo corto, quello che ha conquistato Sorrentino: Birthday. Una serie di fortunati eventi ha messo Viavattene sulla strada giusta e ora è pronto per realizzare la sua opera prima.

Video musicali, corti e spot, sei un eclettico! Come sei diventato regista?

Sin da piccolo ho sempre voluto fare il regista, il primo corto l’ho girato a 16 anni, quando mi hanno regalato una videocamera. A 19 sono capitato su un set come volontario: ho ricoperto il ruolo di video-assist su Il divo di Paolo Sorrentino. Mi sono ritrovato in mezzo a Sorrentino, Toni Servillo e Luca Bigazzi che erano i miei idoli.

Hai lavorato anche sui set di The Young Pope e Youth, come sei finito a dirigere il backstage di Loro?

Sorrentino ha visto il mio ultimo corto, Birthday, gli è piaciuto molto e mi ha affidato la regia del backstage di Loro. È stato un cerchio che si chiude, dopotutto ero partito come semplice volontario. Mi ha colpito e continua a colpirmi il suo modo di girare perché, quando si sta sul set, si ha sempre l’impressione di fare qualcosa di magico, quando poi si vede il film montato ci si rende conto di alcune scelte ed è sempre una sorpresa.

alberto viavattene

Al Festival del Cinema Europeo ho visto il tuo ultimo cortometraggio: Birthday. Da dove nasce l’idea per questo corto patinato e cupo insieme?

L’ho realizzato grazie alla vittoria di un bando della Torino Film Commission. Premetto che per me l’horror nasce dal quotidiano, non è da ricercare troppo in là: un’anziana non più capace di intendere e di volere, chiusa in una casa di riposo in balia del prossimo, è una situazione spaventosa. Poi l’Indastria Film ha coinvolto uno sceneggiatore ma io, già dopo il primo giorno di riprese, avevo capito che non sarei riuscito a seguire la sceneggiatura. Ho dovuto rielaborarla sul momento, l’ho modificata a tal punto che lo sceneggiatore ha chiesto di togliere il proprio nome dai titoli.

Sei l’incubo di ogni sceneggiatore…

Lo so [ride ndr]. È stata una situazione estrema, c’erano pochi giorni e il budget non era alto, andavano prese delle decisioni.

Cosa ti ha portato a scegliere il videoclip come principale forma espressiva?

Il videoclip è una forma espressiva immediata: ti viene un’idea o hai un’immagine in mente, in uno o due giorni si gira e dopo una settimana è tutto online, ne apprezzo la velocità. Preferisco lavorare con gruppi non troppo famosi e piccole etichette, perché mi danno la libertà di poter fare quello che voglio, come per l’ultimo che ho girato: Devo dirty di Luca dei Lapingra.

Insieme ad Anita Rivaroli hai realizzato il videoclip del progetto Rockin’ 1000: mille musicisti hanno suonato insieme le note dei Foo Fighters. Il video è diventato virale, quanto è stato complicato realizzarlo?

Non è stato semplice, c’era da capire come restituire e riprendere nel migliore dei modi l’emozione live di quell’impresa. Non è bastato mettere una decina di macchine da presa nella mischia e poi lavorare al montaggio, si è trattato di avere sempre del materiale buono per ogni strumento e studiare come alternarlo. Il video è andato benissimo, ancora oggi ha 44 milioni di visualizzazioni, non ce l’aspettavamo, è stata una bella sorpresa ritrovarsi coinvolti in un fenomeno virale.

alberto viavattene

Da dove nasce la tua predilezione per il genere horror?

L’horror è un genere nel quale mi sono trovato un po’ invischiato, è stata più un’esigenza, ho capito di riuscire a ottenere una certa attenzione nei festival di genere, dove una buona idea riesce a risaltare anche se hai pochi mezzi. Girerei volentieri anche un film drammatico o un noir, l’unico genere che non farei è la commedia.

Che progetti hai per il futuro?

Ho dei progetti che sto facendo girare tra le case di produzioni. Tra i vari soggetti, ce n’è uno al quale tengo particolarmente: un horror ambientato interamente nella cucina di un ristorante. Sono alla ricerca di un produttore coraggioso, oggi si fanno molti più film di genere rispetto a qualche anno fa, ma manca ancora un po’ di coraggio. Mi è capitato di dialogare con delle produzioni in cerca di progetti horror che hanno definito i miei soggetti “troppo horror”. Tra l’altro, non amo particolarmente i cortometraggi e sono il primo spettatore che si annoia, perché non riesci a entrare in una storia che ne sei già fuori. Mi sento pronto per realizzare la mia opera prima, credo però che il cinema non debba essere un riflesso del proprio essere: il difficile del mestiere del regista, dopotutto, è trovare delle storie che meritino di essere raccontate. Ed è quello che cerco di fare.

