Cannes 2016/ “Il silenzio”, unico italiano in concorso

Kino produzioni vola sulla Croisette: Il silenzio”, cortometraggio di Ali Asgari e Farnoosh Samadi, è l’unico titolo di produzione italiana in concorso.

A capo della Kino Giovanni Pompili: davanti a sé Il più grande sogno mai sognato, lungometraggio di Michele Vannucci con Alessandro Borghi. Alle spalle un anno di successi, con Quasi eroi di Giovanni Piperno (vincitore del Nastro d’Argento 2016) e Giro di giostra di Massimiliano Davoli (vincitore del premio RAI Cinema a Cortinametraggio), e un’idea precisa di cinema: conoscere il metodo per sovvertirlo, cogliere gli infiniti spunti della realtà e portarli in scena.

Giovanni, trovo che le tematiche affrontate ne Il silenzio e in Quasi eroi favoriscano alcune scelte stilistiche piuttosto coraggiose. Parlami del taglio antropologico che fa da fil rouge a tutte le tue produzioni.

Per me fare questo lavoro è un atto di cittadinanza attiva. Io vengo dal cinema documentaristico: ho iniziato a 22 anni facendo l’assistente operatore, sicuramente aver lavorato nel campo mi ha aiutato. Ho fatto anche delle regie di documentari e ho vinto un premio nel 2011, con un reportage sulla maternità precaria. L’anno precedente avevo diretto e co-prodotto un documentario sulle donne arabe nel Mediterraneo, una sorta di riflessione sui confini. Sicuramente vengo da un approccio molto legato alla realtà.

Questo approccio “politico” svela anche un personale gusto registico. In che modo la tua idea di cinema influenza il tuo lavoro di produttore? Quando consideri valido un progetto?

Distinguiamo innanzitutto la scelta di voler lavorare con degli autori e quella di voler esplorare dei soggetti, anche se ovviamente per me vanno insieme. Per me il soggetto è la realtà che deve essere raccontata. Dopo vent’anni in cui si sono raccontati gli amori borghesi di Prati… basta, raccontiamo quello che è il paese reale, le storie reali. Anche perché, Zavattini lo diceva, la realtà è una miniera d’oro, è stupefacente. In Quasi eroi ad esempio, c’è una scena in cui i protagonisti si baciano in tram mentre un uomo discute al telefono con suo padre, che non riesce a capire qual è il PIN per la banca online… In molti mi hanno chiesto: “Come vi è venuto in mente di scrivere un pezzo del genere? Che genialità”. Ma non è scritto, era vero! Anche il lavoro che abbiamo fatto con il film di Michele Vannucci, che stiamo finendo di montare (Il più grande sogno mai sognato) nasce da una storia vera che viene rimessa in scena. Ambientato in un quartiere di Roma Est, la maggior parte degli attori non erano professionisti e si girava a canovaccio. È stato un approccio molto da cinema d’osservazione. È complesso, perché vivi insieme le difficoltà e le bellezze di un modo di lavorare non tradizionale.

Si sta parlando molto della Kino: da Cannes, Venezia e Berlino, addirittura alla distribuzione in Giappone di Cargo (di Carlo Sironi). Nell’ottica di un cinema impegnato, non hai mai la sensazione di accettare un compromesso? Il consenso di critica a discapito del successo di pubblico?

Pubblico e critica, è una bella domanda. È un cinema politico dal punto di vista di contenuti, di spunti. Il modo di raccontare può avere un successo di critica e non di pubblico, oppure il contrario – vedi Checco Zalone, nemmeno è stato nominato ai David di Donatello! Oppure Guadagnino, che adesso in America ha un’accoglienza di critica molto favorevole, mentre a Venezia lo hanno stroncato. Qui potremmo ragionare per ore: chi rappresenta la critica, che vuol dire cultura?