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Chiara Del Zanno

Andrea Lattanzi: ogni tanto bisogna dare da mangiare ai demoni

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Andrea Lattanzi ci piace, e tanto. In scena ha l’istinto dell’animale sciolto, ma anche il paracadute sempre pronto: ha studiato molto, e questo gli evita lo schianto. La sua filmografia merita già attenzione: il premiatissimo Manuel di Dario Albertini, tre stagioni di Summertime su Netflix, La svolta di Riccardo Antonaroli, Grazie ragazzi di Riccardo Milani e tutto quello che – siamo sicuri – verrà, a partire dai due progetti in lavorazione (Io e il Secco di Gianluca Santoni e l’opera prima di Maria Tilli). Durante la chiacchierata ci ritroviamo a citare Marinelli e Germano, in particolare “quella scena” devastante in un film di Luchetti. Allora azzardo e faccio una scommessa: il suo destino è quello. Ha il talento naturale di far vibrare una battuta con un gesto, e quand’è così c’è poco da aggiungere.

Sei reduce da un altro viaggio a New York, dove tutto è iniziato.

È stato stranissimo tornare lì. Ci ho vissuto un anno e mezzo, avevo vent’anni ed era poco prima di girare Manuel. Ho fatto un tour nostalgia.

Quando l’hai lasciata avevi vent’anni, com’eri messo?

Male. Ero messo male [ride ndr]. Non c’avevo più una lira, ho dormito per strada. Chiamare mia madre non era fattibile, si sarebbe preoccupata.

Mi sembra di parlare con Patti Smith e Robert Mapplethorpe, questa tua New York randagia e pericolosa.

Guarda che sono finito in situazioni che, se sono vivo, è solo per miracolo. È stato bellissimo e traumatizzante. La verità è che ci ero andato per entrare all’Actors Studios, ma passavo lì fuori e non avevo il coraggio di entrare, mi metteva ansia e poi chissà che mi sognavo. Fatto sta che dopo un anno e mezzo ho trovato su Facebook un concorso RB Casting con Carlo Verdone, Lina Wertmuller e Daniele Luchetti in giuria. Bisognava portare un monologo in romanesco. Lì mi sono caricato, sono andato con la convinzione di voler vincere.

E se questo fosse un film, la prima svolta sarebbe il momento in cui tu dici a Verdone: «Però a me non me devi ferma’». Racconta.

Succede che su mille provinati, il ragazzo che si esibisce prima di me porta il mio stesso monologo. Assurdo. Carlo Verdone lo blocca dopo pochi secondi, perché aveva fatto pietà. Io capisco che non è aria e faccio per andarmene, invece mi sento chiamare: «Andrea Lattanzi». Mi blocco, mi giro, butto la borsa per terra e arrivo davanti a Verdone: «Guarda, ti porto lo stesso monologo di quel ragazzo». Lui allarga le braccia: «No, pure te!». E lì mi viene quella faccia da culo di dirgli: «Sì, però a me me lo devi fa’ fini’». Lui mi fulmina per qualche secondo, poi si infila le cuffie: «Ok. Quando vuoi tu». Faccio tutto, riprendo la borsa e poi esco in lacrime.

Stacco: ti chiamano, sei tra i dieci finalisti, e da lì parte tutto.

Sì, poi Dario Albertini vede il monologo incriminato su YouTube e mi chiama per il provino di Manuel.

L’amore per il cinema – hai raccontato – è nato per distrarti da certi demoni che ti porti dentro.

Ti dico una cosa: a me dà fastidio chi gioca su questa cosa, “io vengo dalla strada”. Chi viene veramente dalla strada non ci vuole più torna’. Io l’asfalto l’ho mangiato e non voglio stare qui a sfoggiarlo, anzi, me ne vergogno. Non ne parlo, perché ho fatto cose di cui non vado fiero. Quando dico che questo lavoro mi ha salvato la vita è vero, ma io ho studiato per farlo, era una passione. Però per tornare alla tua domanda: bisogna dargli da mangiare, ogni tanto, a ’sti demoni.

Sì, ma mentre il mondo brucia noi stiamo qui a parlare di cinema: voglio dire, perché fai l’attore?

Perché è una cosa che amo, e mi distrae da quello che accade intorno, dai disastri e dalla miseria. Ne soffro, ma anche qui mi dissocio dal metterlo sui social e partecipare alla fiera dell’ipocrisia. Da una parte pure quando recito mi tornano fuori i mostri, anche perché non sono uno stinco di santo. Vado tuttora in terapia, ogni tanto dico che dipende da questo mestiere, ma non è vero. Ci vado perché ho fatto un sacco di cazzate in vita mia. Ci sono state grandi mancanze che mi hanno lasciato dei traumi.

Manuel è il film che ti ha cambiato la vita. Hai detto che sei nato con il cinema d’autore ed è lì che vuoi tornare.

Io ho sempre voluto fare cinema d’autore, non avrei mai scelto di fare nessun altro tipo di progetto. Sono incazzato perché in Italia diciamo che non c’è più la cultura della sala, ma se tu un film come Manuel lo distribuissi nello stesso numero di copie che concedi ai film mainstream o americani, magari qualcosa cambierebbe, no?

Non c’è niente che ti pesa fare?

Mi pesa quando non trovo sensibilità sul set, quando manca tatto verso gli attori. Se lo fai notare, magari ti rispondono con l’esempio dell’America, “quell’attore però si è buttato in una vasca a meno venti gradi”. E certo, chissà in che condizioni di lavoro l’hanno messo per farlo, lì ci sono i soldi e le cose si fanno in grande. Ma io non vado a mori’ a meno venti gradi per i cazzi tuoi. Se non amassi così tanto questo lavoro, certe volte me ne andrei.

Quanto conta questa tua faccia in questa tua carriera? A Roma non ti definiremmo un bello canonico, ma uno che tira.

Io nel dubbio cerco sempre di fare bella figura ai provini. Germano o Marinelli per me sono bellissimi. Di essere un Ken non mi importa, non mi sono mai detto allo specchio: “Ammazza Andre’, quanto sei bello”. Il concetto di bellezza al cinema andrebbe davvero sdoganato, soprattutto per le attrici. Conosco colleghe bravissime che farebbero numeri rispetto ad altre che sono ora in circolazione. Però ci sono pure i belli e bravi, eh, non è che mo’ dobbiamo essere tutti intriganti.

Cover Fabrique: non ti chiedo cosa sogni, ma dove pensi di poter arrivare.

