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Chiara Del Zanno

Francesco Russo: “L’ironia mi appartiene come chi ha gli occhi azzurri”

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Noi siamo la sua prima cover, ma anche lui è una nostra prima volta. Con Francesco Russo inauguriamo la cover solo digitale di Fabrique du Cinéma, senza rinunciare al cartaceo ma abbracciando nuovi formati.

Ad aprire le danze un attore che confonde i puristi del physique du rôle e svela ogni volta potenzialità diverse, cambiando metodo e approccio in base al personaggio. Ha iniziato a teatro quand’era appena un bambino, innamorandosi di Rossella Falk, Tino Buazzelli e Totò. Nel cinema e nella serialità sta schivando la trappola dei generi muovendosi tra commedia, thriller, horror e costume. Prima stagista martellante in Call my agent e poi il mostro dietro al mostro in M – Il figlio del secolo, dove emerge in maniera sorprendente accanto al gigante di Luca Marinelli, nel ruolo di Cesare Rossi grazie a una delle scommesse di casting più felici del progetto.

Parliamo di tutto, ma a colpirmi di più sono due cose. Il motivo per cui ha iniziato a fare l’attore: «Perché mi dicevano che ero bravo. Ma col tempo capisci che una persona non verrà mai a dirti che fai cagare, e se lo avessi saputo prima adesso farei il geologo». E poi i dubbi, lo studio e la ricerca sul concetto di recitazione: «Mi domando spesso cosa significa recitare bene. Il naturalismo cos’è? Come si dicono le battute? Con lo sguardo languido a filo macchina? Nella vita vedo degli atteggiamenti di persone reali che, se venissero replicati da un attore, all’orecchio del pubblico potrebbero stonare. Magari direbbero che quell’attore sta recitando male. Forse nella vita si recita male?».

Con Cesare Rossi hai fatto un lavoro completamente diverso dai precedenti. Sei emerso da una macchina enorme, con un cast corale e proprio accanto a Luca Marinelli, con cui dividi alcuni dei momenti più inediti e umani della storia.

Sicuramente c’era la volontà di far emergere il personaggio di Cesarino Rossi, di raccontare un rapporto umano che andasse anche al di là del racconto storico. Come si emerge? Non lo so. Ho cercato di non lasciare nulla al caso, di lavorare in stretta relazione con il Benito Mussolini di Luca Marinelli, di seguire le richieste molto tecniche ed emotive del regista. Il mio modo di lavorare è creativo, non sono un attore che riesce a fare tutto quello che gli viene chiesto ma invento degli atteggiamenti, dei comportamenti da mettere sulle scene e sulle battute.

Un esempio pratico?

Ritenevo il mio fisico “troppo 2025”, così ho pensato fosse giusto fare un lavoro sulle pose. Ho studiato foto di uomini dell’epoca, figli della leva obbligatoria con grandi fisicità e mascolinità, con dei colli importanti e un atteggiamento diverso della testa. Spesso facevo le scene partendo proprio dalla postura. Ho cercato poi lo sguardo ironico che Cesare Rossi aveva sulle cose, e che avevo intuito attraverso i suoi libri. Infine ho provato a creare una lingua che non fosse coerente filologicamente, ma che rispondesse alle domande che mi ero posto. Rossi nasce a Pescia in provincia di Pistoia, ma a dieci anni va da uno zio abruzzese e poi a Roma a lavorare. Io penso che non esista il dialetto corretto, ognuno è imbastardito dai luoghi che ha conosciuto, quindi mi sembrava giusto dare a Cesarino delle “sporcature di pronuncia”, imbastardire quel suo toscano del Novecento con una musicalità abbruzzese.

C’è molto studio dietro.

Il lavoro di ricerca prima di arrivare sul set mi tiene in vita e mi diverte, almeno faccio pure finta di lavorare!

E ci sono anche tantissimi registri, per una parabola che include: sudditanza, ingegno, comicità, funambolismo per essere uno dei pochi a comprendere e tenere a bada “il mostro”, fino a quella meravigliosa presa di posizione finale. Il più interessante?

La questione funambolica è stata molto interessante, perché non potevo prevederla. Dovevo tenere a bada il mostro, certo, e quindi senza mostro che cazzo potevo preparare? Mi ha aiutato notare che Luca aveva un’importanza fisica e vocale molto forte sul set, metteva tutta quell’energia e quell’intenzione che io provavo a schivare. Mi appoggiavo a lui, ed è quella che io chiamo “la recitazione da parassita”. Aggrapparsi a quello che viene è molto utile, se hai uno bravo in scena. Poi Joe Wright ci aveva chiesto di lavorare su un’amicizia tossica tra due maschi tossici, quindi era divertente anche provare a fare la gara a chi ce l’ha più duro. Un gioco da bambini tra due persone che hanno in mano le scelte politiche di un Paese.

La vostra coppia è uno degli aspetti più forti della serie. Quali erano i punti di forza reciproci?
Io e Luca ci siamo molto confrontati sulle nostre idee di recitazione, e abbiamo scoperto di avere due modi molto diversi di stare sul set. Se leggi un mio copione è parecchio scritto, lui invece si appoggia più all’istinto. Luca riesce a trovare dei momenti di vita lavorando in questo modo, mentre io questa animalità in scena non ce l’ho, e se non trovo subito quell’istinto allora scrivo. Da Luca ho imparato anche il coraggio di fare una scelta, prendere una direzione. Ho visto come regge i primi piani: è molto vivo con gli occhi, mentre molti di noi fissano lo sguardo per essere più intensi e così perdono energie. Invece a lui ha colpito il mio sguardo ironico, lo trovava provocatorio, e infatti come Mussolini portava in scena quell’incazzatura.

C’è una grande differenza tra il tuo personaggio in M e quello in Call My Agent: cosa hai dovuto costruire e decostruire in entrambi i casi?

In Call My Agent ho cercato di togliere tanti ragionamenti sovrastrutturali e di imparare le battute così bene da poterle dire velocemente. Come avrai notato, nella vita tendo a essere un po’ pedante, ma prima di iniziare la serie sono stato qualche settimana nella mia agenzia e ho visto un ritmo molto serrato, quasi su un unico beat – mail telefono, telefono mail. Per questo avevo bisogno di una memoria veloce. Invece su Cesare Rossi ho messo più di quel che ho tolto. C’è una base personale, ho fatto quella che banalmente si chiama “sostituzione”.

E con cosa hai sostituito, per trovare quel fanatismo?
Con una rabbia molto infantile: quella di pensare che esista un sistema nel mondo del lavoro. Così come Cesare Rossi si sentiva escluso da un certo mondo di intellettuali.

A 5 anni eri già sul palco con il ruolo di Peppeniello in Miseria e nobiltà. Eri davvero un bambino megalomane e un po’ antipatico come dici?

Pensa che a 12 anni un giornale locale scrisse che io avevo rovinato lo spettacolo che era venuto a recensire. Come vedi pure il rapporto con la critica è qualcosa che ho superato presto…

Quindi perché a 5 anni si decide di voler fare l’attore?

Mio padre è geologo, mia madre lavorava all’ASL e non mi hanno mai ostacolato. Ho sempre voluto venire a Roma per fare l’Accademia Silvio D’Amico, a 12 anni scrivevo su Facebook a chi ci studiava. Era un’ossessione, una cosa malata, guardavo gli sceneggiati degli anni Cinquanta della Rai, Rossella Falk e Tino Buazzelli per me sono stati i più grandi. Non ho mai pensato al cinema, perché escluso Totò il cinema l’ho scoperto a vent’anni.

Qual è stata la folgorazione?

Secondo me è molto banale, ed è il motivo per cui tanti hanno il desiderio di fare gli artisti. Sentivo che mi dicevano che ero bravo.

Ed è bello sentirselo dire?
È una rovina. Perché col tempo capisci che una persona non verrà mai a dirti che fai cagare. Tu hai mai detto a un attore “bel film di merda”? Ecco. Se lo avessi saputo prima, forse adesso farei il geologo.

Ti credevi drammatico e ti hanno ridisegnato comico. Come è andata?

Poi ho scoperto che la comicità era una cosa molto seria, e io più serio ero e più facevo ridere. Infatti quando l’obiettivo non è la risata, devo stare molto attento a non essere troppo serio, perché sennò faccio ridere.

Però stai toccando qualsiasi genere. Penso anche al ruolo in A Classic Horror Story.

Secondo me è dipeso dal fatto che ho iniziato facendo tantissime cose comiche, che in Italia sono spesso piccole e a basso budget. Forse questo mi ha fatto conquistare una una certa versatilità sul set. Io cerco di cambiare metodo ad ogni provino: su Call My Agent ho preparato solo le battute per trovare il ritmo, su L’amica geniale ho studiato i libri e le didascalie di Elena Ferrante, erano il mio monologo interiore secondo il metodo Chubbuck. Non cerco un risultato, mi diverte cambiare approccio e ascoltare il regista. Dell’horror non sapevo niente, ma Strippoli e De Feo sono due esperti e ho lasciato che mi dirigessero loro. De Feo mi ha detto «cammina così», e io non sapevo perché dovessi farlo né mi sono posto il problema. Ho camminato così.

Cambiando sempre metodo, la tua bussola qual è?

