Instagram interviews: Giorgio Pasotti

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Quando chiamiamo Giorgio Pasotti, bergamasco, la situazione per il picco di contagi da Coronavirus in città è nel momento peggiore: Giorgio è preoccupato per la famiglia e gli amici che vivono lì, e nel suo Instagram ha inserito un numero a cui poter fare una donazione per l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in prima linea nell’emergenza. Ma, come per le altre interviste di queste storie Instragram #TuttiacasaconFabrique, il nostro obiettivo è soprattutto quello di parlare di cinema con attori e registi, facendoci raccontare aneddoti ed episodi della loro carriera, proprio per guardare oltre a questo momento così difficile.

F: Giorgio, cominciamo con un paese importante per te: la Cina.

GP: Il mio rapporto con la Cina nasce parecchi anni fa. Sono partito il 12 dicembre del 1992, tre anni dopo la rivoluzione studentesca di Tienanmen. Era una Cina drasticamente diversa da quella di oggi. Io ho avuto la fortuna di poter pensare di fare un’esperienza unica e irripetibile, perché ho potuto vedere il processo di trasformazione di quelli che erano i confini con l’occidente. Prima di allora gli stessi studenti cinesi ai tempi avevano poco chiaro cosa ci fosse al di fuori dei loro confini.

F: Cosa studiavi?

GP: Medicina. Volevo diventare medico sportivo. Mio padre lavora nell’antiquariato, e casualmente era venuto a conoscenza di un’università a Pechino tra le migliori in Cina. Io avevo appena finito il servizio militare, era ottobre. All’epoca non ci si poteva più iscrivere all’università in quel periodo, così ho passato i due mesi successivi senza sapere con certezza cosa fare del mio futuro. Poi, sentendo di quest’università, decisi di fare la valigia e partire.

F: Ci vuole molto coraggio (o follia).

GP: Avevo diciannove anni, a quell’età non ci si rende davvero conto di quello che si fa.

F: Parli cinese?

GP: Si, anche se non lo parlo più bene come prima. L’ho imparato lì, perché non sono partito conoscendolo prima. La Cina all’epoca ti accoglieva in uno scenario completamente diverso. Non c’era nessuna scritta in inglese, e nessuno, o quasi, parlava inglese. Arrivo all’università faccio l’esame d’ammissione, e mi dicono che posso rimanere. La stanza in cui alloggiavo era di circa due metri per quattro, e la condividevo con un ragazzo del Gabon. Avevamo solo una brandina e uno scrittoio a testa distanti un metro l’uno dall’altro.

F: Quindi l’arrivo non è stato dei più positivi.

GP: È stato abbastanza scioccante. Non era certo una prigionia, ma il regolamento comunista all’epoca era molto restrittivo. Ci si alzava alle 5.30 del mattino, alle 6 c’era l’ora di educazione fisica nazional-popolare. Chiunque doveva mettersi in fila e l’istruttore dava gli esercizi ad ogni singola persona. Il jet-lag non aiutava, e anche se mi svegliavo estremamente presto trovavo già alle 5 persone che facevano attività.

F: Quand’è che hai scoperto la tua passione per la recitazione? Lì in Cina?

GP: Non ho mai sognato di fare l’attore, non ho mai avuto una formazione recitativa classica. Mentre ero in Cina coltivavo parallelamente allo studio la mia passione per le arti marziali, e un giorno venne una produttrice di Hong Kong che cercava un ragazzo occidentale da scritturare per una produzione locale. Il primo film a cui ho partecipato si chiamava Treasure Hunt, con protagonista Chow Yun-Fat. Io interpretavo un ragazzo di origine americana cresciuto dai monaci shaolin. Ottenni la parte solo perché non c’erano altri attori occidentali disponibili. Non volevo assolutamente fare l’attore, ma ho pensato anche che partecipare in una produzione cinese sarebbe stata un’esperienza che non sarebbe più ricapitata. Per farla breve, il film esce e ha un grande successo, e in seguito mi chiamano per fare un secondo film, poi un terzo e un quarto.

F: Erano film sulle arti marziali?

GP: Tutti sulle arti marziali. Non dovevo recitare ma solo tirare calci. Facevo una cosa che sapevo fare ma in uno spazio diverso. Vado ad Hong Kong per l’anteprima del film e scopro di aver raggiunto una certa notorietà in quanto unico occidentale. Capitava anche che girando per le strade di Hong Kong qualcuno ogni tanto mi fermasse e mi chiedesse l’autografo.