Ho tanta fame di questo lavoro e ho appena iniziato. Ho le idee chiare, quando vado a dormire me le proietto tutte in testa. Mi avevano preso per due progetti esteri importanti, ma ho dovuto rifiutare perché stavo girando altro. Il fatto che abbiano già bussato mi fa pensare che capiterà ancora. Non mi interessa andare fuori dall’Italia per avere successo, è che voglio vedere come fanno il cinema dall’altra parte. Qui, invece, sogno di lavorare con i più grandi registi che abbiamo

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Cinque validi motivi per vedere Call My Agent Italia

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Call My Agent Italia, l’attesissimo remake del fortunato format francese, ha dalla sua (almeno) cinque punti di forza rispetto all’originale. Eccoli:

1) Da Boris a Call My Agent Italia: Italians do it better

Terreno pericolante come pochi, quello su cui si incamminava Call My Agent Italia. A stargli con il fiato sul collo c’erano, direttamente da Parigi, il format originale con uno schieramento di star internazionali (Jean Reno, Charlotte Gainsbourg, Isabelle Huppert, Juliette Binoche, Jean Dujardin) e giocando in casa il mostro-sacro-Boris. Il confronto qui era immediato: si passa dal pesce rosso insider dei set all’italiana, al cane mascotte dell’agenzia di spettacolo CMA, Marcello (richiamato al suon di «come here», che fa già ridere così). Il tutto inevitabilmente ambientato a Roma, anche stavolta. Siamo nell’universo del meta cinema, della casta che svela i propri altarini in chiave comedy: e farlo in Italia dal 2007 in poi, senza provocare il paragone con Boris, è praticamente impossibile.

Invece il nostro Call My Agent non solo diverte e fila che è una meraviglia – scritto da Lisa Nur Sultan, sempre più forte, e diretto da un accuratissimo Luca Ribuoli – ma ci ricorda che questa è anche una delle cose che sappiamo fare meglio. Vuoi per scanzoneria innata o perché non ci resta che ridere, ma quando si tratta di autoironia siamo i migliori della classe. L’elenco di scene brillanti e battute che hanno il potenziale per tradursi in citazioni popolari “alla Boris” è davvero succoso. Dal tormentone sul nuovo mito del «ruolo femminile irriverente tipo Fleabag» (che ormai utilizziamo per vendere qualsiasi contenuto come “molto poco italiano”), all’attrice megalomane senza talento incarnata da Emanuela Fanelli (se vogliamo, spassoso update della “cagna maledetta” firmata Crescentini), ma anche a gag che inquadrano le dinamiche penose del lavoro all’italiana (di cui Biascica rimane il portavoce per eccellenza): «Non non sei tu che te ne vai – urla l’agente alla sua assistente under 30 – ma sono io che ti licenzio! (pausa) Che cazzo dico, non sono io che ti licenzio senza giusta causa, ma sei tu che te ne vai». D’altronde Favino sale sul palco dei David, farfuglia in spagnolo ma riceve comunque la standing ovation perché è Favino, mentre Sorrentino orchestra un pesce d’aprile proponendo la terza stagione sul Papa con Ivana Spagna, Madonna e Lino Banfi, senza che nessuno osi battere ciglio… Un po’ come quando René Ferretti dava del «genio!» a chiunque lasciando il re nudo, no?

2) I “pacchetti agenzia”: è outing

Ebbene sì, Call My Agent Italia lo fa: inserito en passant durante una scena tra Maurizio Lastrico e Kaze (il contesto è un litigio tra agente e attrice esordiente), la serie mette in bocca all’agente il famoso segreto di Pulcinella. La questione funziona più o meno così: in fase di casting c’è sempre una gerarchia di ruoli ed interpreti; allora può capitare che se per il tuo film vuoi il pezzo da novanta della mia agenzia, in cambio mi prendi anche alcuni attori minori tra quelli che rappresento. È una moneta di scambio, discutibile o meno, che tutti conoscono ma che nessuno dichiara apertamente. Per questo la battuta ha il retrogusto di un outing: «Ho fatto quello che fanno le agenzie – ammette il personaggio di Lastrico – cioè dei pacchetti. Ho cercato di prendere due piccioni con una fava». Dopotutto chi si era mai vantato di “smarmellare” prima che Duccio aprisse le danze? Insomma, i cast di certe serie tv con cinque o sei attori provenienti dalla stessa agenzia, e gli aneddoti su callback e ruoli vinti per legittima bravura ci lasciano un po’ disorientati, ma qui il dubbio sulla leggenda dei pacchetti viene risolto «così, de botto». E amen.

Call My Agent Italia
Sara Lazzaro in “Call My Agent Italia”.

3) Sofia e Monica: un passo avanti ai francesi

Che poi non è che in Dix pour cent filasse proprio tutto liscio, specialmente in termini di scrittura. Su certi personaggi solidissimi e originali (in primis la Andréa Martel di Camille Cottin) gravava il peso di altri ruoli abbozzati in modo macchiettistico e un po’ ridicolo, poi corretti nel corso delle stagioni. Noémie e Sofia (nella versione originale Laure Calamy e Stéfi Celma) sono l’esempio meno riuscito. Nel nostro remake italiano, invece, si ha l’impressione che già in sceneggiatura siano state individuate e rifinite proprio queste mancanze, riscrivendo i personaggi con l’obiettivo di superare frivolezze e momenti d’imbarazzo. La Monica di Sara Lazzaro e la Sofia di Kaze brillano per caratterizzazione e interpretazione – non per riflesso – e acquisiscono una nuova dignità. Entrambe portano a un’imprevedibile riscoperta dei due ruoli: chapeau.

4) Viva Jean Reno, però…

Sorrentino fa Sorrentino. Entra in scena annunciato dal primo piano di una suora, dispensa aforismi sulla vita e si prende gioco di tutti, a partire da se stesso (non dimentichiamo i pionieri del format “Sorrentino che imita Sorrentino”: i The Jackal). Accorsi fa Accorsi. E qui è davvero uno showman di prim’ordine, tra il santone del cinema italiano e il ragazzaccio ancora tormentato di Radiofreccia, sempre ossessionato dalle sue due cose preferite: l’Emilia Romagna e «l’ennesima idea di Stefano Accorsi». Favino è esilarante. Rimane il dubbio che la sua, più che una partecipazione, sia una richiesta d’aiuto: “Pietà, smettetela di prendermi così sul serio”. E poi tra De Angelis che manda al diavolo il web politicamente corretto e Cortellesi che studia il proto-etrusco mostrandoci (di nuovo) quanto ci incensiamo anche in quelle occasioni, arrivano loro due: Guzzanti e Fanelli, insieme. Che vorresti ridere ma non ci riesci, per quanto fa ridere.

5) Perfetti sconosciuti e Bali: la storia ci insegna che

Due moniti grossi come monoliti, da non sottovalutare solo perché siamo in piena commedia. Primo: un cinema senza coraggio e senza lungimiranza, è un cinema perdente. Il più grande errore commesso alla CMA ha un nome, un cognome e un titolo venduto in 80 paesi per un incasso globale di 320 milioni di dollari: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Il poster del remake coreano campeggia sulla macchinetta del caffè dell’agenzia per ricordare a tutti che quando un regista propone un’idea insolita, un agente dovrebbe pensarci bene prima di rispondere: «Non suona. Messaggini e spuntine blu? Ma fai Immaturi 3, non rompere il cazzo».

