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Chiara Del Zanno

Il tuo ricordo: Samuele Bersani e il regista Giacomo Triglia parlano del nuovo video

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Se anche per le canzoni si potesse parlare di sequel, allora Il tuo ricordo sarebbe la nuova disincantata stagione dell’amore di Samuele Bersani. Il ponte tra En e Xanax e quello che, invece, “non ha resistito alla rivoluzione”. A detta sua potrebbe essere anche uno sliding doors, «perché la vita ti dà sia En e Xanax che l’esatto contrario. Una relazione che è finita può essere un fantasma che ti tormenta: è stato bello ma non ce l’hai più. Poi ci sono anche quelli che han tenuto botta: i fortunati. Beati loro. I miei stanno insieme dal ’66, sono due begli esempi di En e Xanax. E poi ci sono io, che devo liberarmi da certi ricordi».

Bella sfida, quella dei ricordi, anche per Giacomo Triglia, ideatore e regista del videoclip uscito oggi. I due veri protagonisti del brano sono infatti un passato irripetibile e un presente che non è pronto ad arrendersi alla perdita dell’amore. Rimane solo la nostalgia quasi compulsiva del ricordo. Un concetto complesso da realizzare visivamente, che Triglia ha ottenuto esasperando con poesia la ripetizione dei gesti: la protagonista del video ricrea nei minimi dettagli un’immaginaria cena a due. Per Triglia, che qui torna a collaborare con Bersani dopo aver firmato anche il video di Harakiri«i brani di Samuele sono tutti delle piccole sceneggiature».

«Giacomo è uno che ha cura delle cose che fa. Lui non molla» racconta Bersani, che per il video aveva due grandi punti fermi: «Non avevo a fuoco l’idea, ma volevo che qui la canzone venisse vestita della parte femminile a cui non avevo pensato scrivendola. E che la protagonista fosse la stessa attrice di En e Xanax, Camilla, senza neanche fare i casting».

Di Giacomo è anche l’idea della tenda magica, che è «il fulcro del video, una sorta di passaggio spazio-temporale tra presente e passato, come un cassetto della memoria. È qui che la protagonista combatte la propria battaglia con i ricordi che la tormentano». La battaglia emotiva è resa attraverso una coreografia di raccordi di macchina e di montaggio, che riesce a prendere la stessa sofferta rincorsa delle parole di Bersani. «Ho preparato uno storyboard molto dettagliato per coniugare i due set e ottenere la continuità narrativa. Poi curo sempre il montaggio, quindi sul set sono pronto a trovare soluzioni alternative perché so di preciso cosa mi servirà in fase di editing per riuscire a raccontare la mia storia».

Un frame da Il tuo ricordo con Samuele Bersani
Un frame da “Il tuo ricordo” con Samuele Bersani

Il simbolo della tenda si carica anche di reference e citazioni: «La immagino come una sorta di caverna alla Dark, la serie – spiega Triglia – ma coi risvolti psicologici di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (reference che ho girato alla costumista, Noemi Intino, per realizzare gli outfit delle scene in spiaggia). Il lancio della pizza è un esplicito omaggio a Breaking Bad».

Il tuo ricordo è il secondo videoclip tratto dal nuovo album di Bersani, Cinema Samuele. Titolo evocativo di un disco nato come una colonna sonora: prima gli arrangiamenti dei 10 brani, solo musica, e infine le parole. «La prima risposta al titolo dell’album è in questa canzone – racconta Bersani – la prima che ho scritto e arrangiato come fosse una colonna sonora. Una volta una ragazza mi ha detto qualcosa che mi ha commosso: che le mie canzoni erano dei film per non vedenti. Mentre ti parlo avrò centinaia di dvd davanti a me, il cinema è sempre stato il mio primo interesse». A far cinema però non ci ha pensato mai. Meglio così: il set non è per i nostalgici né per i sentimentali. Molto furore e troppi addii. «Invece mi piacerebbe comporre colonne sonore per il cinema. E proprio in questo disco ci sono due canzoni, Il tuo ricordo e Pixel, che se private delle parole, potrebbero diventarlo».