F: Lasciando da parte la Cina, qual è il personaggio che hai interpretato che ti è rimasto più dentro?

GP: Ce ne sono parecchi, ma sono molto legato al primo film che ho fatto. È un film di Daniele Luchetti ed è I piccoli maestri, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello. Racconta la storia di un gruppo di ragazzi universitari durante la seconda guerra mondiale che abbandonano gli studi a Padova per abbracciare la resistenza. Quando sono tornato in Italia non ero ancora certo di voler fare l’attore, ma erano usciti degli articoli su di me e sulla mia carriera cinematografica in Cina. Non so come queste notizie arrivarono all’orecchio di Daniele Luchetti, non gliel’ho mai chiesto, ma disse che stavano cercando dei ragazzi per fare il suo film. Il fratello più grande di mio padre morì partigiano a 16 anni proprio sulla linea gotica, e dunque sono cresciuto con questa storia che i miei parenti mi raccontavano. La storia del film era molto simile, e quindi io sono andato a fare il provino quasi come per ripagare ciò che questo zio che non ho mai conosciuto aveva fatto. Daniele mi offrì subito il ruolo da protagonista, perché per lui gli attori erano “quelli che con una valigia o uno zaino facevano il giro del mondo e poi tornavano”.

F: Nella tua carriera hai lavorato con molti grandi registi, tra cui Monicelli. Puoi raccontarci qualche aneddoto?

GP: Di Monicelli ne posso raccontare parecchi, lavorare con lui è stata una grandissima esperienza soprattutto a livello umano oltre che professionale. È uno degli uomini più intelligenti che abbia mai incontrato. Durante le riprese de Le rose del deserto abbiamo lavorato tre mesi in Tunisia, e ogni tanto arrivavano delle forti tempeste di vento. Non si poteva fare molto, l’opzione migliore era ripararsi dietro qualcosa e aspettare che la tempesta passasse. Durante una di queste tempeste sento gridare “Mario! Mario!”. Io mi affaccio da dietro il carro armato che faceva parte del set e vedo nella polvere Monicelli con un elmo in testa da seconda guerra mondiale e un cappotto di tre taglie più grande di lui che avanzava per inerzia. Io tra me e me pensavo “ma dove va quest’uomo? Ma come fa?”.

F: E sul lavoro com’era?

GP: Aveva le sue simpatie e le sue antipatie. Aveva un rapporto esclusivo con Alessandro Haber in cui gliene diceva di tutti i colori, ma era una cosa che si era sviluppata negli anni. A me no invece; a me ha sempre voluto bene, rispettato e stimato. Diceva della nostra generazione di attori che “tu e la tua generazione prendete questo lavoro troppo sul serio; non ridete mai”.

F: Opinioni su Muccino e Sorrentino?

GP: Gabriele Muccino lo conosco da sempre. È un rapporto di amicizia e stima che ci unisce da anni. La prima volta che lo vidi era in un ufficio, stava realizzando la sua opera prima Ecco fatto. Ero lì per un provino, vidi Gabriele entrare con i roller blade e pensai subito che fosse una persona poco seria. Invece poi ne ho scoperto il talento e penso che l’abbia anche ampiamente dimostrato.

F: E Sorrentino?

GP: Sorrentino lo considero il più grande talento che oggi abbiamo in Italia. È una persona a cui bastano pochi fotogrammi per far riconoscere il suo stile, il suo gusto musicale. È vero che è accompagnato da professionisti come Lillo Macchitelli, che lo consiglia, ma è anche un meraviglioso DJ. Io sono un fan di tutto quello che Sorrentino ha fatto, non ultimo il lavoro su Young Pope che trovo una delle serie più belle degli ultimi anni.

F: Che tipo di film ti piace raccontare? So che il tuo secondo film come regista è in uscita, quando sarà possibile…

GP: Sono un grande appassionato del cinema scandinavo. Questa mia seconda regia è il remake proprio di un film danese dal titolo Le mele di Adamo, un film del 2005 di cui mi innamorai perdutamente. Mi rimase quest’ironia intelligente e attuale, forse più attuale ora rispetto a quando il film uscì. Questi film riescono a raccontare la vita senza accontentare nessuno, ma semplicemente raccontandola per quello che è, nella sua ferocia, a volte nella sua tristezza e a volte nella gioia che ti porta.

(ringraziamo per la collaborazione Giovanni Ardizzone)