Non avendo mai studiato recitazione cinematografica ma solo teatrale, mi sono sempre appoggiato al pubblico. Ascolto quello che c’è intorno, cerco di non controllare tutto, spesso è il respiro del pubblico a decidere.

Sul set come fai?
Anche il set ha il suo pubblico. Mi è capitato di lavorare con la troupe come spettatrice. Il respiro degli elettricisti e dei fonici lo senti. Questo non è talento, significa essere una bandiera al vento e dire: io sono questo.

Sorrentino è stato tra le guest di Call My Agent, ti ha incontrato sul set e poi ti ha chiamato per un piccolo ruolo in Parthenope. La storia vera?

Io non recitavo quel giorno. Mi ha detto: Io te chiammo, eh. E io: «Grazie». E lui: Oh, meno cuntent, eh?. Poi effettivamente mi ha chiamato a fare un provino, io ero pelato come in M e quindi sono andato con un cappello. Lui mi ha fatto: Levate ’stu cappiell, e subito dopo: «No no, rimettitelo. È un ruolo piccolo, va bene lo stesso? ». «Certo».

Arriviamo a questo famoso physique du rôle: esiste, non esiste? Ce l’hai, non ce l’hai? Ti penalizza, ti avvantaggia?

Io non credo di avere gli strumenti per analizzarlo. L’unica cosa che noto è che in fase di casting si cerca di fare un doppione, cioè quello che è stato scritto deve corrispondere fisicamente, quando invece la vita è fatta di testi e sottotesti. Ciò che diciamo non è quello che pensiamo, ciò che siamo non è quello che mostriamo, perciò questo atteggiamento rende tutto molto uguale. Il personaggio di Cesare Rossi in M era una scommessa incredibile, perché è storicamente diversissimo da me, così come Luca da Mussolini. Poi ci sono anche attori amici miei bravissimi che lavorano meno, e magari loro dicono: «Mortacci tua che sei nato così». Quando io parlo di physique du rôle non parlo solo di fisico ma anche di voce, e la mia è molto caratterizzata.

Infatti credo che il tuo più grande fattore di rischio non sia la fisicità, ma l’ironia.

Vero. E quell’ironia io non credo di poterla eliminare sempre. Mi appartiene come chi ha gli occhi azzurri, posso abbassarla ma devo lavorarci per forza.

Io e te condividiamo la stessa missione su fronti diversi: colonizzare il discorso d’autore attraverso il pop.

Certo, e se ci pensi anche M è un progetto pop d’autore. Chi differenzia le due cose ha uno sguardo molto puerile, è una persona che non ha pubblico.

Qual è la cosa più pop che faresti se avessi carta bianca?

Una storia d’amore a teatro.

Invece nel futuro prossimo che succederà, ora che hai alzato l’asticella con M?

Uscirà Dedalus di Gianluca Manzetti, un thriller in cui faccio un influencer mezzo drogato e grottesco. Poi una commedia sul Fantacalcio per la regia di Alessio Maria Federici, in cui interpreto un giovane padre di famiglia completamente preso da questo gioco, e sono in un cast bellissimo con Silvia D’Amico, Giacomo Ferrara, Enrico Borrello e Antonio Bannò. Infine un piccolo ruolo nella nuova serie di Bellocchio e ovviamente nel 2025 uscirà Call My Agent 3.

Fotografa @robertakrasnig
Stylist @flavialiberatori_
Hair: @adriare_hairdesigner
Makeup @idlmakeup
Location: @thecineclubroma
Prodotti: @davinesitalia

Stiamo arrivando: Gugliemo Poggi fascistoide NPC a teatro

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L’eroe fascistoide di Guglielmo Poggi prende a calci la quarta parete del teatro Belli di Trastevere con la stessa violenza di chi, fomentato da Donald Trump, il 6 gennaio 2021 ha preso d’assalto Capitol Hill. Un punto di non ritorno della storia recente nonché il primo, indisturbato scacco matto ai nuovi equilibri delle democrazie occidentali. Pronto ad andare in guerra con anfibi e divisa mimetica, tronfio di protesi, mitra e muscoli posticci, il fascistoide sul palco non fa altro che sparare. Guarda il pubblico: mira, pausa, fuoco. In meno di un’ora fa secchi tutti, anche Lilli Gruber, Macron e Fedez. E senza omettere le sue valide argomentazioni. Parla moltissimo, infatti, quasi senza respirare, in un delirio d’onnipotenza restituito da un inquietante esercizio di scrittura e memoria attoriale. Inquietante perché, in effetti, ogni tanto ci si dimentica d’essere a teatro e viene voglia di andarsene.

Il fascista ideato da Umberto Marino e interpretato da Guglielmo Poggi ci sfotte, ride, balla, uccide e poi esulta, s’accascia e poi torna in vita, fa discorsi da spogliatoio in uno spogliatoio vuoto. Il suo è un cameratismo che non ha più bisogno di interlocutori, perché l’ascolto non è un’opzione. “Stiamo arrivando”, preannuncia il titolo dello spettacolo, ma il personaggio si prende gioco del suo stesso autore e gli ricorda a scena aperta che, in realtà, loro sono già arrivati. «Noi il pianeta ce lo mangiamo, ce lo fumiamo, ce lo scopiamo. E se a chi viene dopo non gli rimane niente, chi se ne frega. Ha fatto male ad arrivare dopo», questo è lo slogan urlato dal fascistoide, mentre penetra l’aria a colpi di bacino. Poggi lo fa con un macigno di costume addosso (realizzato da Elena Giordani), tra machete, pistole, fucili, protesi, pettorine e braccialetti luminosi che lo stringono come un insaccato pronto ad esplodere. Impossibile staccargli gli occhi di dosso, perché è vero: i fascisti urlano meglio di chiunque altro. E naturalmente urlano contro di noi, le «zecche» in platea – così ci appella per un’ora – mentre in prima fila ci raggiungono gli sputi e gli schizzi del suo sudore (anche questo è teatro).

Stanno arrivandoIn scena vediamo il prototipo di un videogioco che cita l’estetica da combattimento del deathmatch, in cui l’ultimo a rimanere in piedi è l’unico a sopravvivere. Stiamo arrivando omaggia gli iconici immaginari di Fortnite, Tekken o Mortal Kombat, mentre con una sinergia a tratti inspiegabile tra la performance, la giostra di luci ideata da Stefano Rampa e i comandi della regia, Francesco Andolfi pilota Guglielmo Poggi attraverso le tipiche voice over dei cosiddetti “pre-battle announcement”. Get ready for the next battle, countdown, fight. Ma soprattutto, senza sosta e per quasi un’ora, Poggi fluttua. Si muove come un avatar, molleggia in costante equilibrio sulle gambe e agisce secondo la fisica dell’idle animation, in una sorta di marcia sul posto che dilata la tensione nel presagio della prossima azione. Siamo in un videogioco che rievoca gli avatar degli anni Novanta e insieme la rappresentazione sanguigna delle frange sociali più violente della nostra epoca. È un personaggio fastidiosamente rozzo, macchiettistico, invadente, ingombrante, mentre a raffica parla di armi, sinistra europea, diritti civili, giornalismo, conflitto in Medio-Oriente, cultura, conquista dello spazio, immigrazione (e se è vero che tra le fila della commedia italiana e dell’Orchestraccia ha trovato la sua cifra, nei ruoli da psycho come questo o come quello di Angelo Izzo nella serie Circeo, Poggi riesce a trasformarsi e dare il meglio di sé).

Lo conosciamo bene, il protagonista di questo spettacolo, e lo detestiamo. È una figura incurante dello spazio altrui, che divora tutto ma resta pur sempre un NPC. Un non-playable character che porta avanti la storia, sì, ma senza alcun controllo su di essa. Un burattino che incarna l’obiettivo del gioco mentre possiede solo l’illusione di dettarne le regole. L’allegoria è perfetta e disturbante, perché finiamo per detestarci anche noi, quando ci strappa una risata con una battuta volgare, quando ci scopriamo a trovarlo attraente nelle sue pose plastiche, quando balla su Taylor Swift e inneggia al fascismo sulle note di Mad About You degli Hooverphonic, in un momento di squisitissimo pop. Non vogliamo dirlo, ma stiamo pensando che forse un po’ ha ragione. Che ci stiamo trastullando nel disprezzo dell’altro senza provare a cambiare le cose.

Marino e Poggi portano in scena un j’accuse al contrario, un manifesto del fascistoide in cui è il sinistroide a specchiarsi e fare harakiri. Il suo coprirsi di ridicolo è la parodia del nostro fallimento, del nostro compiaciuto dissenso di facciata, della nostra sterile opposizione. Non siamo altro che gli spettatori impotenti del suo show. L’emblema di tutti gli errori? Neanche a dirlo, il parquet (tra i passaggi più esilaranti della pièce). Perché certo che siamo ecologisti, e certo che manifestiamo per l’ambiente, ma come possiamo rinunciare al parquet, che tanto bene si sposa con le nostre librerie, con lo yoga fatto in casa, con il tofu, i calici di vino bio e lo status da intellettuali con cui salveremo il mondo a suon di talk? Non rinunceremo mai al parquet su cui spiccano i nostri, di manifesti. Quelli della rivoluzione minimalista in helvetica, brandizzata su borse di tela e quadretti da sfoggiare ovunque con la scritta: Sta rottura de cojoni dei fascisti. Be’, forse è troppo tardi. Game over.