CREDITS 
Regia, sceneggiatura e montaggio: Giacomo Triglia
Produzione: Borotalco.Tv

La canzone nostra, in esclusiva Mace con il suo nuovo videoclip, feat. Blanco e Salmo

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Esce oggi il videoclip di La canzone nostra, primo estratto dal prossimo album di Mace, Obe. Insieme al producer anche Blanco e Salmo, per un pezzo dal sound ambient-romantic con un video in bianco e nero e l’energia del punk hardcore. Alla regia, ancora una volta gli YouNuts! (Antonio Usbergo e Niccolò Celaia). «Ci lega quest’amicizia in comune con Salmo ma non avevamo mai avuto modo di lavorare insieme» racconta Mace. «Questo è il primo vero videoclip che giro per me». Disc jockey, produttore e beatmaker attivo dal 2002: nella visione creativa di un artista come Mace, quando arriva il videoclip? «Arriva nel momento in cui dici: ok, questa traccia è una bomba che abbiamo tra le mani, deve diventare un video. Ma fosse per me vorrei fare un video per ogni traccia che produco. Sono un amante del videoclip, del cinema e dell’estetica visiva».

Mace in La canzone nostra
Mace in “La canzone nostra”

È Salmo ad avere subito l’idea del videoclip, così come quella di affidarla agli YouNuts! (a cui è legato da una collaborazione ormai storica): «Volevamo citare un video dei primi anni Duemila, I’m so crazy di Par-T-One vs INXS – spiega Mace – Ci sono scene di pogo con corpi seminudi che si toccano. Vederlo in un periodo in cui siamo tutti chiusi in casa con la paura del contagio è ancora più forte».«Salmo ha una capacità incredibile di concepire i suoni e le immagini in parallelo. A me capita più il contrario: quando mi blocco su una composizione musicale apro un film e lo mando in play senza audio: lascio che le immagini ispirino i suoni. Dal concept iniziale di Salmo gli YouNuts! hanno iniziato a tirar fuori altre idee, come quella delle pedane di vetro riprese da sotto. Le sovrapposizioni dei volti mi ricordano moltissimo gli anni Settanta di Ken Russel: hanno mescolato vari linguaggi e hanno spaccato».

la canzone nostra con Salmo
Salmo nel videoclip “La canzone nostra”

Mace, Blanco e Salmo insieme in un brano fatto di contrasti, con un romanticissimo sofferto presente già nel titolo e una base che passa dall’ambient all’elettronica. L’idea è nata a più step. «Stavo scrivendo una composizione ambient strumentale, ispirata a un compositore giapponese anni ’80, un pioniere, Hiroshi Yoshimura». Poi la scoperta di Blanco su Spotify e il colpo di fulmine: «Sono impazzito. Era uno dei migliori artisti che avevo ascoltato in Italia negli ultimi anni. L’ho invitato subito in studio: aveva solo pezzi molto aggressivi con un animo punk e ho voluto provare a decontestualizzarlo, facendolo cantare sulla base strumentale ambient». E alla fine arriva Salmo, che ascolta la traccia di Blanco in studio da Mace: colpo di fulmine anche per lui. «Gli ho detto: beh, allora mettici su una strofa anche tu».

Con un’unica giornata di riprese e una shot list fittissima, il video è stato girato in uno studio di posa a Milano: «Ci serviva un posto così grande da contenere due set, anzi quasi tre – spiega Antonio Usbergo degli YouNuts! – a partire da quello della pioggia e dal limbo per girare le immagini con gli effetti di luce e la scena del vetro. Era importante ottenere un’impressione di vastità».

Blanco in La canzone nostra
Blanco con uno dei registi.

I due registi hanno pensato ogni effetto di luce proprio per dare maggiore risalto al bianco e nero, ereditato dalla reference proposta inizialmente da Salmo, Mace e Blanco: «La canzone nostra richiedeva un video un po’ onirico. Alla scena del pogo abbiamo aggiunto la pioggia, come suggerisce il testo, per renderlo epico e iconico». Per la resa estetica finale, invece, non è stata utilizzata una LUT aggressiva: «Abbiamo girato con dei file flat – spiega Niccolò Celaia degli YouNuts! – Poi abbiamo tolto la saturazione e aumentato un po’ il contrasto ai monitor regia che avevamo sul set per avere un riferimento del look che volevamo raggiungere. Il grosso del lavoro di color è stato fatto da Rosario Balistreri sotto nostre indicazioni».