Nelle fotografie, Roxane Duran, la protagonista di Birthday, nel ruolo di una giovane infermiera che si approfitta dei pazienti di una casa di riposo finché non entra nella stanza numero 12.

Rossella Inglese. L’età del consenso

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Rossella Inglese dà ai suoi corti dei nomi femminili e ci lascia spiare le sue muse dai tratti delicati e dagli occhi magnetici nascoste dietro i vetri come le eroine di Sofia Coppola. Le mostra mentre scoprono il sesso e il proprio corpo, incuranti di un mondo che spesso le giudica per questo.

Rossella Inglese, classe 1989, da Battipaglia si è fatta notare alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione [email protected], entrando poi in contatto con la Wave Cinema che ha prodotto il suo ultimo corto, vincitore del premio Emidio Greco al Festival del Cinema Europeo 2018.

Ti occupi di sceneggiatura, montaggio e regia, lavori sui tuoi progetti a 360°. Come hai iniziato?

Il mio percorso professionale si sintetizza in tre cortometraggi: Vanilla, Sara e Denise, una trilogia sulla sessualità femminile con tre protagoniste. Ho iniziato studiando sceneggiatura a Roma, ma per fortuna ho cambiato idea e ho deciso di studiare regia al SAE Institute di Milano, dove ho anche imparato a montare.

Cosa ti ha fatto cambiare idea?

Mi sono ritrovata a scrivere di cose piuttosto intime, accorgendomi così di avere temi molto urgenti: volevo parlare della donna e della sua sessualità. Ho iniziato con un primo lavoro molto personale, ma mi ha affiancata un regista con una visione diversa dalla mia, anche dal punto di vista estetico, e dirigeva gli attori in un modo che non mi piaceva. Ho vissuto altre esperienze simili e mi sono accorta di avere anche una visione registica molto forte, quindi ho deciso di passare alla regia.

Hai fondato una casa di produzione, giusto?

Sì, la Fedra Film è una piccola produzione fondata da me e dal direttore della fotografia, Andrea Benjamin Manenti, nel 2012, con lo scopo di finanziare i nostri cortometraggi. In tutti i miei corti cerco di dare un contenuto narrativo anche alla fotografia e ai movimenti di camera, quindi c’è stata sempre questa collaborazione tra noi due e andrà avanti anche per la mia opera prima.

Poi ci sono Sara e Denise, non è un caso che entrambi i corti portino dei nomi femminili, mettono entrambi al centro delle adolescenti alla scoperta di se stesse e della propria sessualità. Come scegli quali storie raccontare?

Racconto ciò di cui sento l’urgenza: in Sara il punto focale è il passaggio dall’infanzia all’adolescenza di una bambina, orfana di madre, che fa fatica a comprendere i cambiamenti del proprio corpo. In Vanilla, invece, cercavo di capire il conflitto tra inconscio e io, tramite la storia di una ragazza giovane che ha una relazione consenziente con il proprio padre e si ritrova a scontrarsi con quello che prova, con la società che la circonda. In Denise ho affrontato il rapporto che c’è tra la propria identità e la propria immagine online. Questo è il corto un po’ più sperimentale, io e Andrea [Manenti, ndr] abbiamo cercato di fare un uso diverso della macchina da presa, che diventa così un personaggio della storia. In Denise mi sono chiesta come vive un adolescente di oggi, continuamente esposto sui social e quindi a un pubblico in conflitto tra l’identità e l’immagine che deve dare di se stesso agli altri.

Hai lavorato sempre con attori non professionisti.

Lavorare con attori non professionisti è stata una scelta: quando facevo i casting mi sono ritrovata a scoprire che gli attori che avevano già avuto delle esperienze non mi piacevano. A Milano è stato un po’ più faticoso, mentre mi sono trovata benissimo a Roma. Per l’ultimo corto, avrò visto centocinquanta ragazzi e mi hanno catturato quelli con meno esperienza: istintivi, liberi, con un’espressività molto forte, perfetti. Ad esempio, la protagonista di Denise è Gaya Carbini, una ragazza bravissima, sembra una professionista. Per me la direzione degli attori è importante, conosco alcuni registi che non fanno grandi prove. Io invece sono una che deve provare per mesi, far capire bene i personaggi, parlarne con gli attori.