In anteprima a Roma, in scena dal 14 al 16 marzo, da non perdere in vista di un prossimo tour.

 

Romana Maggiora Vergano, la bambina dei perché

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Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema. Anche e soprattutto quando il cinema ti travolge con il fenomeno Cortellesi, con la regia più intima di Francesca Comencini, con una serie internazionale targata Rodat-Emmerich e un camerino accanto a quello di Anthony Hopkins. Oggi Romana Maggiora Vergano è sul set della nuova serie di Bellocchio, dove torna a condividere la scena con Fabrizio Gifuni in un’evoluzione del rapporto padre-figlia dopo aver compiuto, insieme, un piccolo miracolo attoriale nella pelle dei Comencini. A 26 anni è già destinata a farsi ricordare come la Marcella di C’è ancora domani, in una storia universale che ha raggiunto il mondo, e come la giovane Francesca de Il tempo che ci vuole, in un testamento autobiografico che omaggia la storia del nostro cinema. Ha un nome antico, un volto senza tempo, e l’aria di chi è talmente forte da potersi rompere in mille pezzi. Vergano si appoggia alle spalle dei giganti senza farli annegare, anzi, rafforzandone le bracciate. E dentro due film spogli di grandi orpelli, tra quattro mura che sono state insieme gabbia e focolare, ha dimostrato di poter fare la differenza. Su di lei non c’è neanche gusto a scommettere.

Partiamo dalla storia di questo nome che sfugge al tempo.

Pensa che volevano farmelo cambiare, perché è troppo lungo e strano. Non mi sono mai fatta molte domande sulle mie origini, poi il film di Paola mi ha smosso qualcosa e ho scoperto che Maggiora e Vergano sono due piccole località del Piemonte. Non paghi del cognome, mi hanno dato anche un nome particolare…

Hai dovuto imparare a voler bene al tuo nome?

È una domanda interessante, perché io ho odiato il mio nome. Mi dicevano che era duro e vecchio. Ricordo bene il giorno in cui mi ci sono affezionata: è stato quando, per la prima volta, mi è capitato di presentarmi a un’altra persona che si chiamava Romana. E quindi la sensazione di condividere un peso.

Sei figlia di medici. Quando hai deciso di fare l’attrice?

È stata una scena da film. Sono sempre stata una secchiona, avevo preparato il test d’ingresso per Medicina ed ero convinta di entrare, perché me l’ero messo in testa. Poi arriva il 5 settembre, la mattina faccio colazione e quando è il momento di uscire di casa mi sento fisicamente bloccata. Il mio corpo non mi risponde più. Dico a mia madre: «Non è che non voglio, è che non posso andare». Il pomeriggio ho cercato su Internet dei corsi di recitazione.

Quindi recitare era già un’idea?

Ho sempre fatto teatro amatoriale e da poco avevo iniziato dei corsi serali di recitazione cinematografica. Vivevo a Ostia con mia madre, così la mattina andavo a scuola e poi prendevo la metro verso Roma, ma pensavo sarebbe rimasto un hobby. L’epifania è arrivata durante l’estate. Dopo la maturità ero stata presa per Immaturi – La serie. Un ruolo da figurazione speciale, tre battute ma tante giornate sul set. Mi sono innamorata perché avevo zero responsabilità e molto tempo per osservare tutte le discipline del cinema.

Nella giovinezza il cinema che ruolo ha avuto?

I miei facevano lunghi turni in ospedale, ho conosciuto il cinema come forma d’intrattenimento con le commedie, con il mondo dello spettacolo e le repliche di Techetè. Ricordo Brutti, sporchi e cattivi e la scena della pastarella in C’era una volta in America, poesia pura. Poi La ragazza con la pistola, di cui mia madre era grandissima fan, e ovviamente Il tempo delle mele. E poi ricordo Malèna, da bambina volevo essere lei.

Il tempo che ci vuole racconta che possiamo fallire anche se facciamo quello che amiamo. E che fa male il doppio. Durante gli studi c’è stata la paura di “non saperlo fare”?

Per me la paura del fallimento è stato un grande tema durante tutta l’adolescenza, e proprio entrando alla Volonté me ne sono liberata. Ero una iper perfezionista, sempre il massimo dei voti, sempre a fare la cosa giusta, sempre quello che ci si aspettava da me. Alla Volonté mi è stato detto per la prima volta: «Tu fai il compitino. Sei bravissima, ma smettila». Che vuol dire smettila? Se porto il risultato andiamo avanti, no? Invece mi hanno rotto in mille pezzi. Hanno cercato la sfumatura, l’errore, la disattenzione.

Oggi non lo si direbbe mai: la sporcatura è il quid di ogni tua interpretazione.

Mi rendi felice, perché ho avuto molta paura per Il tempo che ci vuole. Oltre a quella che potete immaginare tutti, cioè essere diretta dalla persona che stai interpretando, anche se Francesca mi ha spogliato immediatamente di questa responsabilità: prima di essere lei, ero una figlia e una ragazza degli anni Settanta. Ho cercato di non farmi più domande di quelle di cui realmente avevo bisogno, ed ho faticato, perché nella vita io sono la bambina dei perché. Ho bisogno che mi si diano delle risposte per sentirmi al sicuro.

La tua pelle nel film: primi piani che sanno di eroina su un volto come il tuo, che invece si tende a non abbrutire.

Non ho mai avuto problemi di acne nell’adolescenza, ma questo film è arrivato in un momento in cui la vita mi stava mettendo alla prova: avevo cambiato casa e chiuso una relazione, dormivo poco e mi erano usciti molti sfoghi. Insieme al supporto di un’incredibile squadra di truccatori, il mio corpo si era preparato da solo al film. La mia pelle era pronta.

Ti sei giudicata, riguardandoti?

È stata la prima volta in cui non mi sono mai giudicata fisicamente. È brutto ammetterlo, ma alle prime visioni tendo sempre a guardarmi esteticamente: il doppio mento, la gamba grossa, l’occhio storto. Stavolta mi sono vista diversa, col viso rovinato e confuso, e l’ho trovato affascinante.

C’è ancora domani: quando hai capito che eri all’interno di un fenomeno più grande di te?

Il giorno in cui abbiamo girato la scena finale. Sembrava un giorno come tanti, ormai eravamo sul set da un mese. Invece arrivo in location e mi trovo travolta da centinaia di donne vestite anni Quaranta, tutte con il documento in mano, il rossetto sulle labbra e i manifesti appesi sulle scale. Oltre al regalo immenso che mi hanno fatto Paola e il cinema in generale, facendomi vivere un momento storico che ha cambiato il nostro Paese, lì ho sentito che stavamo facendo una cosa enorme che avrebbe parlato a tante persone, e di cui si sarebbe parlato per molto tempo.

Il giorno in cui hai aperto i social e hai pensato: “Ci siamo. La giostra è partita”?

Quando lo hanno presentato alla Festa del Cinema di Roma. Io ero a Parigi a girare con Francesca Comencini, ero tra la Tour Eiffel e Montmartre e non riuscivo ad alzare gli occhi dal telefono, perché leggevo questi commenti meravigliosi di chi lo aveva appena visto. Dal primo giorno sono stata travolta, ma la cosa più bella è stata incontrare persone che ci hanno portato le nonne, i padri, gli amici, che sono tornate in sala quattro o cinque volte. Questo capita raramente: vedere un film con degli sconosciuti e commuoversi insieme, arrabbiarsi e sperare insieme. Allora diventa un’esperienza e non solo un film.

Fuori dal fenomeno, qual è stato il tuo momento più intimo con Marcella?

Quello in cui il ragazzo le toglie il rossetto dalle labbra con le mani. È stato particolare perché in quel momento è entrata in gioco anche l’attrice e non solo il personaggio. Marcella, da scrittura, non doveva rendersi conto del gesto violento che subiva, invece a Romana quel gesto non era mai stato fatto, e mi è scattata una repulsione che dovevo contrastare. Romana è dovuta restare lì, dentro la scena, ma negli occhi di Marcella si percepisce un disagio.

È vero, in quel gesto c’è un incontro tra epoche, una repulsione che attraversa i secoli e tocca ogni donna. Dunque, da una parte eccoci con la storia universale di Cortellesi, e dall’altra con la memoria autobiografica di Comencini. Due registe molto diverse?

La differenza più evidente è che Paola è una donna estroversa, leggera e divertente, nonostante i temi trattati nel suo film. Francesca è una donna più dura, una regista di poche parole che centra sempre il punto. Se guardi Paola in un momento di pausa sul set ha un viso disteso, se guardi Francesca ha un viso corrucciato. In comune hanno l’amore per gli attori: Paola perché lo è, Francesca perché ci è cresciuta in mezzo.

Entrambi i film mettono in luce quello che tu puoi fare all’interno di quattro mura, in una casa che è insieme gabbia e focolare.