Riuscitissimi anche i virtuosismi di macchina, realizzati interamente in fase di ripresa, con una testata cartoni Lambda a 3 assi montata su binario: «Abbiamo giocato con dei movimenti in avvicinamento al soggetto mentre facevamo ruotare la camera sull’asse orizzontale. All’inizio eravamo molto in ansia su come ottenere il movimento di rotazione a 360, ma alla fine vedendo i test e parlando con amici e colleghi, abbiamo scelto di farlo così. Ed è venuto molto bene».

Muovendosi su un’energia diversa da quella del sound che racconta, il video di La canzone nostra completa il brano con un’insolita poetica pogata, esaltata da due grandi frontman in scena. Mentre Blanco, appena 17enne, divora lo spazio e si presta a una follia da giovanissimo Joker, Salmo lo accompagna senza mai sovrastarlo, entrando e uscendo insieme ai giochi di luce creati per lui, come un deus ex machina dagli occhi felini. «Sono degli showman pazzeschi – conclude Mace – Anche io mi sono sciolto molto in video per i miei standard: stare accanto a due presenze così istrioniche è contagioso».

Credits
Regia: YouNuts! (Antonio Usbergo e Niccolò Celaia); Produzione: Antonio Giampaolo per Maestro Production; Organizzatore: Lorenzo Bramati; Discografica: Island Records
Foto di scena: Steve B.

Walter Volpatto, il colorist dalla Rai a Christopher Nolan

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Nato a Torino e arrivato nella serie A di Hollywood, Walter Volpatto ha curato la color di quelli che, semplicemente, sono film da Oscar: Green Book, Star Wars, The Hateful Eight, Dunkirk, Interstellar. La sua storia coincide con la nascita della post-produzione digitale e di una figura, quella del colorist, nata letteralmente dall’hardware e maturata in estro artistico, fino al punto da aspirare a un riconoscimento ufficiale agli Oscar. Chiara del Zanno lo ha intervistato su questo bel po’ di cose insieme al DOP Davide Manca.

CDZ: Walter Volpatto, hai lavorato in RAI per dieci anni, poi hai mollato tutto per gli States: un colpo di follia o un colpo di fortuna?

Ho lavorato in RAI a Torino dal 1991 fino al 2000 circa, nel reparto engineering: impianti, strutture, manutenzione, camere. A metà degli anni Novanta i computer, con Internet e i VFX, hanno iniziato a far parte della produzione e io ho iniziato a interessarmi ai visual effects, al compositing, al 3D rendering, al lighting modeling insieme al reparto grafico di Torino. Poi per una serie di vicende nel 2003 sono arrivato negli Stati Uniti come tecnico e ho cominciato a collaborare con i grandi. Per farti capire, per un po’ ho avuto accanto Dan Muscarella, oggi collega e amico, che tra le tante cose è anche il colorist di Titanic. L’ultimo progetto su cui abbiamo lavorato insieme è stato Dunkirk di Christopher Nolan, lui curava la parte di pellicola e io il digitale.

DM: Il girato che ti arriva è sempre così perfetto come lo vediamo noi nei film americani? In Green Book c’è un camera car con tre macchine da presa che riprendono contemporaneamente: livello difficoltà 10. Quanto sta al colorist il risultato finale?

Green Book presentava delle “challenges”. Le riprese sull’auto nelle pianure avevano poco controllo sul sole e sulla meteorologia in generale, Mahershala Ali ha una copertina rossa sulle gambe che crea un rimbalzo di luce sul mento, il suo incarnato scuro da illuminare sul sedile posteriore. Ci ho lavorato parecchio per bilanciare gli shots e rendere l’impressione di un vero viaggio in macchina con una buona soluzione di continuità. Per contrasto, in Star Wars Steve Yedlin, il DOP, ha speso circa dieci anni della sua vita a creare un modello matematico delle stampe: ha una corrispondenza perfetta con ciò che fa con la camera sul set (la LUT l’ha costruita lui!), un budget sostanzioso e gli scenografi e i costumisti migliori al mondo. Mi ricordo di avere guardato uno degli shots della sequenza girata nella sala rossa del trono, poi ho guardato Steve: “Beh, cosa vuoi?”, “Aggiungere un punto di rosso”, ha risposto lui. Okay: click. Quella fotografia è già perfetta. L’unica cosa su cui ho Dovuto lavorare un po’ di più in Star Wars è l’isola in cui Rey va ad allenarsi con la spada laser. È una riserva naturale vicino all’Irlanda, avevano solo due giorni di riprese lì e il sole cambiava un po’ da tutte le parti. Per il resto, fare Star Wars è una passeggiata

Greenbook, color di Walter Volpatto
“Greenbook”, color di Walter Volpatto

CDZ: In una vecchia intervista hai dichiarato: “Se lo spettatore vede ciò che noi colorist stiamo facendo, allora ci siamo spinti troppo oltre”. Oggi la color si spinge spesso oltre, quasi verso un’estetica “instagrammabile”. Da cosa dipende?