Stai scrivendo la tua opera prima, ritroveremo i tuoi temi chiave o sarà qualcosa di completamente diverso?

Mi piace un cinema che lascia spazio più a uno sviluppo narrativo interiore che esteriore, che è molto sui personaggi e sulla loro interiorità, sulle relazioni uomo-donna. La mia opera prima verterà sugli stessi temi della trilogia di Vanilla, Sara e Denise, ma in questo caso la protagonista è più grande, ha vent’anni, ho chiuso con l’adolescenza. Abbiamo soggetto e trattamento e stiamo lavorando sulla sceneggiatura. Mi sento pronta per un lungometraggio, in Denise ho fatto veramente fatica, avevo scelto dei temi e una storia poco adatti a un corto e mi sono resa conto di avere bisogno di raccontare tutto con più ampiezza e respiro.

Le fotografie rappresentano la giovane e promettente Gaya Carbini nei panni di Denise, nell’omonimo corto che ha vinto il premio Young for Young al Visioni Italiane di Bologna e che è in concorso a Venezia a I love GAI – Giovani Autori.

Charlie Chaplin: Il monello tra un sorriso e, forse, una lacrima

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Bombetta, baffetti e bastone da passeggio, pantaloni sformati e scarpe consunte, il vagabondo Charlot (The Tramp) emotivo, malinconico e disincantato è l’emblema dell’alienazione umana nell’era del progresso industriale. Charlot è il personaggio attorno al quale Charlie Chaplin, la personalità più influente del cinema muto, ha costruito gran parte delle sue opere. Fellini lo definiva «l’Adamo del cinema», un po’ come se fosse il punto zero, l’origine primordiale della settima arte.

L’attore e regista inglese è stato tra i primi a capire il profondo potere simbolico del grande schermo, le sue idee fatte di immagini e silenzi in realtà gridavano più di qualsiasi altra cosa, così Charlot incarna lo spirito del Novecento, l’uomo schiacciato dal progresso, dalla guerra e dalla miseria, ma comunque testardo e vitale.

charlie chaplin

Il monello (The Kid) è l’opera prima di Charlie Chaplin, film culto del 1921 con protagonisti lo stesso Chaplin con Jackie Coogan e Edna Purviance. Le riprese della pellicola durano circa diciotto mesi, un periodo che coincide con una serie di infausti eventi che sconvolgono la vita privata di Chaplin: perde il primo figlio poco prima dell’inizio della lavorazione, il suo matrimonio finisce durante le riprese e il film rischia il sequestro. Alcune di queste vicende autobiografiche, sembrano in qualche modo confluire nell’opera, ma in modo lieve e quasi impercettibile, come la regia stessa. Infatti, il regista inglese usa la macchina da presa con discrezione: pochissimi prima piani, riprese frontali a distanza fissa, composizione che valorizza al massimo la recitazione dell’attore che è quasi sempre al centro dell’inquadratura. Dopotutto, Stanley Kubrick stesso sintetizza Il Monello definendolo «niente stile, tutto contenuto».

Il protagonista è un orfano abbandonato dalla madre e trovato per caso da un povero vetraio, che si improvvisa padre e lotta contro tutte le avversità che gli si abbattono addosso, tra toni burlesque e cupi insieme, in una Londra divisa tra ricchi e poveri, il vagabondo e il monello cercheranno di sopravvivere e di restare uniti. Guardando gli occhi pieni di lacrime del piccolo Jackie Coogan strappato dalle braccia di Charlot per essere spedito in orfanotrofio, è sconvolgente rendersi conto che quei fotogrammi hanno quasi novant’anni e che fanno parte dell’immaginario collettivo, uno sguardo puro che si fa cinema senza ricorrere a nient’altro se non all’empatia dello spettatore.

charlie chaplin

Il monello si caratterizza già come un insieme di quelli che saranno i temi portanti del cinema chapliniano: la denuncia sociale, l’attenzione al mondo degli svantaggiati, la fusione tra comico e melodramma, la cura dell’altro e la speranza. In Il monello, Chaplin adotta un approccio emotivo, ed è qui che ha origine questa commistione tra risata e dolore che caratterizza tutta la produzione di Chaplin, così il suo slapstick irriverente si fonde al sentimentalismo. Furono in molti a criticare questa scelta stilistica, ma il successo del film è indubbio, nonostante il delicato equilibrio che rende la pellicola uno strano ibrido tra un melodramma sentimentale e un film comico.