Mi fa piacere che lo noti, perché invece io sono il tipo di attrice che si attacca a tutto quel che può. Ma su entrambi i set avevo difficoltà a muovere il mio corpo nello spazio, non avendo abbastanza oggetti da utilizzare. Credo che questo abbia ridotto all’essenziale il sentire e l’interpretare, e forse è la forza di entrambi i progetti: si potrebbe essere in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Io lavoro male da sola, cerco tanto la mano dell’altro. Quando ti guardi intorno e non hai nulla a cui aggrapparti, devi fidarti di te e del tuo compagno di scena, e per me la differenza, in questi due film, l’hanno fatta i miei colleghi, Paola e Fabrizio Gifuni.

Uno dei più grandi attori viventi e nessuno glielo riconosce mai abbastanza.

Lo è, davvero. E insieme ci siamo trovati e ci siamo liberati in questa storia. Ogni tanto giochiamo e ci diciamo: «Io sono te e tu sei me».

Sul tuo primo progetto in inglese, Those About to Die, è capitato l’opposto: la messa in scena di un kolossal feat. Anthony Hopkins.

Avere a che fare con quella messa in scena può ostacolare oppure arricchire l’interpretazione. Quei gioielli, le tre ore di acconciature e quel drappo pesantissimo mi davano la postura delle donne dell’epoca, sempre rette e maestose. E poi confesso che leggere il tuo nome accanto al camerino di Anthony Hopkins, un certo effetto lo fa.

La scena della barba allo specchio nel film di Comencini ci ricorda, con grande poesia, che la creatività nasce dall’emulazione. Tu hai osservato allo specchio interpreti fortissimi: facciamo il gioco della barba?

In Paola ho osservato un sorriso d’altri tempi, anche nei momenti di tensione più alta. Da Fabrizio ho imparato a respirare, perché lui è un attore che sa stare e sa dare senza muovere un muscolo. Hopkins con i suoi video su Instagram mi ricorda che questo lavoro è anche un gioco. Jasmine Trinca l’ho sfiorata sul set de La Storia e poi a teatro, ho amato il suo film da regista, ma sai cosa preferisco di lei? Ha fatto ruoli diversissimi senza snaturarsi mai. È in continua ricerca, è un’attrice che non si siede. E io vorrei diventare questo.

Cosa credi stia funzionando in Romana Maggiora Vergano?

Forse, a prescindere dalla recitazione, il modo in cui mi presento. Io non credo di saperne più di nessuno e sono un’abilissima ascoltatrice. Questo nel mio lavoro diventa tutto materiale, mi hanno detto che funziono quasi più nei piani d’ascolto. E poi lo dico chiaramente: la mia fortuna è stata farmi conoscere con un personaggio che mi somiglia molto. Marcella è davvero vicina a me, quindi il dialogo che è nato attorno al film è stato autentico.

Sei partita con due film che potrebbero già bastare. Oggi cosa sogni?

Una casa. Costruire uno spazio sicuro dove rigenerarmi. Continuare con dei grandissimi film. E poi mi piacerebbe la Francia, la mia regista preferita è Céline Sciamma. Spogliare un suo copione e provare a dare vita a un suo personaggio sarebbe già un sogno. Riusciamo a farle leggere questa cover di Fabrique?

Ci proviamo. Prendo in prestito le parole di Gifuni-Comencini ne Il tempo che ci vuole per chiudere con l’unica battuta possibile: «Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema».

Sai che mi sono riempita la casa di post-it dopo averla letta in sceneggiatura? Questa frase mi risolve tutto. Venivo dal periodo di Paola, tanto clamore e attenzione mediatica, avevo la testa sempre lì e all’improvviso ho pensato: “Se lo ha detto Comencini, che ha fatto del cinema la sua vita, allora me lo devo ricordare sempre anch’io”. Prima la vita e poi il cinema. Anche perché sennò cosa raccontiamo?

Fotografa: Roberta Krasnig; Assistente: Sara Pinsone

Stylist: Flavia Liberatori

Hair: Adriano Cocciarelli per @ADRIARE hairdesigner

Make-up: Ilaria di Lauro per @IDLMakeup

Location: The Cineclub

Damiano e Lea Gavino: Che figata un film insieme, ma non abbiamo fretta

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È la loro prima cover insieme, la loro prima intervista doppia. Nell’organizzarla abbiamo iniziato a chiamarli “I Gavinos”: un soprannome che è allo stesso tempo austero e scanzonato, come loro due. Glielo racconto e ridono, ma d’altronde ridono spesso: sono cresciuti insieme e grazie alla recitazione hanno ritrovato una dimensione bambinesca, complice e bellissima da osservare. Lea e Damiano Gavino non si erano mai pensati attori, è iniziata per caso ma con notevoli premesse: Skam Italia, L’ombra di Caravaggio e Una storia nera per lei; per lui il successo Rai di Un professore e poi il ruolo da protagonista assoluto nel Nuovo Olimpo di Ferzan Özpetek. Presto li vedremo in una serie internazionale e in un nuovo film per il cinema: hanno superato la prova delle meteore. La somiglianza è negli occhi e nei volti spigolosi, che si prestano naturalmente al gioco del cinema. La particolarità è nella grazia pungente che Lea porta in scena e nel turbamento dolciastro che definisce Damiano. Sognano di condividere un progetto da protagonisti, ma non hanno fretta: «è una carta che va giocata bene. E quando succederà, sarà una figata».

In principio fu Lea, poi Damiano. Lea, sei stata tu a spingere Damiano verso i provini per Un professore: perché?

L: Lui non ci aveva mai pensato, finché non è capitato. Aveva fatto un self-tape con un suo amico che, con tutto l’amore, era un cane a dargli le battute. Così l’abbiamo rifatto insieme. Io avevo già iniziato la Volonté e mi sono resa conto che Damiano aveva una naturale capacità di musicalità del testo, riusciva a direzionare tutto in modo concreto: se gli chiedevi un tassello di profondità lui eseguiva senza battere ciglio e riuscendo persino ad arricchire con sveltezza. Quando è arrivato il callback con Alessandro D’Alatri l’ho accompagnato provando a motivarlo, perché lui era sull’orlo del “me ne vado”.

D: Guidava lei, io non ero in grado. Mancavano venti minuti ed è andata a prendersi un caffè, io ero pietrificato. Le dicevo: “Ma come fai a sta’ così tranquilla?”.

Damiano, a te è capitato di essere determinante nel percorso di Lea?
D: Ho partecipato al suo self-tape per L’ombra di Caravaggio. Mi ricordo che era d’estate, eravamo in vacanza e lei mi disse: «devo fare questa cosa enorme, è Caravaggio con Michele Placido. Sei l’unico che può darmi le battute». Le ho dato le battute per il ruolo di Louis Garrel, una cosa leggera… Quindi un po’ c’entro nelle cose successe a Lea. No, Le’?

L: Certo. Avevamo giocato molto con quella scena, Damiano ancora non aveva neanche fatto il provino di Un professore.

Quasi vi invidio. Nell’età in cui i fratelli tendono ad allontanarsi, voi grazie alla recitazione avete ritrovato la dimensione bambinesca del gioco.

D: Campiamo con quella.

L: Così qualsiasi tragedia diventa divertente.

D: Non abbiamo mai lasciato la dimensione del gioco ma quando l’adolescenza ci ha colpiti, abbiamo litigato anche noi. Lea mi ha menato finché sono stato più basso di lei.

L: Ho continuato a picchiarlo finché non è cresciuto, con le mie piccole spinte da quattro soldi. Mi ricordo il giorno in cui mi ha risposto con un’altra spinta e gli ho detto: «ok, è finita l’epoca in cui posso picchiarti». Ci è presa una crisi di riso, e quello è stato il giorno in cui abbiamo smesso di chiamare papà dall’altra stanza.

Quali pensate siano i punti di forza dell’altro? E qual è stato il momento in cui li avete messi a fuoco?

D: Per me è la delicatezza di Lea. In scena, perché invece nella vita… [ride]. L’ho vista per la prima volta ne L’ombra di Caravaggio, nella scena con Louis Garrel in cui lei subisce per poi esplodere. E anche in Skam, perché la linea tra l’essere delicata e risultare moscia era sottile, ma lei ha trovato delle corde comprensive ed empatiche senza togliere carattere al personaggio.

L: Dami aveva delle scene molto dure su Un professore, perché il personaggio di Manuel sa essere maleducato e forte nel linguaggio. Mi è piaciuto il contrasto che ha trovato: è come se verbalmente dicesse una cosa ma con lo sguardo ne comunicasse altre. La dolcezza dello sguardo è in contrapposizione con la crudezza dei gesti. Nuovo Olimpo invece è stato uno shock, perché ho visto proprio un’altra persona. Damiano è un attore che ha sempre gli occhi pieni e così crea tridimensionalità.

Invece cosa consigliereste l’uno all’altra per migliorare?

D: Ci sono delle occasioni in cui non devi guardare in faccia nessuno.

L: Apriti un po’ di più. Potrebbe creare delle sorprese interessanti.

Che impatto ha avuto su di voi iniziare con un bagno di popolarità? Un professore e Skam Italia si rivolgono a un pubblico di giovanissimi.

D: Abbastanza forte. Ti apre un po’ gli occhi sulla realtà. Come dice Lea, per conservare il mio lato più autentico ho le stesse amicizie da quando sono nato, i miei “famosi cinque”. Ma essere così esposto all’improvviso ti dà l’opportunità di conoscere altro.