Quando gli Impressionisti comparvero sulla scena nella Parigi a fine Ottocento volevano usare il colore per rappresentare un’emozione. Il “filtro di Instagram” e alcune delle coloriture che facciamo noi oggi sono molto impressionistiche, non realistiche. Fino a quindici anni fa noi colorist eravamo costretti nella pellicola, Esteticamente era raro trovare colori innaturali. Quando ce ne siamo liberati, però, abbiamo iniziato a sperimentare. Un film come Matrix oggi sarebbe un gioco da ragazzi. All’epoca le giacche nere sul set erano verdi: ecco spiegata la presenza del verde nelle ombre. Ora non avremmo tinto così tanto in fase di stampa. Oltre a quello che qui chiamiamo “daily love”, l’amore per i giornalieri dal quale regista e DOP si distaccano a fatica, c’è anche un nuovo linguaggio visivo dei social media, dove tutti spingono l’immagine con i filtri al di là del ragionevole. Nel linguaggio del colore, se crei un mondo, possono avere senso anche il giallo o il verdone. Il problema è quando il “filtro” è messo a cavolo solo perché l’ho visto sul cellulare.

CDZ: Il dibattito sul riconoscimento artistico dei colorist agli Oscar è molto acceso e tu ne hai preso parte: perché, secondo te, a questo punto della storia è necessario che l’Academy vi premi?

È un problema di prospettiva. L’Academy, di cui sono diventato membro, riconosce solo chi porta un contributo artistico al progetto. Fino all’invenzione della color correction digitale, il color timer in laboratorio non poteva alterare artisticamente il look di un film. Adesso, però, noi lo facciamo. E aspiriamo a un riconoscimento. Ci rispondono che la nostra coloritura è stabilita del direttore della fotografia. Ok, ma è il regista che chiede una certa fotografia al DOP. Quindi, dove ci fermiamo? The Revenant ha aperto questa scatola dei segreti. Lubezki è un grande cinematographer e non smetterò mai di ribadirlo. Ma quello che vedi nel film non è solo ciò che lui ha ripreso con la camera. Hanno speso quattro mesi in color per lavorare meticolosamente ad ogni shot, i giornalieri sono tutto un altro materiale. Lubezki sostiene di aver girato così sapendo cosa fare poi in color. Va bene, ma, scusate, non è Lubezki ad averci messo le mani. È tutto qui: i direttori della fotografia non vogliono perdere il loro status sulle immagini e riconoscere il contributo artistico dei colorist. Dopo Revenant qualcosa però è cambiato: ora i colorist sono ammessi come membri dell’Academy per il loro contributo artistico.

Beach Bum, il film preferito di Walter Volpatto
“Beach Bum”, il film in cui Walter Volpatto ha dato “il maggior input artistico”

CDZ: Se già esistesse un premio condiviso fra DOP e colorist, tu per quale film saresti stato candidato?

Difficile da dire. Il film in cui negli ultimi anni il mio input artistico è stato maggiore? Forse Beach Bum (di Harmony Korine, 2019). A un certo punto Harmony mi ha detto: “Fammi vedere qualcosa rispetto al feeling che voglio, ti lascio carta bianca. Ogni shot di questo montaggio voglio che sia come un dipinto, lontano dal flow continuo”. Voleva l’impressionismo maggiore che potevo dargli, allora il mio è stato un apporto molto più artistico di Star Wars o Dunkirk, dove ho lavorato su un raffinatissimo match tecnico tra pellicola e digitale.

Leggi l’intervista completa sul nuovo numero di Fabrique du Cinéma

Alain Parroni, un regista tra disegno e realtà virtuale

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Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così il regista Alain Parroni (24 anni), presente all’ultima Settimana della Critica con il suo ultimo corto Adavede, ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato e futuro per lasciare memoria di sé.