Secondo: al netto del fatto che Call My Agent Italia fa satira, la maggior parte di ciò che mostra corrisponde alla realtà. Quel tipo di adrenalina è davvero il motore della nostra industria, ma il senso di ridicolo che spesso ne scaturisce… pure. Il segreto per prenderla con leggerezza e ricordarci che non siamo a questo mondo per salvarlo, ma al massimo per intrattenerlo un po’, è nei primissimi episodi. Questa storia inizia quando il fondatore dell’agenzia, in videocall dall’Indonesia, annuncia a tutti di voler mollare la baracca: «In un pianeta dove esiste Bali, me vuoi di’ perché devo mori’ a Roma Prati?». Ma infatti: perché?

 

 

 

 

Beatrice Grannò: Meglio la verità della perfezione

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Se Beatrice Grannò è il talento emergente sulla cover di Fabrique n. 38 è anche doveroso chiedersi dove e come stia emergendo, dopo anni di carriera: all’estero, intanto. E nella musica, presto. Perché in mezzo a tanta recitazione, datele un pianoforte, un microfono e un po’ di folk… e non è detto che si volti indietro a guardarvi.

Era sul set di Doc – Nelle tue mani 2 quando ha scoperto di aver vinto il provino per The White Lotus: Sicilia. In pochi giorni è scappata a Taormina per iniziare le riprese di una serie internazionale amatissima dalla critica, che di lì a poco avrebbe dominato gli Emmys in mondovisione. Viaggiando tra Italia e Stati Uniti, ovvero tra Rai ed HBO, ma anche tra un personaggio drammatico e tormentato (Carolina in Doc) e una nuova versione di sé impudente e maliziosa (Mia in The White Lotus), Beatrice Grannò si porta già dietro un bagaglio da mestierante: l’accademia di Londra, il teatro di strada, il film di Cristina Comencini in cui è co-protagonista accanto a Giovanna Mezzogiorno (Tornare, del 2019) e quello di Leonardo Guerra Seràgnoli tratto da Gli indifferenti di Moravia (con un paio di scene durissime, insieme ad Edoardo Pesce). E poi, certamente, Security di Peter Chelsom, la serie Netflix Zero e quel film di nicchia a cui lei resta sempre legata: Mi chiedo quando ti mancherò di Francesco Fei.

Quindi sei con un piede nella serie di punta Rai, e l’altro nella HBO: sogni o sei desta?

Pensa che ero sul set di Doc e mi sono ritrovata a fare il provino per The White Lotus, mi sembrava una realtà così lontana. Quando Mike White [nda: autore della serie] è venuto a Roma per l’audizione dal vivo, il tutto è durato dieci minuti… E dopo una settimana ero già sul loro set. Mi ci sono ritrovata catapultata.

Serialità mainstream e serialità di nicchia: parliamone.

La cosa interessante di White Lotus è che oggi è molto popolare in America, ma quando uscì la prima stagione rientrava nelle serie con una grande identità autoriale, osannata dalla critica. Quindi di primo impatto per me non aveva l’aria di essere una serie-evento tipo Euphoria o Succession. Il successo enorme è arrivato con gli Emmys: lì si è iniziato a capire che la nicchia poteva diventare popolare. Allo stesso tempo ricordo che mentre stavamo girando The White Lotus a Taormina era appena uscita Doc2 ed io ero in copertina su TuStyle. I miei colleghi americani pensavano che fossi chissà chi, e a me veniva da ridere.

Il contrasto tra i due personaggi è piuttosto forte: in Doc sei la fragile figlia di Argentero, in The White Lotus una giovane donna ammiccante e spregiudicata.

Quello che mi piace del personaggio di Mia, in contrapposizione a ciò che ho sempre fatto anche con Carolina in Doc, è che inizialmente lei è reticente ma quando poi prende il via non ha mai un momento di vulnerabilità. E invece tutto ciò che è dramma per me funziona. Io mi sento molto serena nel raccontare personaggi in difficoltà, mentre Mia in un certo senso non dubita mai di sé, è quasi comica quando ripete “I’m a great pianist, I can sing very well”. Non fa che dire: “Sono pazzesca, sono bravissima e mi merito tutto”.

Quindi una drama queen come lavora sull’anti-drama?

Spesso scherzavo con Mike: “Ma questa Mia non ha mai un momento di crollo? Perché io questa cosa la so fare benissimo, fammi versare una lacrima, dai!”. In realtà è stata una grande sfida per me raccontare un personaggio così pieno di sicurezza, con una forza femminile che tuttavia non rientra nello stereotipo, perché Mia è determinata quanto maldestra.

Hai vinto un provino ambitissimo: come è andata?

La verità è che a volte, quando ottieni questi ruoli, la vera fortuna sta nell’essere molto vicina all’idea che il regista ha di un personaggio in sceneggiatura. Mike stava cercando un’attrice italiana, che avesse un’energia innocente ma che fosse disposta a tutto per realizzare il sogno di cantare e suonare. Mi sono detta: “Ok Beatrice, questa è roba tua”. Mi sono presa vari giorni per allenarmi con il siciliano e una domenica ho convocato a casa un gruppo di persone che mi aiutassero a preparare il selftape. Io e Simona Tabasco eravamo sul set di Doc mentre studiavamo entrambe per i provini di Mia e Lucia, e ci siamo divertite così tanto che le dicevo: “Simo’, ma ci pensi se questa cosa succede davvero?”.

Mi piace l’idea di chiedere a un’attrice che debutta in una serie internazionale pluripremiata: quanto ti è tornata utile l’esperienza della lunga serialità italiana?

Il set di Doc mi ha insegnato a mantenere una concentrazione costante con dei ritmi sempre incalzanti, perciò quando sono arrivata a girare The White Lotus ero allenata. Però era un lavoro del tutto diverso, perché dal dramma sono passata alla commedia. Mi sembrava di essere tornata a Londra, con il mio direttore di accademia che ci ricordava di essere liberi e spontanei. Bisognava che trovassi delle cose mie da portare nel personaggio, per renderlo comico ma anche unico. L’obiettivo era che Mia e Lucia tenessero sempre un’energia molto alta nell’economia della storia. Io dico sempre che sono come due biglie che vengono lanciate in questo albergo di lusso per alterare gli equilibri delle famiglie…

E tu, guarda caso, sei una biglia che canta e suona il piano.

Tutto in live session. Per la prima volta mi stavo esibendo dal vivo con un pianoforte a coda, e lo stavo facendo davanti a tutti, su un set americano così importante. Ero preoccupata ma il regista voleva che la performance fosse reale, anche con dei piccoli errori e dei momenti di respiro. È stato liberatorio, mi ha fatto staccare dall’idea di dover sempre ottenere la performance perfetta: ho sacrificato la perfezione in cambio della verità.