L: A me ha messo ansia. Sono entrata in un progetto già consolidato con un successo enorme, e in preparazione già si sentiva: “sai quante persone vedono questa serie?”. È una responsabilità, perché alcuni giovani identificano in Skam una specie di terapia. Ho pensato fosse interessante quasi a livello antropologico, aver studiato psicologia e ritrovarmi parte di un prodotto rappresentativo di una generazione. È l’unica volta in cui mi sono posta sempre il problema del pubblico: cosa voglio fare arrivare alle giovani ragazze che vedranno questa stagione? E anche le parole fuori dal set hanno improvvisamente un peso: prima è stato angosciante, poi ho capito che bastava essere una di loro, cioè me stessa: una giovane ragazza che cerca di stare al mondo ed essere una brava persona, anche facendo degli errori.

Damiano, in Nuovo Olimpo sei stato un ponte tra generazioni: quella di Özpetek, per cui la libertà non era scontata, e la tua, che invece la rivendica con nuovi mezzi. Il vostro è stato un bell’incontro.

D: Straordinario. Avevamo una concezione diversa che però si è riuscita a sposare tramite un confronto profondo. Ad esempio il linguaggio: era difficile non farlo risultare troppo contemporaneo negli anni Settanta. Ferzan mi chiedeva come avrei detto alcune battute: io avrei usato un linguaggio troppo contemporaneo, ma lui ha pensato che toccare anche la generazione di oggi senza tradire l’epoca fosse un valore aggiunto.

La Viola di Skam, l’Artemisia di Placido, la Rosa di Una storia nera: Lea, tu interpreti spesso battaglie di genere che un tempo andavano quasi taciute, ma che oggi hanno ritrovato una forte dimensione politica.

L: È vero che c’è un filo conduttore quasi politico dietro le cose che faccio. Rosa è l’unica su cui non ho fatto questo ragionamento, perché lei prima di essere una donna è una figlia. Il confine tra giusto e sbagliato è compromesso dalla figura paterna, ma poi il risultato è inevitabilmente politico. Al contrario, con Viola ho cercato di trovare il tatto per parlare di molestie al liceo.

Cosa c’è nel vostro futuro?

D: Io sarò protagonista di un film che uscirà al cinema, Prophecy, ispirato all’omonimo manga giapponese [di Tetsuya Tsutsui, nda]. Mi sono divertito come un matto.

L: Io ho partecipato alla seconda stagione di SAS Rogue Heroes, serie BBC che per la prima volta mi ha dato l’opportunità di lavorare con una produzione internazionale.

E poi c’è sempre il sogno di un progetto condiviso: come lo immaginate? I Gavinos diretti dai D’Innocenzo suonerebbe bene.

D: Ehilà, una commedia leggera! La verità? Io non ho fretta. Perché è una carta che va giocata bene. E quando succederà, sarà una figata. Lea però deve fare un lavoro enorme, perché appena mi vede in scena ride. È un problema che va risolto!

L: Ma che posso farci? Magari ho la crisi di riso per un quarto d’ora, però poi riusciamo a lavorare. Comunque così sembra che rido solo io.

D: Certo, tu inizi e io poi ti vengo appresso come un cretino.

Damiano dice di avere “una fissa per i ricordi” e il cinema è tra i principali custodi della nostra memoria. Tra vent’anni come ricorderete questa prima cover insieme?

D: Come parte di un gioco serio.

L: Damiano, ma tu dici solo cose serissime? Allora io guarderò le rughe che non avevo. Non la appenderò in camera accanto al poster di Damiano, ma nel mio futuro vorrei fare un bagno delle cover. Questa entrerà sicuramente nell’album di famiglia, mamma non vede l’ora.

Fotografa Roberta Krasnig, Assistenti: Davide Valente, Sara Pinsone e Anna Dykhno; Stylist: Flavia Liberatori, Assistente: Carlotta Gallina; Hair Adriano Cocciarelli per @ADRIARE; Make-up Ilaria di Lauro per @IDLMakeup

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Enrico Borello, ogni volta una pelle nuova

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Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.

 Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una bussola: «Robert De Niro rivela l’essenza del suo personaggio ma è completamente al buio. È in prigione, prende a pugni il muro, ripete “Io non sono cattivo”, ma non si vede mai in faccia». Per lui c’entra qualcosa con la forza di un attore che lavora in ombra, senza cercare a ogni costo la luce (in scena, nei ruoli, nella fama). Enrico Borello – una laurea in riabilitazione psichiatrica – ha iniziato a recitare tardi e di nascosto dagli amici di sempre, che avrebbero pensato «o sei un coglione o sei Billy Elliot». Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista. Ha odiato il sistema, sta imparando a gestirlo e la vive come una partita a poker: «Io non bluffo mai, il punto lo dichiaro sempre. Poi la verità si vede in scena, quando siamo tutti sulla stessa barca e parliamo la stessa lingua».

Partiamo dalla fine: Gabriele Mainetti, una storia di kung fu ambientata a Roma, nel cast Ferilli, Zingaretti e Giallini, ma il vero protagonista sarai tu.

Sarò io insieme all’attrice Liu Yaxi. Di kung fu non ne capisco nulla, un film d’azione solo con me sarebbe stato troppo goffo. Per me la romanità è un fattore centrale, e me la sono giocata nella misura in cui Gabriele mi ha inserito nel contesto in cui sono cresciuto. Sono di Santa Croce in Gerusalemme e il film è ambientato a Piazza Vittorio, l’Esquilino è casa mia.

E se ogni attore porta in scena anche un po’ della sua storia, tu cosa ti porti dietro?

Elio Germano ha detto in un’intervista che la cosa migliore che può succedere a un attore è smettere di provare ad essere qualcun altro e imparare ad essere se stesso nel modo più potente possibile. Al momento mi accorgo che c’è una grande voglia di esprimermi e camuffarmi, senza nascondermi, ma cercando di trovare ogni volta una pelle nuova.

È il motivo per cui hai iniziato a fare l’attore?

Un po’ sì. Volevo vivere una vita che nella realtà mi costerebbe delle scelte da cui non si torna indietro. Volevo fare il maggior numero di esperienze possibili, però a rischio zero.

Quindi fino a che punto spingersi?

A volte mi è successo di rischiarmela. Psicologicamente ti puoi frammentare, nel nostro mestiere questo esiste e mi attrae. Per Lovely Boy sono stato quel personaggio dalla mattina alla sera, scrivevo canzoni, le registravo, per me il gioco era su tre livelli: non essere Enrico che interpretava il personaggio del film, ma essere un trapper che faceva un film sulla trap. Poi è stato problematico, ho capito che ci sono degli orari per fare certe cose, che la sera devi recuperare il tuo ritmo. Non sono Heath Ledger che sta facendo Joker, ma è vero che ti vesti dei panni di qualcun altro e certi vestiti te li porti dietro tutta la vita.

Questa è scuola Volonté o scuola Borello?

Macché Volonté! [ride] Queste sono esperienze collezionate. Per me non c’è scuola, maestro o persona che possa insegnarti a recitare. Quando sono entrato alla Volonté mi sono spaccato in quattro e alla fine ho capito che l’unica vera esperienza che si fa in un’accademia di recitazione è quella di misurarsi con l’altro: la lezione più importante, il banco di prova più utile. Ma se si tratta di stare in scena, io provo sempre a ricordarmi: cosa facevi quella volta che volevi essere il più bullo del quartiere? O quando pensavi che saresti diventato un medico psichiatra? Come ti comportavi, come hai cambiato pelle per stare all’interno di un ambiente?

Sei laureato in riabilitazione psichiatrica. Appartiene a un altro Enrico, oppure?

La pelle te la porti sempre dietro. Non credo a quello che dicono i Jedi, che devi disimparare ciò che hai imparato. Quando ho lavorato con le realtà più fragili dell’essere umano ho imparato a conoscere l’altro, anche negli aspetti che definiamo folli. L’esperienza di una psicosi è inafferrabile e incomprensibile, puoi simularla con delle sostanze stupefacenti ma non saprai mai che cazzo è.

Ti piace o ti spaventa l’idea di interpretare una psicosi che eri pronto a curare?

A un ruolo del genere mi affezionerei tanto, ma mi spaventa tutto. Io amo i ruoli morbidi, se potessi starei solo comodo. Quando interpreto personaggi violenti campo male, non sto bene, perché la violenza lavora dentro di te. Fare uno psicotico significherebbe fare i conti con un mare di violenza percepita.

Quando ti sei iscritto al primo corso di teatro lo hai nascosto a tutti: perché ti imbarazzava?

A ventidue anni era difficile raccontarlo agli amici. Sono sempre stato immerso nella Roma di tutti i giorni, che non è borgata ma è anche quella di chi lavora nelle officine o nei ristoranti, la cocaina la sera, le birre, e se dici che vuoi fare l’attore o sei un coglione oppure sei Billy Elliot. Quando ho iniziato a lavorare sul corpo e muovermi in modo strano, pensavo: “Mo’ sbuca l’amico mio Paoletto dalla finestra, me guarda e me fa: Enriche’, ma che cazzo stai a fa’?”

Hai raccontato che su Supersex Borghi ha sbloccato qualcosa dentro di te.