[questionIcon]In IOV hai ricostruito il Polo Nord, con Macaroni hai rivisitato il furto della Gioconda per mano di Vincenzo Peruggia: due regie devote all’estetica per poi arrivare a Drudo e Adavede, in cui tutto è giocato su drammaturgia e recitazione. Come mai questa profonda differenza di approccio?

[answerIcon]Quando scrivo una storia inizio contemporaneamente anche a disegnare, sempre con tecniche diverse. È così che prendono forma le mie inquadrature. Ho disegnato Adavede a carboncino, usando solo schizzi grezzi, perché era una storia di graffiti e segni. Al contrario Macaroni ha uno storyboard dettagliatissimo, perché volevo fare “il cinema dei grandi” in una sorta di teatro di posa. La regia è quella, ma lo stile credo debba cambiare in ogni opera. È come per i testi: a volte scrivi una poesia, altre una lettera o un romanzo. Non a caso ogni cortometraggio è stato un atto d’amore nei confronti di una persona, e questo ha richiesto forme d’espressione diverse.

foto dal film IOV di Alain Parroni

[questionIcon]I tuoi lavori nascono da una curiosa fusione di linguaggi: scultura, pittura, grafica, animazione. Stai definendo ancora la tua strada o sogni una sorta di rivoluzione dell’audiovisivo?

[answerIcon]Inizialmente ero accecato, come tutti, dall’amore per il cinema dei maestri. Quindi provavo a fare quello che avevo sempre visto fare agli altri. Poi con Adavede si è accesa la consapevolezza di essere nel Duemila, e in fondo c’è motivo di esistere anche nel 2017: devo dare un senso a questo. Giacometti voleva fare una scultura solo per sotterrarla e lasciarla trovare ai posteri, come testimonianza di un’epoca. Anche io avrò un tempo limitato per definire quello che ho attorno. Quindi sì, è la ricerca e insieme il bisogno di essere testimone del nostro tempo, del nostro cinema. La rivoluzione devi farla per forza.

[questionIcon]La tua idea di set è particolare: come lavori con la tua squadra? Pensi possa funzionare anche con realtà produttive più grandi?

[answerIcon]Con Macaroni ho iniziato occupandomi anche della fotografia, dei costumi, della scenografia. Ma ero circondato da assistenti e ho notato subito che tutti davano una pennellata indispensabile al quadro. Ho voluto mettere nei titoli di testa di Adavede le firme scritte di tutta la troupe: le persone con cui lavoro mi sono accanto già dalle prime allucinazioni; capita addirittura di andare a fare sopralluoghi per qualcosa che nemmeno ho scritto, e magari dalla foto del sopralluogo nasce una scena. Parliamo tantissimo di qualsiasi idea: a volte rimane solo il tormentone di una settimana, altre diventa una sceneggiatura. Herzog è stato un pilastro per me e per i miei colleghi della RUFA, ci ha ispirato nel portare avanti questo modo zingaro di impostare il set. Come adatterò tutto questo al cinema che c’è fuori? È una domanda ricorrente oggi, che mi pongono anche alcuni produttori. Spero di poter coinvolgere il mio team, ma comunque questo è il mio modo di lavorare, non potrei rinunciare al confronto. Se non riuscissi a far innamorare delle mie idee per primo il direttore della fotografia o lo scenografo, come potrei riuscirci con gli spettatori in sala?

foto dal film Macaroni di Alain Parroni

[questionIcon]Tu nasci come disegnatore per poi scoprire la regia. Qual è stato il percorso verso il cinema?

[answerIcon]All’istituto d’arte ho studiato fotografia, grafica e stampa, come incisione su lastra e linoleum. Grazie a un corso di animazione ho scoperto lo storyboard e il montaggio: piano piano ho capito che con tecniche miste potevo fare animazione anche con degli oggetti. Utilizzando una piccola compact ho iniziato a sperimentare e a creare degli ibridi, accorgendomi che mentre disegnavo ero anche costumista, direttore della fotografia, davo voce ai personaggi. Soprattutto la tecnologia mi permetteva di inserire dell’audiovisivo e ottenere effetti più realistici. Questa formula mi faceva impazzire… e all’istituto hanno iniziato a dirmi che quello era cinema.