Alla fine, è semplicemente la storia di un bambino che sperimenta la paura dell’abbandono e il bisogno di sentirmi amato e al sicuro e non esiste niente di più universale e intimo insieme. Chaplin mette in risalto una maternità sofferta e raramente rappresentata sul grande schermo e un legame famigliare non tradizionale, anzi, un nucleo totalmente improvvisato ma non per questo meno vero. «A picture with a smile and, perhaps, a tear», questa è la frase storica che apre Il monello e che sinterizza e racchiude, forse, l’intera filmografia di Charlie Chaplin.

Terrence Malick e La rabbia giovane, on the road per le Badlands

Terrence Malick è considerato il J. D. Salinger del cinema: ha concesso pochissime interviste, stipulato un contratto che impedisce di usare la sua immagine a fini promozionali e ha dato il suo benestare per un documentario sulla sua vita, Rosy-Fingered Dawn – Un film su Terrence Malick (2002) diretto da Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann,  Gerardo Panichi e Daniele Villa, dove però non appare mai e la sua figura è descritta attraverso le interviste a colleghi e amici.

Malick inizia la sua carriera come script-doctor, non sempre accreditato e, nel 1973, scrive, dirige, interpreta un piccolo ruolo e finanzia personalmente la sua opera prima: La rabbia giovane (titolo dalla traduzione banale rispetto al più evocativo Badlands), un film indipendente interpretato da Martin Sheen (Kit) e Sissy Spacek (Holly), ispirato alle vicende reali del serial killer Charles Starkweather e della giovane compagna Caril Ann Fugate, negli anni ‘50. Un road-movie introspettivo, una spirale di delitti, una favola americana di amore e ribellione. Kit e Holly sono mossi dalla stessa inquietudine, lei scrive tutto sul suo diario – con piglio innocente – lui segue i suoi impulsi omicidi, persi e senza una direzione si muovono con la loro giovinezza rabbiosa per il paesaggio tragico e deserto delle Badlands.

Terrence Malick

Gli omicidi perpetrati dalla coppia, quindici anni lei e venticinque lui, sono un viaggio verso la follia. Se Holly li vive come in stato di trance e senza un’effettiva partecipazione emotiva, Kit sfiora la schizofrenia mentre i suoi attacchi di rabbia si fanno sempre più incontrollabili. Ma è proprio Kit l’anello debole, quasi ricerca la cattura come una liberazione, dall’inizio è destinato a compiere quel suicidio inventato per depistaggio, che sia in un incendio o su una sedia elettrica, la morte è l’unico modo di essere libero. Mentre Holly se la cava con poco, prima di sposare un uomo qualunque e tornare alla vita normale alla quale è destinata.

L’esordio di Malick è un film insolito, accolto con sorprendente entusiasmo alla sua anteprima al New York Film Festival. La pellicola con la sua originalità e l’altissimo gusto estetico, nonostante il budget ridotto, colpisce la Warner Bros che ne acquista i diritti e la distribuisce, pagando una cifra tre volte più alta del budget del film, cogliendo il significato sociale dell’opera che delinea in modo realistico la realtà provinciale della parte più selvaggia degli Stati Uniti.

La rabbia giovane ha già in sé tutte quelle che sono le caratteristiche del cinema di Malick: la rappresentazione cruda degli avvenimenti, l’importanza della natura selvaggia, il rapporto uomo-natura, la voce fuori campo introspettiva (quella di Holly, in questo caso), la fotografia curata e l’attenzione per la colonna sonora. Questo dimostra la chiarezza di idee, lo stile già formato e la visione che Malick ha del mondo, che nel corso della sua filmografia non cambia ma matura lentamente, sfiorando vette di perfezione assoluta.

Terrence Malick

Un po’ Lolita e un po’ A sangue freddo, l’opera prima di Terrence Malick è poetica e letteraria prima ancora che cinematografica, ma basterebbe dire che Bruce Springsteen ha tratto ispirazione da La rabbia giovane per incidere il singolo Nebraska, per capire che è uno dei film più evocativi degli anni ’70, un vero e proprio cult-movie.

Terrence Malick è un autore dai contenuti duri e spietati, che presenta al grande pubblico ritratti di uomini in crisi, con sé stessi e con la società della quale fanno parte. Malick ha uno stile unico, filosofico e spirituale, ed è noto per il suo perfezionismo maniacale e per la sua capacità intrinseca di dividere sempre pubblico e critica. Il regista americano ha segnato l’arte cinematografica con una ritrovata poesia visiva di rara bellezza, meritandosi piogge di candidature agli Oscar e un posto tra i grandi del cinema.