Ho sempre visto Borghi come una figura lontana, mitologica. Poi Alessandro mi ha sbloccato un processo umano: da lui mi sono sentito accolto, e sentirsi accolti in quelle situazioni non è una cosa da poco. Saper mettere l’altro a proprio agio richiede una grande forza, e questo mi ha fatto capire che davanti non avevo solo un grande attore che faceva parte del sistema.

Verso il sistema sei diffidente?

L’ho giudicato per tantissimo tempo. Poi Alessandro ha  rimosso una reticenza verso una realtà che per me era solo tossica. Quando “slivelli” ti accorgi che contano gli esseri umani e incontrarne uno del genere, nonostante il potere che il sistema gli riconosce, non è scontato. Mi capita di incontrarne altri e pensare: “Meno male che te vedo oggi e poi non te vedo più”.

Invece Gabriele Mainetti ti ha fatto capire cosa significa trasformare delle sensazioni in azioni. Vale a dire?

Che il mestiere dell’attore non è necessariamente sentire l’esperienza, ma a volte agirla, quando ti capita di non sentirla. Poter raggiungere la sensazione attraverso l’azione. Con Gabriele i take erano tanti, le scene difficili, le giornate lunghe. Lì se ti affidi solo alla sensazione, il corpo ti saluta. Deve subentrare l’aspetto atletico dell’attore.

L’attore che non è solo atleta delle emozioni.

Esatto. Con Gabriele ho trovato chiavi che aprono nuovi elementi del mio corpo. Ecco perché dico che la recitazione non te la può insegnare nessuno: arriva un momento in cui devi sopravvivere a quella scena. Ed è nell’urgenza che impari sempre qualcosa, il tuo corpo ti regala delle verità su se stesso e allora dici: “Questo farà parte del mio repertorio. Oggi ho capito che non so soltanto camminare, posso anche correre”.

Te lo sei meritato questo ruolo?

Me lo so’ faticato. Ho lottato, tanto. Per me è come una partita a poker, e io il punto ce l’ho. Non bluffo, non prometto cose che non ho in mano, il punto lo dichiaro sempre. Poi vediamo chi viene a vedere.

Credi che nella tua carriera stia per succedere qualcosa di grosso?

Io voglio crescere. Non faccio questo mestiere per la fama, anche perché, una volta ottenuta, che farei? A me piace il gioco, fare le foto per questa nostra cover, esprimermi. E quando la rivedrò tra qualche anno penserò: “Quante cazzate ho detto”.

Fotografa @robertakrasnig assistente @_davide.valente_

Stylist @flavialiberatori_ assistente @carlottagallina_

Hair @adriare

Makeup @idlmakeup

Abiti: @paulsmithdesign, calvinklein, @fendi @seafarer_since1900

 

Andrea Lattanzi: ogni tanto bisogna dare da mangiare ai demoni

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Andrea Lattanzi ci piace, e tanto. In scena ha l’istinto dell’animale sciolto, ma anche il paracadute sempre pronto: ha studiato molto, e questo gli evita lo schianto. La sua filmografia merita già attenzione: il premiatissimo Manuel di Dario Albertini, tre stagioni di Summertime su Netflix, La svolta di Riccardo Antonaroli, Grazie ragazzi di Riccardo Milani e tutto quello che – siamo sicuri – verrà, a partire dai due progetti in lavorazione (Io e il Secco di Gianluca Santoni e l’opera prima di Maria Tilli). Durante la chiacchierata ci ritroviamo a citare Marinelli e Germano, in particolare “quella scena” devastante in un film di Luchetti. Allora azzardo e faccio una scommessa: il suo destino è quello. Ha il talento naturale di far vibrare una battuta con un gesto, e quand’è così c’è poco da aggiungere.

Sei reduce da un altro viaggio a New York, dove tutto è iniziato.

È stato stranissimo tornare lì. Ci ho vissuto un anno e mezzo, avevo vent’anni ed era poco prima di girare Manuel. Ho fatto un tour nostalgia.

Quando l’hai lasciata avevi vent’anni, com’eri messo?

Male. Ero messo male [ride ndr]. Non c’avevo più una lira, ho dormito per strada. Chiamare mia madre non era fattibile, si sarebbe preoccupata.

Mi sembra di parlare con Patti Smith e Robert Mapplethorpe, questa tua New York randagia e pericolosa.

Guarda che sono finito in situazioni che, se sono vivo, è solo per miracolo. È stato bellissimo e traumatizzante. La verità è che ci ero andato per entrare all’Actors Studios, ma passavo lì fuori e non avevo il coraggio di entrare, mi metteva ansia e poi chissà che mi sognavo. Fatto sta che dopo un anno e mezzo ho trovato su Facebook un concorso RB Casting con Carlo Verdone, Lina Wertmuller e Daniele Luchetti in giuria. Bisognava portare un monologo in romanesco. Lì mi sono caricato, sono andato con la convinzione di voler vincere.

E se questo fosse un film, la prima svolta sarebbe il momento in cui tu dici a Verdone: «Però a me non me devi ferma’». Racconta.

Succede che su mille provinati, il ragazzo che si esibisce prima di me porta il mio stesso monologo. Assurdo. Carlo Verdone lo blocca dopo pochi secondi, perché aveva fatto pietà. Io capisco che non è aria e faccio per andarmene, invece mi sento chiamare: «Andrea Lattanzi». Mi blocco, mi giro, butto la borsa per terra e arrivo davanti a Verdone: «Guarda, ti porto lo stesso monologo di quel ragazzo». Lui allarga le braccia: «No, pure te!». E lì mi viene quella faccia da culo di dirgli: «Sì, però a me me lo devi fa’ fini’». Lui mi fulmina per qualche secondo, poi si infila le cuffie: «Ok. Quando vuoi tu». Faccio tutto, riprendo la borsa e poi esco in lacrime.

Stacco: ti chiamano, sei tra i dieci finalisti, e da lì parte tutto.

Sì, poi Dario Albertini vede il monologo incriminato su YouTube e mi chiama per il provino di Manuel.

L’amore per il cinema – hai raccontato – è nato per distrarti da certi demoni che ti porti dentro.

Ti dico una cosa: a me dà fastidio chi gioca su questa cosa, “io vengo dalla strada”. Chi viene veramente dalla strada non ci vuole più torna’. Io l’asfalto l’ho mangiato e non voglio stare qui a sfoggiarlo, anzi, me ne vergogno. Non ne parlo, perché ho fatto cose di cui non vado fiero. Quando dico che questo lavoro mi ha salvato la vita è vero, ma io ho studiato per farlo, era una passione. Però per tornare alla tua domanda: bisogna dargli da mangiare, ogni tanto, a ’sti demoni.

Sì, ma mentre il mondo brucia noi stiamo qui a parlare di cinema: voglio dire, perché fai l’attore?

Perché è una cosa che amo, e mi distrae da quello che accade intorno, dai disastri e dalla miseria. Ne soffro, ma anche qui mi dissocio dal metterlo sui social e partecipare alla fiera dell’ipocrisia. Da una parte pure quando recito mi tornano fuori i mostri, anche perché non sono uno stinco di santo. Vado tuttora in terapia, ogni tanto dico che dipende da questo mestiere, ma non è vero. Ci vado perché ho fatto un sacco di cazzate in vita mia. Ci sono state grandi mancanze che mi hanno lasciato dei traumi.

Manuel è il film che ti ha cambiato la vita. Hai detto che sei nato con il cinema d’autore ed è lì che vuoi tornare.

Io ho sempre voluto fare cinema d’autore, non avrei mai scelto di fare nessun altro tipo di progetto. Sono incazzato perché in Italia diciamo che non c’è più la cultura della sala, ma se tu un film come Manuel lo distribuissi nello stesso numero di copie che concedi ai film mainstream o americani, magari qualcosa cambierebbe, no?

Non c’è niente che ti pesa fare?

Mi pesa quando non trovo sensibilità sul set, quando manca tatto verso gli attori. Se lo fai notare, magari ti rispondono con l’esempio dell’America, “quell’attore però si è buttato in una vasca a meno venti gradi”. E certo, chissà in che condizioni di lavoro l’hanno messo per farlo, lì ci sono i soldi e le cose si fanno in grande. Ma io non vado a mori’ a meno venti gradi per i cazzi tuoi. Se non amassi così tanto questo lavoro, certe volte me ne andrei.

Quanto conta questa tua faccia in questa tua carriera? A Roma non ti definiremmo un bello canonico, ma uno che tira.

Io nel dubbio cerco sempre di fare bella figura ai provini. Germano o Marinelli per me sono bellissimi. Di essere un Ken non mi importa, non mi sono mai detto allo specchio: “Ammazza Andre’, quanto sei bello”. Il concetto di bellezza al cinema andrebbe davvero sdoganato, soprattutto per le attrici. Conosco colleghe bravissime che farebbero numeri rispetto ad altre che sono ora in circolazione. Però ci sono pure i belli e bravi, eh, non è che mo’ dobbiamo essere tutti intriganti.

Cover Fabrique: non ti chiedo cosa sogni, ma dove pensi di poter arrivare.