[questionIcon]Nei tuoi lavori ci sono due motivi ricorrenti: lo “storicamente falso”, con cui ti appropri aggressivamente di grandi icone, e il fascino per l’immagine di repertorio.

[answerIcon]Bataille parla di una parete, nelle grotte di Lascaux, su cui gli uomini hanno disegnato per millenni. Io cerco di fare la stessa cosa, di mettere il mio segno sul muro. Per Macaroni sono riuscito a trovare i contatti dei pronipoti di Peruggia, ho letto tutta la sua corrispondenza con l’Italia. Per IOV ho studiato il materiale conservato nel Museo dell’Aereonautica di Vigna di Valle, una storia epica ma ignorata dai più. Come ognuno di noi, nascendo irrompo nella storia: così, partendo dalla documentazione, a un certo punto inizio a metterci me stesso. Se fossi stato analfabeta e alcolista nel 1900, di fronte a quell’immagine di donna rappresentata dalla Monna Lisa non mi sarei innamorato? Probabilmente sì. Ho sempre avuto il bisogno di proseguire il disegno sulla grotta e tenere vivo il dialogo con la storia.

[questionIcon]Come hai fatto con il tuo progetto di VR, Anywhere at home, presentato nel 2016 al designer canadese Karim Rashid.

[answerIcon]La differenza tra video e foto mi ha sempre messo in discussione. Non ho mai saputo scegliere tra queste due macchine del tempo: tra la potenza della memoria viva e l’altra immobile, fissata per sempre. Poi ho pensato che c’è una tecnologia, la VR, che mi permette di unire la fotografia al cinema, il mezzo più immersivo che esista. Così ho preso delle foto della mia famiglia, a partire da mia madre sedicenne nella sua camera da adolescente. E ancora, mio padre da ragazzo. Fino al loro incontro e alla mia nascita. Sono andato negli stessi luoghi in cui erano state scattate quelle fotografie, realizzandone delle altre a 360 con una situazione di messa in scena che mi aiutasse poi a ricostruire l’ambiente in 3D. Infine ho creato un visore di ceramica, un oggetto di design che si ispirasse alle nostre antiche culture, come contenitore di radici pesante e insieme fragile. Da quando ho visto La jetée ho capito che parlando di cinema parliamo davvero di memoria.

foto dal film Adavede di Alain Parroni

[questionIcon]Per i tuoi prossimi progetti ti stai muovendo in questa direzione?

[answerIcon]Sto scrivendo due lungometraggi per il cinema. Uno sfrutta la VR utilizzando pellicola e tecniche di animazione sperimentale. Stavolta sarà un atto d’amore nei confronti dell’immagine. Quando ho provato la VR per la prima volta è stato spontaneo aggrapparmi alla sedia, tant’era la suggestione di fronte al nuovo mezzo. Penso di aver capito la reazione del pubblico all’arrivo del treno dei Lumière: anche noi ora siamo nella fase dell’intrattenimento, dello stupore. L’altro progetto è pensato per il set: sarà un lavoro collettivo, quel “circo” che tanto mi diverte. Nasce da tutto quello che ho visto finora, un linguaggio iconico e pop, con un’estetica sporca e aggressiva. Vorrei che avesse l’eco di un proiettile audiovisivo.

[questionIcon]E da quale disegno nasce una storia così pop?

[answerIcon]Ho iniziato disegnando un’immagine sacra, poi mi sono accorto che era diventata una macchina scrostata dalla salsedine, con un rossetto rosso sul sedile e dentro Alex, Brenda e Kevin.

 

 

Daniele Barbiero, fra emozioni e matematica

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Dopo il successo internazionale di Mirror”, il 28enne Daniele Barbiero ha dato un’ulteriore prova di saper lavorare con generi diversi, tecniche ed emozioni in Radice di 9, un corto che racconta tutta la voglia di un cambiamento generazionale, mettendo a nudo la verità dei personaggi.

Hai spaziato fra generi molto diversi tra loro: cinema, spot, webserie, videoclip, fashion movie. Credi che questo abbia influito sul modo di pensare il tuo cinema?