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Agrodolce, una storia di sognatori

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Quattro ragazzi, quattro vite diverse, quattro sogni difficilmente realizzabili. Ambientata in una cittadina della pianura padana, questa è una storia di ventenni, vista dallo sguardo di un ventenne. Marco, Cecilia, Tommaso e Paola, i protagonisti del film, sono dei gran sognatori e immaginano nel loro futuro la realizzazione delle loro aspirazioni e il riconoscimento delle loro capacità. Inseguono i loro sogni con determinazione, con passione e con grande fiducia… ma sbatteranno presto contro la dura realtà.

Scrive MyMovies: «Alessandro Prato, al suo primo lungometraggio totalmente autoprodotto, mostra un controllo del mezzo nonché un’abilità nel fare casting e poi nel dirigere gli attori che non molti film di esordienti possiedono». 27 anni, nato a Cremona e trasferitosi a Roma, nonostante la giovane età Prato si è formato lavorando con maestri come Pupi Avati, Giancarlo Giannini, Tonino Zangardi e Abel Ferrara, che lo ha scelto per recitare accanto a Willem Dafoe nel suo film Tommaso. Proprio nella sua città il regista è tornato ad ambientare la sua opera d’esordio, Agrodolce, per cui ha scelto un titolo tutt’altro che casuale, in riferimento alla vita di una generazione che gravita attorno a soddisfazioni e dolori: «Cremona mi ha regalato location di notevole bellezza: Piazza del Duomo, Palazzo Raimondi, Palazzo Araldi – Erizzo, la campagna cremonese, il parco Po, i licei, le botteghe di liuteria: questa città è la più importante al mondo per la costruzione di strumenti musicali ad arco».

Il film è vincitore del Premio Utopia alla 35ª edizione del Festival del cinema giovane – Castellinaria (in Svizzera), dove il regista è stato premiato per aver diffuso «la magia dell’utopia e del ‘non luogo’, ma pure di concetti quali la scoperta, la ricerca interiore, il sogno, il coraggio, la solidarietà, la giustizia e la bellezza». Già apprezzato dalla critica e dal pubblico per l’attualissima tematica trattata, la scelta e la direzione del cast e la capacità di Prato di strutturare un racconto coerente e sincero, in cui i personaggi raggiungono l’identità di persone reali, Agrodolce è ora disponibile su Amazon Prime Video, Google Play ed Apple Tv, distribuito da Direct to Digital.

2Flows. La musica attraverso chi la vive

She è una cantante di successo annoiata dalla vita che viene sfruttata dal suo manager Cristiano, uno squalo del settore musicale. Luca, aka Tempo, è un artista che lavora come lavapiatti per aiutare la madre ad estinguere il mutuo della loro casa. Luca, dopo aver inciso la sua nuova canzone con l’aiuto dei suoi amici Marco e Boro, scopre che il suo ultimo video è diventato virale su tutti i social. Grazie a questo successo viene notato e contattato da Cristiano che gli dà appuntamento al Blue Velvet, un locale molto rinomato in città. È lì che i destini di Luca e She si incroceranno grazie alla mano inconsapevole di Cristiano che, seppur non volendo, cambierà per sempre le vite dei due ragazzi.

Presentato a Torino, 2Flows è ora disponibile su Amazon Prime Video, Google Play e prossimamente su Apple TV distribuito da Direct to Digital. Il titolo si rifà ad un gioco di parole che rappresenta due diversi flussi di vita ma anche due stili di rap. D’altronde la particolarità del film è nella sua stessa natura: questa è una storia sulla musica interpretata da artisti veri, che raccontano con onestà e passione tutti i sacrifici, le ansie e le emozioni di chi la musica la sogna, ma cerca anche di farne un mestiere.

Nel cast: Nicolò Bertonelli (Oltre la soglia; Braccialetti Rossi 3; The Christmas show), Maria Teghini, Gianmarco Bellumori (La grande bellezza), Roberta Carluccio (influencer da 2 milioni di follower), Alessandra Carrillo (1994; Il processo; Oltre la soglia; Il paradiso delle signore; Luna Park), il noto rapper Boro Boro, il rapper Vaz Tè e il producer-dj Zero Vicious.

Ambientato nella scena rap torinese, 2Flows mette a confronto la vita dei musicisti protagonisti evidenziandone le differenze: c’è chi come Luca sogna di emanciparsi dalla periferia per diventare un rapper famoso, e chi, come She, è già una cantante affermata ma soffre nel rigido mondo dello showbiz. La vera sfida sarà capire dove trovare la felicità… senza mai rinunciare ai propri sogni.

Il nostro nome è Anna: Anne Frank oggi

Anne Frank è il simbolo di tutti i bambini che furono vittime della Shoah, ma anche di coloro che oggi continuano ad essere discriminati. I suoi ideali sono condivisi attraverso gli occhi di Anna, un’adolescente dei giorni nostri.

“Cosa succede quando gli ideali di Anne Frank si scontrano con la vita quotidiana del nostro tempo?” si è chiesto il regista Mattia Mura Vannuzzi, contattato da Federica Pannocchia, Presidente dell’Associazione di volontariato Un ponte per Anna Frank, con l’obiettivo di capire come trasmettere al giorno d’oggi i valori presenti nello storico diario. Immaginando il candore e la maturità di una giovane Anna contemporanea (qui interpretata da Ludovica Nasti in stato di grazia), e affidandosi al realismo magico che il cinema concede.

Il nostro nome è Anna
Ludovica Nasti in Il nostro nome è Anna

«Anne Frank non è solo il simbolo di quei bambini che sono stati uccisi durante il nazionalsocialismo – dichiara il regista – ma anche di tutti coloro che vivono al limite della società». Il riferimento è senza dubbio agli aspetti più cupi della nostra attualità: dal movimento #BlackLiveMetters in America agli emarginati, i richiedenti asilo siriani, i rifugiati e qualsiasi vittima dell’indifferenza: «Di fronte al filo spinato del campo profughi dell’Isola di Lesbo ho avuto gli stessi brividi che mi hanno colpito prima di entrare ad Auschwitz, e ho sentito un’eco che è come un graffio nell’anima del mondo. Nel silenzio e nel consenso, il mondo ha chiuso gli occhi e ha lasciato che accadesse, e a volte vedere è ciò che ci separa dall’incredibile». E così che Anna, oggi più che mai, incarna una speranza e anche un sogno della coscienza.