Ho tanta fame di questo lavoro e ho appena iniziato. Ho le idee chiare, quando vado a dormire me le proietto tutte in testa. Mi avevano preso per due progetti esteri importanti, ma ho dovuto rifiutare perché stavo girando altro. Il fatto che abbiano già bussato mi fa pensare che capiterà ancora. Non mi interessa andare fuori dall’Italia per avere successo, è che voglio vedere come fanno il cinema dall’altra parte. Qui, invece, sogno di lavorare con i più grandi registi che abbiamo

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Cinque validi motivi per vedere Call My Agent Italia

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Call My Agent Italia, l’attesissimo remake del fortunato format francese, ha dalla sua (almeno) cinque punti di forza rispetto all’originale. Eccoli:

1) Da Boris a Call My Agent Italia: Italians do it better

Terreno pericolante come pochi, quello su cui si incamminava Call My Agent Italia. A stargli con il fiato sul collo c’erano, direttamente da Parigi, il format originale con uno schieramento di star internazionali (Jean Reno, Charlotte Gainsbourg, Isabelle Huppert, Juliette Binoche, Jean Dujardin) e giocando in casa il mostro-sacro-Boris. Il confronto qui era immediato: si passa dal pesce rosso insider dei set all’italiana, al cane mascotte dell’agenzia di spettacolo CMA, Marcello (richiamato al suon di «come here», che fa già ridere così). Il tutto inevitabilmente ambientato a Roma, anche stavolta. Siamo nell’universo del meta cinema, della casta che svela i propri altarini in chiave comedy: e farlo in Italia dal 2007 in poi, senza provocare il paragone con Boris, è praticamente impossibile.

Invece il nostro Call My Agent non solo diverte e fila che è una meraviglia – scritto da Lisa Nur Sultan, sempre più forte, e diretto da un accuratissimo Luca Ribuoli – ma ci ricorda che questa è anche una delle cose che sappiamo fare meglio. Vuoi per scanzoneria innata o perché non ci resta che ridere, ma quando si tratta di autoironia siamo i migliori della classe. L’elenco di scene brillanti e battute che hanno il potenziale per tradursi in citazioni popolari “alla Boris” è davvero succoso. Dal tormentone sul nuovo mito del «ruolo femminile irriverente tipo Fleabag» (che ormai utilizziamo per vendere qualsiasi contenuto come “molto poco italiano”), all’attrice megalomane senza talento incarnata da Emanuela Fanelli (se vogliamo, spassoso update della “cagna maledetta” firmata Crescentini), ma anche a gag che inquadrano le dinamiche penose del lavoro all’italiana (di cui Biascica rimane il portavoce per eccellenza): «Non non sei tu che te ne vai – urla l’agente alla sua assistente under 30 – ma sono io che ti licenzio! (pausa) Che cazzo dico, non sono io che ti licenzio senza giusta causa, ma sei tu che te ne vai». D’altronde Favino sale sul palco dei David, farfuglia in spagnolo ma riceve comunque la standing ovation perché è Favino, mentre Sorrentino orchestra un pesce d’aprile proponendo la terza stagione sul Papa con Ivana Spagna, Madonna e Lino Banfi, senza che nessuno osi battere ciglio… Un po’ come quando René Ferretti dava del «genio!» a chiunque lasciando il re nudo, no?

2) I “pacchetti agenzia”: è outing

Ebbene sì, Call My Agent Italia lo fa: inserito en passant durante una scena tra Maurizio Lastrico e Kaze (il contesto è un litigio tra agente e attrice esordiente), la serie mette in bocca all’agente il famoso segreto di Pulcinella. La questione funziona più o meno così: in fase di casting c’è sempre una gerarchia di ruoli ed interpreti; allora può capitare che se per il tuo film vuoi il pezzo da novanta della mia agenzia, in cambio mi prendi anche alcuni attori minori tra quelli che rappresento. È una moneta di scambio, discutibile o meno, che tutti conoscono ma che nessuno dichiara apertamente. Per questo la battuta ha il retrogusto di un outing: «Ho fatto quello che fanno le agenzie – ammette il personaggio di Lastrico – cioè dei pacchetti. Ho cercato di prendere due piccioni con una fava». Dopotutto chi si era mai vantato di “smarmellare” prima che Duccio aprisse le danze? Insomma, i cast di certe serie tv con cinque o sei attori provenienti dalla stessa agenzia, e gli aneddoti su callback e ruoli vinti per legittima bravura ci lasciano un po’ disorientati, ma qui il dubbio sulla leggenda dei pacchetti viene risolto «così, de botto». E amen.

Call My Agent Italia
Sara Lazzaro in “Call My Agent Italia”.

3) Sofia e Monica: un passo avanti ai francesi

Che poi non è che in Dix pour cent filasse proprio tutto liscio, specialmente in termini di scrittura. Su certi personaggi solidissimi e originali (in primis la Andréa Martel di Camille Cottin) gravava il peso di altri ruoli abbozzati in modo macchiettistico e un po’ ridicolo, poi corretti nel corso delle stagioni. Noémie e Sofia (nella versione originale Laure Calamy e Stéfi Celma) sono l’esempio meno riuscito. Nel nostro remake italiano, invece, si ha l’impressione che già in sceneggiatura siano state individuate e rifinite proprio queste mancanze, riscrivendo i personaggi con l’obiettivo di superare frivolezze e momenti d’imbarazzo. La Monica di Sara Lazzaro e la Sofia di Kaze brillano per caratterizzazione e interpretazione – non per riflesso – e acquisiscono una nuova dignità. Entrambe portano a un’imprevedibile riscoperta dei due ruoli: chapeau.

4) Viva Jean Reno, però…

Sorrentino fa Sorrentino. Entra in scena annunciato dal primo piano di una suora, dispensa aforismi sulla vita e si prende gioco di tutti, a partire da se stesso (non dimentichiamo i pionieri del format “Sorrentino che imita Sorrentino”: i The Jackal). Accorsi fa Accorsi. E qui è davvero uno showman di prim’ordine, tra il santone del cinema italiano e il ragazzaccio ancora tormentato di Radiofreccia, sempre ossessionato dalle sue due cose preferite: l’Emilia Romagna e «l’ennesima idea di Stefano Accorsi». Favino è esilarante. Rimane il dubbio che la sua, più che una partecipazione, sia una richiesta d’aiuto: “Pietà, smettetela di prendermi così sul serio”. E poi tra De Angelis che manda al diavolo il web politicamente corretto e Cortellesi che studia il proto-etrusco mostrandoci (di nuovo) quanto ci incensiamo anche in quelle occasioni, arrivano loro due: Guzzanti e Fanelli, insieme. Che vorresti ridere ma non ci riesci, per quanto fa ridere.

5) Perfetti sconosciuti e Bali: la storia ci insegna che

Due moniti grossi come monoliti, da non sottovalutare solo perché siamo in piena commedia. Primo: un cinema senza coraggio e senza lungimiranza, è un cinema perdente. Il più grande errore commesso alla CMA ha un nome, un cognome e un titolo venduto in 80 paesi per un incasso globale di 320 milioni di dollari: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Il poster del remake coreano campeggia sulla macchinetta del caffè dell’agenzia per ricordare a tutti che quando un regista propone un’idea insolita, un agente dovrebbe pensarci bene prima di rispondere: «Non suona. Messaggini e spuntine blu? Ma fai Immaturi 3, non rompere il cazzo».

Secondo: al netto del fatto che Call My Agent Italia fa satira, la maggior parte di ciò che mostra corrisponde alla realtà. Quel tipo di adrenalina è davvero il motore della nostra industria, ma il senso di ridicolo che spesso ne scaturisce… pure. Il segreto per prenderla con leggerezza e ricordarci che non siamo a questo mondo per salvarlo, ma al massimo per intrattenerlo un po’, è nei primissimi episodi. Questa storia inizia quando il fondatore dell’agenzia, in videocall dall’Indonesia, annuncia a tutti di voler mollare la baracca: «In un pianeta dove esiste Bali, me vuoi di’ perché devo mori’ a Roma Prati?». Ma infatti: perché?

 

 

 

 

Beatrice Grannò: Meglio la verità della perfezione

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Se Beatrice Grannò è il talento emergente sulla cover di Fabrique n. 38 è anche doveroso chiedersi dove e come stia emergendo, dopo anni di carriera: all’estero, intanto. E nella musica, presto. Perché in mezzo a tanta recitazione, datele un pianoforte, un microfono e un po’ di folk… e non è detto che si volti indietro a guardarvi.

Era sul set di Doc – Nelle tue mani 2 quando ha scoperto di aver vinto il provino per The White Lotus: Sicilia. In pochi giorni è scappata a Taormina per iniziare le riprese di una serie internazionale amatissima dalla critica, che di lì a poco avrebbe dominato gli Emmys in mondovisione. Viaggiando tra Italia e Stati Uniti, ovvero tra Rai ed HBO, ma anche tra un personaggio drammatico e tormentato (Carolina in Doc) e una nuova versione di sé impudente e maliziosa (Mia in The White Lotus), Beatrice Grannò si porta già dietro un bagaglio da mestierante: l’accademia di Londra, il teatro di strada, il film di Cristina Comencini in cui è co-protagonista accanto a Giovanna Mezzogiorno (Tornare, del 2019) e quello di Leonardo Guerra Seràgnoli tratto da Gli indifferenti di Moravia (con un paio di scene durissime, insieme ad Edoardo Pesce). E poi, certamente, Security di Peter Chelsom, la serie Netflix Zero e quel film di nicchia a cui lei resta sempre legata: Mi chiedo quando ti mancherò di Francesco Fei.