Sì e no. È stata una grandissima esperienza di set e di vita, mi ha portato ad avere una forte capacità organizzativa, fino a rendere l’imprevisto un valore aggiunto. Per esempio, in Radice di 9, a causa di un nubifragio, ho perso un intero giorno di lavorazione e me ne rimanevano solo due per girare con tutti gli attori insieme in scena! Non avrei potuto chiudere le inquadrature previste, così ho inventato quel piano sequenza di cinque minuti sul finale. Ho fatto molto aiuto regia, parecchio set e sono così proprio nella vita. Non mi abbatto, tiro fuori nuove idee. Il linguaggio, però, credo di essermelo creato da spettatore. Non ho mai avuto un genere di riferimento, ho sempre amato sentirmi libero.

Daniele Barbiero sul set Il tuo primo vero approccio alla regia cinematografica risale al 2015 con Mirror, vincitore di oltre trenta premi nazionali e internazionali. Un ampio consenso nel circuito festivaliero è un reale trampolino di lancio?

Forse sembrerò cinico e troppo schietto, ma noto un’esaltazione eccessiva nei confronti di questi riconoscimenti, che dovrebbero essere parte di un percorso di crescita più generale. Ho capito con Mirror che i premi non sono mai un punto d’arrivo. Per la prima volta ho affidato tutta la fase di scrittura al mio sceneggiatore, Luca Nicolai, separando i ruoli e cercando di rispettare il testo. Ma poi l’ho sentito talmente mio, mentre lavoravamo con un budget che sfiorava appena i duemila euro e in soli tre giorni di riprese… Avevamo delle idee visive incredibili, tutti insieme con gli altri reparti. È stata una vera associazione, ognuno ha contribuito portando qualcosa sul set. Alla fotografia avevamo Andrea Reitano, appena ventenne, che è stato clamoroso! Mi aspettavo che Mirror sarebbe piaciuto, ma in quell’occasione non ho mai pensato ai premi: è stata un’avventura davvero genuina.

La tua è una regia che tende a riempire l’inquadratura: è una composizione sempre traboccante, ma organizzata con un decoro estetico molto forte.

Ho l’istinto di riempire e sovraccaricare, ma per poi togliere: è così che indago l’evoluzione dei personaggi. Mirror procede per accumulo, finché il protagonista non supera un limite preciso e tutto si svuota: ho rinunciato a qualsiasi vezzo gratuito per mettermi a servizio della storia. Mentre in Radice di 9 ho pensato la regia tutta in funzione degli attori, riflettendo su dove volevo portare i personaggi: ho lavorato per tirare fuori performances piene, affinché ognuno si rivolgesse almeno a uno spettatore e lo toccasse nel profondo.

Daniele Barbiero in una pausa sul setI tuoi personaggi, a un certo punto, urlano.

Non so se si tratti di una casualità, sicuramente vado incontro a uno scoperchiamento. Da una parte, credo che gli sfoghi più belli siano quelli sussurrati. Ad esempio, tutte le parole chiave di Mirror sono dette a fil di voce. Forse uso le urla come contraltare a momenti più intimi e feroci. Sono una persona estremamente schietta, la cosa che più odio sono le maschere. Quindi mi piace portare i miei personaggi a spogliarsi fino alle conseguenze più radicali. Come Matilde Gioli, la sposa di Radice di 9 che, dopo aver urlato, si butta nel vomito. E io la lascio lì a terra. Non c’è immagine più pesante di una sposa sdraiata nel suo vomito.

Radice di 9 è un esperimento per certi versi estremo, con un cast di livello. È esagerato definirlo preludio del tuo primo lungometraggio?

Sono cresciuto molto l’anno precedente con Mirror, ma Radice di 9 è stato un vero banco di prova che mi ha fatto capire di essere pronto. L’idea è nata dal racconto della nostra sceneggiatrice, che ha ricevuto davvero una proposta di ménage à trois. Avevamo in mente un tema generazionale sui trentenni, che mancava da molto, forse da L’ultimo bacio. Quando ci siamo resi conto che il testo stava avendo una forza maggiore del previsto, ho iniziato a proporlo agli agenti degli attori. Ho concluso la sceneggiatura del corto pensando già a Matilda De Angelis. Dopo averla vista in un’anteprima di Veloce come il vento dovevo lavorare con lei! È stata la prima ad accettare con Matilde Gioli.