Parte di un percorso di sensibilizzazione più ampio, Il nostro nome è Anna è stato proiettato nelle scuole e nelle biblioteche per arrivare direttamente agli studenti, ovvero i giovani che stanno crescendo e cresceranno ancora nel mondo attuale. Dalle parole di alcuni di loro emerge tutta l’importanza della divulgazione culturale, come nel caso di K., 10 anni: «Mi sono sempre sentita diversa, inoltre a casa i miei genitori litigano sempre… con Il nostro nome è Anna ho capito come essere felice». Il cortometraggio è ora disponibile anche su Amazon Prime Video, distribuito da Direct to Digital.

Ambrosia Caldarelli, protagonista di Circeo: “sul set avevo sempre la voce di Donatella nelle cuffie”

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Alcuni insider dal set di Circeo (la nuova secretatissima serie di Andrea Molaioli, prodotta da Cattleya con VIS per RAI e Paramount+ Italia) ci riportano commenti estasiati su una giovane attrice che interpreterà Donatella Colasanti nella pagina più avvincente della sua vita, quando dopo essere sopravvissuta al massacro del 1975 è diventata il simbolo del movimento femminista nel nostro Paese.  Lei si chiama Ambrosia Caldarelli, metà pugliese e metà romana, cresciuta a Trastevere con San Callisto nel DNA. Voce rauca e sguardo che sa mettere in soggezione, una faccia camaleontica che si presta a tutto: le prime foto già stanno circolando, la vediamo trasformata dal make-up e dallo studio maniacale del personaggio.

Tra spot, TV e qualche ruolo nel cinema (l’ultimo nel delicatissimo Il filo invisibile di Marco Simon Puccioni), Ambrosia sta per essere lanciata come protagonista da due progetti che hanno investito molto su di lei: oltre a Circeo (dove sarà affiancata da Greta Scarano e Angelo Spagnoletti) arriverà il film Non sono quello che sono, un dramma torbido diretto e interpretato da Edoardo Leo.

Ambrosia, come il nettare che rende immortali gli dei…

Mia madre una volta sfogliò I fiori del male di Baudelaire e lesse nella poesia L’anima del vino di un’«ambrosia vegetale». Qualche anno dopo aprì un cassetto nella biblioteca dell’università e ci trovò scritto dentro «ambrosia». Troppe coincidenze, quindi contro tutto e tutti decise di chiamarmi Ambrosia. Mi piace molto, non ce l’ha nessuno.

Ed è difficile da dimenticare, ottimo per questo mestiere. Quando hai capito che volevi fare l’attrice? È stata un’epifania o un percorso?

Diversi anni fa io e le mie amiche ci siamo ritrovate in fila per dei casting, sembravano i provini di X Factor però al Nuovo Sacher, per un film di Moretti. Ci fotografavano con un numeretto, era un evento di massa. Senza che me lo spiegassi mi hanno richiamata per un ruolo. Mi sono ritrovata a fare un provino con Nanni: ero andata con l’idea di fare la comparsa per gioco e mi sono ritrovata con un grande del cinema. Ovviamente è stato un disastro totale, però qualcosa dentro mi è scattato.

Cos’è che ti ha emozionato, quella prima volta?

Dare voce a un personaggio. A pensarci bene, oggi è quello che mi spinge a fare questo lavoro. Infatti ora non mi vedrei a fare nient’altro… che rischia pure di essere un problema [ride].

Con Circeo hai dato voce a un personaggio che più complesso di così non si poteva, Donatella Colasanti. Sarà il primo ruolo da protagonista con cui il pubblico ti conoscerà. Ci si può mai sentire pronti per un ruolo del genere?
È proprio quello il punto, forse non ci si sente mai pronti. E forse l’ho fatto anche per questo, perché se ci avessi pensato troppo avrei rifiutato. Ho studiato moltissimo ma mi sono anche un po’ buttata… sennò non ce l’avrei fatta.

Com’è arrivato questo ruolo?

Era uno dei mille self-tape, ma notavo che continuavano a chiamarmi. Al sesto provino ho iniziato a crederci un po’. Quando mi hanno telefonato per dirmi che mi avevano presa stavo lavorando in un ristorante come cameriera, ero in pausa e ho urlato davanti a tutti. Ricordo che dall’inizio ho iniziato a informarmi e poi ad affezionarmi a Donatella. Era pesante anche solo la preparazione, perché non facevo che guardare i video di repertorio.

Ho l’impressione che tu abbia un fortissimo senso della disciplina…

Hai ragione. Se faccio qualcosa diventa totalizzante. Ma non è un vanto, credo sia questione di carattere. Se ho un progetto in ballo io non esco di casa, entro in modalità secchiona. Anche quando facevo la cameriera la vivevo così, penso sempre che se mi è arrivata una cosa devo tenermela. Nessuno ti regala niente.

Interpretare una storia vera: come hai trovato l’equilibrio tra fedeltà verso la persona reale e libertà verso il tuo lavoro sul personaggio? È uno dei tranelli più difficili del mestiere…

Sai, ho studiato tantissimo Donatella, i video in cui parlava, la sua postura, la gestualità. Sul set avevo sempre nelle cuffie la sua voce. E mi è piaciuto osservarla, farla mia, cercando sempre di non esagerare. Non ho un metodo, magari ce l’avrò in futuro. Oggi non so spiegarti come faccio, ma so che una volta dato lo stop torno a casa e sono io. Non continuo a essere il personaggio, anche perché cinque mesi sempre nei panni di Donatella sarebbero stati devastanti. Io la vedo così: è comunque un lavoro, e a un certo punto della giornata devi uscirne.

A questo punto non giriamoci intorno: nel film di Leo che ruolo avrai?
È una storia psicologicamente violenta, dominata dalla gelosia. Ho il ruolo di una ragazza che si sposa molto presto per poi subire delle violenze dal suo compagno.

Lo chiedo a tutte le cover: se in questo momento guardi il nuovo cinema italiano, cosa vedi all’orizzonte?

Vedo tante facce nuove, finalmente. Ci sono attori che non vengono notati ma che sono bravissimi. In Circeo c’erano colleghi giovanissimi, anche con ruoli minori, che però tenevano la scena con grande potenza. Allora mi auguro che non vengano scelte sempre le stesse persone. E che venga premiata la bravura, non solo la bellezza. Soprattutto quando si parla di attrici spesso si guarda all’immagine e non all’interpretazione. Va bene l’estetica, ma l’anima?

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Fotografa Roberta Krasnig, Assistenti Sonia Pagavino, Gina Lisa Paccagnella

Stylist Stefania Sciortino, Assistente Giulia Laface

Capelli Adriano Cocciarelli@Harumi

Make-up Ilaria Di Lauro@idlmakeup Assistente utopia.sfx@idlmakeup

Prodotti per capelli Body e Sun Schwarzkopf Professional

Abiti Patrizia Pepe, Philipp Plein

LOCATION: Borgo Ripa/Roma

L’età dell’innocenza: il giudice, mia madre

28 maggio 1974, Brescia. Una bomba nascosta in un portarifiuti esplode ferendo 102 persone e uccidendone altre 8, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Una delle piazze più famose del bresciano diventa all’improvviso un sostantivo macabro del vocabolario italiano, come succede solo alle località colpite dalla cronaca nera: La strage di Piazza della Loggia. 43 anni dopo il giudice Anna Conforti pronuncia l’ultima sentenza del processo e della sua carriera: «È stato il momento in cui ho deciso di fare questo film, L’età dell’innocenza. Mi sembrava che stessimo vivendo tutti e due, in contemporanea, un momento di passaggio importante. Io me n’ero andato di casa da poco, mia madre stava per chiudere la sua vita lavorativa con una sentenza storica».