Quindi sei con un piede nella serie di punta Rai, e l’altro nella HBO: sogni o sei desta?

Pensa che ero sul set di Doc e mi sono ritrovata a fare il provino per The White Lotus, mi sembrava una realtà così lontana. Quando Mike White [nda: autore della serie] è venuto a Roma per l’audizione dal vivo, il tutto è durato dieci minuti… E dopo una settimana ero già sul loro set. Mi ci sono ritrovata catapultata.

Serialità mainstream e serialità di nicchia: parliamone.

La cosa interessante di White Lotus è che oggi è molto popolare in America, ma quando uscì la prima stagione rientrava nelle serie con una grande identità autoriale, osannata dalla critica. Quindi di primo impatto per me non aveva l’aria di essere una serie-evento tipo Euphoria o Succession. Il successo enorme è arrivato con gli Emmys: lì si è iniziato a capire che la nicchia poteva diventare popolare. Allo stesso tempo ricordo che mentre stavamo girando The White Lotus a Taormina era appena uscita Doc2 ed io ero in copertina su TuStyle. I miei colleghi americani pensavano che fossi chissà chi, e a me veniva da ridere.

Il contrasto tra i due personaggi è piuttosto forte: in Doc sei la fragile figlia di Argentero, in The White Lotus una giovane donna ammiccante e spregiudicata.

Quello che mi piace del personaggio di Mia, in contrapposizione a ciò che ho sempre fatto anche con Carolina in Doc, è che inizialmente lei è reticente ma quando poi prende il via non ha mai un momento di vulnerabilità. E invece tutto ciò che è dramma per me funziona. Io mi sento molto serena nel raccontare personaggi in difficoltà, mentre Mia in un certo senso non dubita mai di sé, è quasi comica quando ripete “I’m a great pianist, I can sing very well”. Non fa che dire: “Sono pazzesca, sono bravissima e mi merito tutto”.

Quindi una drama queen come lavora sull’anti-drama?

Spesso scherzavo con Mike: “Ma questa Mia non ha mai un momento di crollo? Perché io questa cosa la so fare benissimo, fammi versare una lacrima, dai!”. In realtà è stata una grande sfida per me raccontare un personaggio così pieno di sicurezza, con una forza femminile che tuttavia non rientra nello stereotipo, perché Mia è determinata quanto maldestra.

Hai vinto un provino ambitissimo: come è andata?

La verità è che a volte, quando ottieni questi ruoli, la vera fortuna sta nell’essere molto vicina all’idea che il regista ha di un personaggio in sceneggiatura. Mike stava cercando un’attrice italiana, che avesse un’energia innocente ma che fosse disposta a tutto per realizzare il sogno di cantare e suonare. Mi sono detta: “Ok Beatrice, questa è roba tua”. Mi sono presa vari giorni per allenarmi con il siciliano e una domenica ho convocato a casa un gruppo di persone che mi aiutassero a preparare il selftape. Io e Simona Tabasco eravamo sul set di Doc mentre studiavamo entrambe per i provini di Mia e Lucia, e ci siamo divertite così tanto che le dicevo: “Simo’, ma ci pensi se questa cosa succede davvero?”.

Mi piace l’idea di chiedere a un’attrice che debutta in una serie internazionale pluripremiata: quanto ti è tornata utile l’esperienza della lunga serialità italiana?

Il set di Doc mi ha insegnato a mantenere una concentrazione costante con dei ritmi sempre incalzanti, perciò quando sono arrivata a girare The White Lotus ero allenata. Però era un lavoro del tutto diverso, perché dal dramma sono passata alla commedia. Mi sembrava di essere tornata a Londra, con il mio direttore di accademia che ci ricordava di essere liberi e spontanei. Bisognava che trovassi delle cose mie da portare nel personaggio, per renderlo comico ma anche unico. L’obiettivo era che Mia e Lucia tenessero sempre un’energia molto alta nell’economia della storia. Io dico sempre che sono come due biglie che vengono lanciate in questo albergo di lusso per alterare gli equilibri delle famiglie…

E tu, guarda caso, sei una biglia che canta e suona il piano.

Tutto in live session. Per la prima volta mi stavo esibendo dal vivo con un pianoforte a coda, e lo stavo facendo davanti a tutti, su un set americano così importante. Ero preoccupata ma il regista voleva che la performance fosse reale, anche con dei piccoli errori e dei momenti di respiro. È stato liberatorio, mi ha fatto staccare dall’idea di dover sempre ottenere la performance perfetta: ho sacrificato la perfezione in cambio della verità.

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Foto di Roberta Krasnig; Stylist Stefania Sciortino; Makeup Ilaria di Lauro per IDLMakeup; Capelli Adriano Cocciarelli per Harumi; Prodotti per capelli: Body e Sun Schwarzkopf Professional 

Agrodolce, una storia di sognatori

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Quattro ragazzi, quattro vite diverse, quattro sogni difficilmente realizzabili. Ambientata in una cittadina della pianura padana, questa è una storia di ventenni, vista dallo sguardo di un ventenne. Marco, Cecilia, Tommaso e Paola, i protagonisti del film, sono dei gran sognatori e immaginano nel loro futuro la realizzazione delle loro aspirazioni e il riconoscimento delle loro capacità. Inseguono i loro sogni con determinazione, con passione e con grande fiducia… ma sbatteranno presto contro la dura realtà.

Scrive MyMovies: «Alessandro Prato, al suo primo lungometraggio totalmente autoprodotto, mostra un controllo del mezzo nonché un’abilità nel fare casting e poi nel dirigere gli attori che non molti film di esordienti possiedono». 27 anni, nato a Cremona e trasferitosi a Roma, nonostante la giovane età Prato si è formato lavorando con maestri come Pupi Avati, Giancarlo Giannini, Tonino Zangardi e Abel Ferrara, che lo ha scelto per recitare accanto a Willem Dafoe nel suo film Tommaso. Proprio nella sua città il regista è tornato ad ambientare la sua opera d’esordio, Agrodolce, per cui ha scelto un titolo tutt’altro che casuale, in riferimento alla vita di una generazione che gravita attorno a soddisfazioni e dolori: «Cremona mi ha regalato location di notevole bellezza: Piazza del Duomo, Palazzo Raimondi, Palazzo Araldi – Erizzo, la campagna cremonese, il parco Po, i licei, le botteghe di liuteria: questa città è la più importante al mondo per la costruzione di strumenti musicali ad arco».

Il film è vincitore del Premio Utopia alla 35ª edizione del Festival del cinema giovane – Castellinaria (in Svizzera), dove il regista è stato premiato per aver diffuso «la magia dell’utopia e del ‘non luogo’, ma pure di concetti quali la scoperta, la ricerca interiore, il sogno, il coraggio, la solidarietà, la giustizia e la bellezza». Già apprezzato dalla critica e dal pubblico per l’attualissima tematica trattata, la scelta e la direzione del cast e la capacità di Prato di strutturare un racconto coerente e sincero, in cui i personaggi raggiungono l’identità di persone reali, Agrodolce è ora disponibile su Amazon Prime Video, Google Play ed Apple Tv, distribuito da Direct to Digital.

2Flows. La musica attraverso chi la vive

She è una cantante di successo annoiata dalla vita che viene sfruttata dal suo manager Cristiano, uno squalo del settore musicale. Luca, aka Tempo, è un artista che lavora come lavapiatti per aiutare la madre ad estinguere il mutuo della loro casa. Luca, dopo aver inciso la sua nuova canzone con l’aiuto dei suoi amici Marco e Boro, scopre che il suo ultimo video è diventato virale su tutti i social. Grazie a questo successo viene notato e contattato da Cristiano che gli dà appuntamento al Blue Velvet, un locale molto rinomato in città. È lì che i destini di Luca e She si incroceranno grazie alla mano inconsapevole di Cristiano che, seppur non volendo, cambierà per sempre le vite dei due ragazzi.

Presentato a Torino, 2Flows è ora disponibile su Amazon Prime Video, Google Play e prossimamente su Apple TV distribuito da Direct to Digital. Il titolo si rifà ad un gioco di parole che rappresenta due diversi flussi di vita ma anche due stili di rap. D’altronde la particolarità del film è nella sua stessa natura: questa è una storia sulla musica interpretata da artisti veri, che raccontano con onestà e passione tutti i sacrifici, le ansie e le emozioni di chi la musica la sogna, ma cerca anche di farne un mestiere.

Nel cast: Nicolò Bertonelli (Oltre la soglia; Braccialetti Rossi 3; The Christmas show), Maria Teghini, Gianmarco Bellumori (La grande bellezza), Roberta Carluccio (influencer da 2 milioni di follower), Alessandra Carrillo (1994; Il processo; Oltre la soglia; Il paradiso delle signore; Luna Park), il noto rapper Boro Boro, il rapper Vaz Tè e il producer-dj Zero Vicious.

Ambientato nella scena rap torinese, 2Flows mette a confronto la vita dei musicisti protagonisti evidenziandone le differenze: c’è chi come Luca sogna di emanciparsi dalla periferia per diventare un rapper famoso, e chi, come She, è già una cantante affermata ma soffre nel rigido mondo dello showbiz. La vera sfida sarà capire dove trovare la felicità… senza mai rinunciare ai propri sogni.

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