A parlare è Enrico Maisto, autore del docufilm L’età dell’innocenza, prodotto da Start e Rai Cinema e premiato al 62º Festival dei Popoli come Miglior documentario italiano. Attraverso lo spirito young-adult, e senza voler più trovare risposte né emettere “sentenze”, Maisto racconta la storia vera del distacco tra lui e sua madre, filmandola nel suo ultimo giorno di lavoro alla Corte d’Assise di Milano. «Pensa che all’inizio immaginavo un film molto più cupo, con un sentimento di lutto rispetto a un’epoca che finisce. Poi la commedia della vita è entrata a gamba tesa».

Dopo l’ultima sentenza la telecamera spia la coppia di genitori in cucina, dove regna un silenzio quasi mistico. Senza mai romperlo, il marito dà alla moglie una pacca leggera sulla spalla e poi un bacio, sempre piccolo e sempre sullo stesso punto. La delicatezza è quella dell’Amour di Haneke, ma senza messa in scena. «Due ergastoli. Chiudere una carriera con due ergastoli è pesantissimo, ti sconvolge anche se sei convinto che sia la scelta giusta. Tornati a casa dopo la sentenza, nell’aria c’era il senso della fine e anche il rendersi conto che tutti i telegiornali già ne stavano parlando. Mia madre, ovunque fosse in quel momento, era irraggiungibile. Solo lei può sapere cosa stava provando, noi le giravamo intorno senza capire come accarezzarla. Mio padre era l’emblema di questa tensione, e alla fine è venuto fuori un gesto molto semplice, che dice tutto di quel momento e di loro due».

Enrico Maisto è nato alla fine degli anni Ottanta, figlio di magistrati in un’epoca in cui esserlo conferiva un’aura di timore e insieme di ammirazione. «In quegli anni sono successe due cose fondamentali rispetto alla magistratura: le stragi, che hanno trasformato i giudici in martiri, e poi Tangentopoli, che prima li ha visti come degli eroi e poi, con l’arrivo di Berlusconi, ha rovesciato totalmente la loro immagine. Ma il periodo in cui erano sia martiri che eroi ha coinciso con il momento in cui io ero più piccolo, e questo ha lasciato un segno profondo. C’era anche la paura di perderli, che li ammazzassero. Arrivavano echi dagli anni di piombo, i delitti di mafia, quelli legati al terrorismo politico. L’aspetto di morte, lugubre e tetro, ancora risuonava. Così da piccolino mi è venuto da fare questo paragone tra la toga di mia madre e il mantello di Batman. Nel ’92 avevo quattro anni ed erano appena usciti i primi film di Tim Burton, che mi hanno investito in pieno. Non è un caso che il mio eroe preferito sia un orfano».

L'età dell'innocenzaImpenetrabile, ironica, mordace. Anna Conforti è un magistrato rigido e perso nei silenzi del film, che poi d’improvviso si fa carico di tutta una comicità materna dal retrogusto alla Zerocalcare (è uno spasso vederla uscire fuori dalla TV, mentre al telegiornale scorrono le immagini della sentenza, e andare a parlare col figlio assumendo quasi le sembianze di Lady-Cocca). «Mi sono reso conto che mia madre era un personaggio bellissimo, da film. Non ho fatto nient’altro che provocarla perché si potesse rivelare. Lei ha questi lampi, queste frasi che hanno un carattere quasi lapidario. A volte sono molto divertenti, altre molto incisive».

Tra le frasi più forti (rispetto a ciò che ci aspetta che una donna pensi e dica, ancora oggi) Anna confessa: «Non voglio giudicare più, e soprattutto non voglio più essere giudicata. Perché chi giudica alla fine viene giudicato sempre». Maisto commenta: «Vai a costruire le tue piccole trappole per provocare i bersagli del film ma poi succede qualcosa che ti spiazza. Quel momento rappresenta il logoramento che quel ruolo ha prodotto in mia madre in quarant’anni di professione. La fatica, il convivere con la paura del dubbio e dell’errore, il desiderio di liberarsi di questa toga. Non è un caso che quando lei dice di non voler più giudicare inizi anche un dialogo nuovo tra di noi».

«Mi sono innamorata di te e della maternità poco per volta… Che poi, quando c’ero riuscita, tu te ne sei andato. Che sfiga, eh?». L’altra frase è fulminante, eppure Enrico-figlio non solo la accoglie, ma da regista sceglie anche di inserirla nel film. «È una frase che ti rovescia addosso un bel senso di colpa. Esprime tutto il suo desiderio di volersi riappropriare di quello che ha perduto a causa del lavoro, di tutti i momenti della vita in un colpo solo». E di far pace con il periodo storico in cui Anna ha iniziato ad essere madre e giudice insieme, che ha più a che fare con le aspettative sociali mancate che con le mancanze di un genitore.

Divertito all’idea che il suo terzo film sia uscito in sala insieme a Top Gun: Maverick – «Ovviamente lo so solo io, Tom Cruise non ne ha idea» – Maisto nota che mentre Cruise è arrivato a pilotare aerei per far coincidere la sua persona con il personaggio (sul mito di quel cinema partito negli anni Ottanta che sognava da bambino), lui stia invece portando avanti una narrazione che «fa i conti con un uomo fragile e vulnerabile, diverso da quei modelli maschili introiettati in passato». Enrico incarna una dimensione generazionale, il conflitto di quelli nati sotto il segno dell’adolescenza perpetua e che non smettono mai d’essere figli. Il confronto con sua madre è spietato: uno va via di casa a trent’anni, l’altra chiude il capitolo di una strage italiana. Si scrutano e quasi non si conoscono: l’età dell’innocenza del figlio si conclude quando inizia quella della madre.

Questa è un’anticipazione dell’articolo che sarà pubblicato per intero sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma, disponibile solo per gli abbonati: per abbonarti vai sulla pagina Fabrique du Cinéma/Abbonamenti

(Im)perfetti criminali, dedicato “a tutti quelli che perdono da una vita”

Quattro guardie giurate (un po’ imbranate ma di cuore, come ci piace a Roma) si improvvisano criminali per salvare il posto di lavoro a uno di loro. È il movente romantico che scatena l’incontro tra commedia e “colpo grosso” in (Im)perfetti criminali (su Sky e NOW): non per soldi, dunque, né per senso di riscatto, ma solo per amicizia.

Curiosamente impegnato a combattere alcuni luoghi comuni su tematiche d’attualità e sulla filiera cinematografica in sé, (Im)perfetti criminali è un film dedicato «a tutti quelli che perdono da una vita» (che omaggio irresistibile). Non è un caso che Alessio Maria Federici non sia uno innamorato dei vincenti, ma al contrario sia in prima linea accanto a quelli che devono lavorare il doppio per provare a farcela. Lo si nota in primis dalla scelta del cast (coraggiosa quanto azzeccata),  poi dalla ricerca di una regia volta a raccontare la frustrazione e il fallimento dei personaggi.

Mentre Vita di Shirley Bassey esplode imponente sui titoli di coda del suo film, Federici porta i suoi studenti all’incontro con la stampa dove anche noi lo intervistiamo. Tra una pausa e l’altra si confronta con il gruppo di allievi sul compito che gli ha assegnato in classe (e noi drizziamo le antenne mentre gli raccomanda: «Non dovete mollare al primo ostacolo, perché questo è un settore di egocentrici»).

A noi invece racconta senza mezzi termini: «Io non sono un artista, sono uno shooter: vivo di questo mestiere. Vuoi sapere se sono soddisfatto del risultato? Mai. Sono un nerd e quindi un frustrato. Però a 46 anni sono anche fortunato, perché cerco sempre di spostare l’obiettivo un po’ più avanti. E che tu oggi l’abbia notato è la vittoria della mia giornata. Amando il mezzo in quanto mezzo, mi emoziona l’idea di poterlo declinare nelle sue molteplici sfaccettature. Per me il rumore del camion macchina da presa la mattina è il massimo».

Con una scelta di casting che ignora le regole di mercato anziché assecondarle, Federici mette al timone del film un trittico inatteso: Filippo Scicchitano, Guglielmo Poggi e Fabio Balsamo: «L’atto di coraggio è di chi ci mette i soldi, quindi bisogna ringraziare Olivia Musini di Cinemaundici, Sky e Vision. Mi hanno lasciato libero di scegliere quello che secondo me era giusto per la storia e per le umanità dei personaggi, e poi di raccontarlo nel modo che ritenevo giusto». Poggi (che nel film interpreta Massimo) fortunatamente coglie l’esca e fa una riflessione che andrebbe incorniciata: «Visto che abbiamo sdoganato questa polemica: io penso sia difficile fare un film di perdenti con tre facce vincenti che il pubblico è abituato a vedere ovunque. Perché in qualche modo già quel fattore rischia di raccontarli come dei vincenti. Grazie a Dio noi lavoriamo tutti, ma con tre facce più note credo che questo film avrebbe avuto un altro sapore. C’è tanto delle nostre sconfitte personali, delle umiliazioni che siamo abituati a vivere perché non apparteniamo al Gotha di quelli che non devono nemmeno andare a fare un provino».

«Nel nostro mestiere è inutile fare tanti giri di parole» interviene Anna Ferzetti (nel film Francesca), che di Federici apprezza proprio la capacità di andare dritto al punto, anche e soprattutto nel dirigere gli attori. «Con lui l’obiettivo è sempre chiaro: cosa vuole da quella scena e da quel personaggio. Ti ci sa portare, anche creando un clima da gita. Ma da gita bella, eh». Il personaggio di Anna in questo film possiede un gran bel pregio: porta la bandiera di due tematiche delicate (il precariato in conflitto con il desiderio di maternità cercata faticosamente) ma senza prendersi sul serio, con una autoironia persino cinica: «È stato bellissimo perché lo faccio anche nella realtà. Se hai la fortuna di interpretare la vita degli altri, è fondamentale raccontare anche la leggerezza di fronte alle difficoltà».

Imperfetti criminali
Anna Ferzetti in “(Im)perfetti criminali”.

La confezione da film scanzonato e disimpegnato svela in realtà un contenuto pronto a schierare una serie di battute spregiudicate e per certi versi scomode. «Il politicamente corretto serve semplicemente a nascondere decenni di insulti» risponde Federici, predisposto alla chiacchiera senza filtri anche durante il junket (per nostra gioia). «Non è che scegliendo il pronome giusto rispetti qualcuno a cui hai tirato i sassi per trent’anni». Grazie a certe scelte di scrittura calibrate e mai villane (la sceneggiatura è di Luca Federico, Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano) la provocazione sulla «questione minoranze» è lasciata a briglie sciolte, e proprio per questo diventa spunto di riflessione, come solo la buona commedia può e dovrebbe fare. «La sceneggiatura era validissima dal principio – parola di Scicchitano, che nel film interpreta Riccardo – e questo ci ha dato la spinta per creare un’atmosfera giusta. Alessio ha messo in scena qualcosa a cui abbiamo creduto subito». Dall’orientamento sessuale dei personaggi alla dimensione sociale dell’immigrato medio, qui tutti gli stereotipi finiscono col ribaltare lo stereotipo in sé: «Confesso che quella di svecchiare il cliché dell’orientale immigrato è anche la mia battaglia personale all’interno del cinema italiano» racconta Babak Karimi parlando del suo personaggio. «Feci la stessa cosa anche per La linea verticale con Mattia Torre, ho sempre cercato di uscire dal’immaginario del disgraziato ed emarginato. In questo film, già nel modo di parlare e gesticolare, si capisce che Amir non è solo un estraneo che parla declinando i verbi all’infinito, “io andare, io mangiare”».

Ultimo ma non per importanza: il ruolo inedito di Fabio Balsamo, qui concentrato sugli aspetti più intimi di un personaggio che emerge per romanticismo più che per comicità. Il suo Pietro ha una vivacità ‘alla Balsamo’ e una sessualità fluida: «Al di là delle capacità tecniche, Alessio ha ricercato degli attori con una sensibilità precisa. Per quanto riguarda me, eravamo sul set di Generazione 56k. Durante un piano d’ascolto in cui dovevo semplicemente osservare, lui mi ha chiesto di piangere a dirotto per tre ore senza che fosse previsto in sceneggiatura. Mi sono affidato completamente, e in seguito mi ha detto che quella richiesta era stata il mio provino per (Im)perfetti criminali».

Veniamo agli aspetti nerd, quelli che piacciono a noi e anche a Federici, qui alla prova con una regia che utilizza quasi sempre ottiche grandangolari su una macchina in costante movimento: «Io vengo preso in giro da mia moglie e i bambini perché l’ultima cosa che leggo la sera sono i manuali dell’Arri Cam sulle macchine da presa. Quello di cui parli è un tentativo ricercato: volevo stare vicino agli attori quando raccontavo il dramma, e cercare di imparare da chi è molto più bravo di me nel raccontare l’azione, cioè allontanandomi o meno in base a quello che succedeva in scena». Per le riprese è stato utilizzato il nuovo Arri Trinity, «con grande sofferenza – ironizza lui – perché è un mezzo nuovo e in più nel mondo italiano, piccolo e provincialotto, non è facile farlo accettare. Adesso gli operatori di macchina pensano che gli rubi il lavoro con la steadycam, che però è uno strumento che esiste dagli anni Settanta. Ho cercato di non tirare le ottiche oltre il 75mm, perché altrimenti avrei rischiato di creare una distonia con i fondi che non avrebbe aiutato l’emozione di cui avevo bisogno. Quando Anna si lamentava della vita di merda che faceva, dovevo vedere anche la casa di merda dove abitava» conclude Federici.

A conti fatti e nell’ottica di un nuovo cinema italiano, (Im)perfetti criminali compie diverse scelte per provare a scuotere dinamiche di settore e di etichetta: piccoli tentativi di rottura infilati tra le maglie della commedia e dell’heist movie. Un film tutto da ridere, sì, ma anche da osservare con attenzione.

Rocco Fasano: sento la rivoluzione sulla pelle

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Strano a dirsi, ma chi esordisce oggi ha almeno tre vantaggi: ruoli, piattaforme e social. Uno chiama l’altro, e sono tutti figli della stessa epoca: quella in cui può finalmente esistere un personaggio teen omosessuale e bipolare come Niccolò Fares (Skam Italia). Se quel ruolo e quell’interpretazione, poi, fanno anche innamorare il pubblico, e se hai davvero talento, allora la cassa di risonanza è enorme: in un attimo hai oltre 200mila followers che si aspettano qualcosa da te, come artista e come essere umano. Rocco Fasano, 29 anni, è il frutto di quest’epoca. Esponente di una mascolinità onesta e di una generazione che affida al cinema e alla serialità il potere del futuro: è a lui che Fabrique du Cinéma dedica la copertina del nuovo numero.

«Sappi che sono davvero emozionato, perché Fabrique lo conosco da almeno sette anni, ai tempi in cui iniziavo a muovermi in questo lavoro. Molti amici mi hanno introdotto a questa rivista e sono cresciuto avendola sempre presente, come riferimento di un magazine con una forte spinta indipendente e con lo sguardo rivolto alle novità di questo Paese. Quindi ora mi state dicendo che mi annoverate tra i nuovi volti dello spettacolo italiano?».

Ebbene sì, e a me sembra quasi ovvia la tua presenza qui. Secondo te quand’è che si crea un nuovo volto nell’immaginario collettivo, e cosa ti ha portato ad esserlo?

Me lo sono chiesto, e molto è da attribuire a Skam Italia. È stato uno spartiacque e non solo per me. Siamo riusciti a fare una serie nuova con un linguaggio nuovo, che affrontasse tematiche attuali parlando onestamente ai giovani e dei giovani. Skam Italia è nato come un esperimento sociale, fortemente e orgogliosamente europeo, inizialmente fondato solo sul passaparola.

Basta guardare le ultime edizioni di Sanremo per capire che un nuovo volto si posiziona laddove al pubblico manca un elemento di identificazione e c’è un vuoto da riempire. Rocco-persona e Niccolò-personaggio che vuoti hanno colmato?

Mi azzardo a fare un’ipotesi: forse le mie performance rientrano in un filone di scelte che appartengono un po’ allo stesso mondo. Nel caso di Niccolò è stata una delle prime rappresentazioni a rifiutare la mascolinità tossica. Ma parliamo sempre di personaggi maschili pronti a non insabbiare, nascondere e demonizzare la propria vulnerabilità. Quelli sono fardelli culturali che ci portiamo dietro dal secolo scorso. Ecco, un personaggio come Niccolò riconosce la propria fragilità, la studia e ne trae forza. E io, da performer, ho fatto lo stesso processo su di me. Ci credi che è stata una gioia?

Ci credo sì. Non a caso i giovani si identificano molto in te: merito del tuo attivismo, dell’aspetto un po’ androgino, dei ruoli?
Non ne ho una percezione chiara, ma so che vorrei essere una figura propositiva che non ha paura di esprimersi né a livello artistico né come essere umano. Per me questo mestiere è una fede da prendere di pancia. Questa è la generazione del turning point, parliamo di realtà che loro vivono tutti i giorni. Penso subito a Euphoria, che per me è l’esempio di serie tv perfetta. Si rivolge ai giovani in maniera accattivante e brillante, con proprietà di linguaggio e cognizione di causa. Ma nel nostro paese mancava qualcosa del genere.

Borderline e omosessuale in Skam, in Non mi uccidere (su Netflix) porti in scena una metafora “supernatural” della manipolazione maschile e dell’annichilimento giovanile. E sei un attivista antifascista in Hotel Portofino su Sky, in mezzo a un cast internazionale. La senti giusto un po’ di responsabilità?

Eh… [ride]. È vero quello che dici su Non mi uccidere, lì incarno un esempio negativo: è una favola nera che si concentra sull’affrancamento della figura femminile da una serie di figure nocive. Per molti versi il film mostra la liberazione di donne che non accettano di farsi sottomettere. Gli uomini che orbitano attorno sono presenze-zavorre che provano a manipolarle. In qualche modo le tematiche sono sempre quelle, no?

Siete stati la prima generazione di attori a doversi confrontare anche con i social. Senti la responsabilità di sfruttarli per il bene del progetto?
Bella domanda, anche perché oggi non c’è un libro delle regole. Credo sia imprescindibile, da lì passa la promozione del progetto ma anche un approccio culturale. Il paradigma sociale è cambiato: come lo ignori un fatto del genere? Se diventi un personaggio devi per forza barcamenarti. Non mi dispiace avere un dialogo con chi mi segue, lasciare una traccia virtuale del mio percorso. Rimango prudente, però: mi spaventa l’idea che si finisca ad aver paura di rivolgere la parola a un ragazzo o a una ragazza.

Siete tanti, siete amici tra voi, uniti ma in rappresentanza di identità diverse. Stai attraversando una piccola rivoluzione?

Io devo dire, senza esagerare, che sulla pelle un po’ la sento questa rivoluzione. Sono anni turbolenti, ma possiamo fare la differenza. Con i media e come singoli. Se ci esprimiamo davvero e se facciamo tutto quello che vogliamo fare, senza paura, noi possiamo realizzare un cambiamento anche con l’intrattenimento.

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Fotografa Roberta Krasnig, Assistenti Sonia Pagavino, Elisa Mallamaci; Stylist Stefania Sciortino, Assistente Giulia Laface; Capelli Adriano Cocciarelli@Harumi; Makeup Ilaria Di Lauro; Abiti: Diesel, Gucci; Prodotti per capelli: Body e Sun Schwarzkopf Professional; Location: Studio 21 – Roma