Daniele Barbiero sul setDa quel momento è stato più facile chiudere il cast con cui ho cercato una produzione. Per fortuna la Maestro ha creduto in noi: così siamo riusciti ad avere anche Francesco Montanari tra i protagonisti. Ho provato sulla mia pelle cosa significhi lavorare con l’attore, creare insieme i personaggi e farli scontrare tra loro, ognuno con la sua verità. Adesso gli attori credono nelle nuove generazioni di registi, vogliono lasciarsi andare. In Italia si rischia poco ormai, però io sto puntando tutto sull’idea che prima o poi le cose cambieranno. E voglio essere parte di quel cambiamento.

Eppure non hai la preoccupazione di doverti affermare come autore.

A pensarci bene, i film che ho preferito negli ultimi anni sono Drive, Whiplash, Mommy, che in effetti sono film d’autore. È quello che mi piace, ma vorrei cercare di fare un cinema popolare e allo stesso tempo di qualità. Nonostante sia giovane, ho una gran desiderio di girare film come questi: gli autori di Stranger Things sono dei trentenni, Xavier Dolan sta lavorando al suo settimo film! E allo stesso modo Scorsese continua a essere immenso. Bisogna stare attenti alle storie e a come vengono raccontate, è tutto qui.

Raccontare con il suono

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Un’azienda che esiste e cresce da oltre quarant’anni, da teatro di posa, a studio di registrazione, doppiaggio e una sala di proiezione di altissima qualità. Marzia dal Fabbro racconta tradizione e innovazione di Sound Art 23, una realtà produttiva al passo coi tempi.

Marzia, Sound Art 23 è stata al passo con la rivoluzione digitale: non solo siete sopravvissuti, ma vi siete consolidati.

Il segreto è conoscere bene il lavoro, e credo che questi anni di esistenza sul mercato siano la nostra forza. Si tratta di un’esperienza che io ho ereditato e che mi ricorda che ci sono dei processi. Dopodiché le macchine, la tecnologia e le innovazioni ti permettono di migliorare quei processi al massimo. La tecnologia da sola non serve, perché magari rischi di fare sette passaggi in più! Per capirci: con il digitale si è più veloci, è vero, ma si rischia anche di fare peggio. Perché la cinematografia italiana ha una storia costruita su tante maestranze, che non va persa. Ad esempio, nel doppiaggio, il fonico vecchio stile si preoccupava molto della posizione del microfono: la distanza, l’angolo, la posizione creano un certo tipo di suono. E a seconda di come è creato, quel suono potrà essere lavorato con questo “mostro” [ indica la consolle Avid S6 accanto] in modo più o meno efficace. Ecco, i vecchi tecnici usavano di più l’orecchio, i nuovi tendono a guardare le ondine del Pro Tools. Ma non posso incidere o missare solo guardando un’onda, devo rapportarmi con quello che vedo sullo schermo, con la fisicità dell’immagine. Questo è veramente un concetto importante per noi, far capire come la profondità di un suono possa emozionare a seconda di quello che creiamo. Quindi missare guardando il film è essenziale.

Nel vostro organico lavorano diverse generazioni di tecnici: questa collaborazione è vincente?

È chiaro che il tecnico più agée ha meno dimestichezza con la tecnologia ultimissima, impara ma non ha la mentalità da computer che hanno i ragazzi. Però il fonico giovane ha veramente molto da imparare proprio sulla creazione del suono nel cinema, sulla possibilità di restituire quella verità, quell’elemento che poi ti emoziona. Le persone, soprattutto i giovani registi, spesso sottovalutano tutto questo.

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Parliamo un po’ della vostra nuova sala proiezione.

Siamo al centro di Roma e abbiamo la fortuna di avere una sala grande: qui abbiamo affiancato le nuove tecnologie, come l’S3 dell’Avid, accanto alla consolle prodotta dalla storica casa inglese AMS-Neve. E quindi parliamo di tecnologia nuova affiancata a una vera consolle digitale, dove passa il suono e non un remote del Pro Tools. Ho scoperto che è una scelta sostenuta anche da molti studi di Londra: noi siamo arrivati a questa soluzione ragionando, abbiamo voluto tenere questa macchina perché mantiene un suono bellissimo. Però abbiamo voluto anche facilitare dei processic, permettere che più persone lavorino contemporaneamente… e allora abbiamo inserito la nuova tecnologia, anziché utilizzare solo dei controller.

Voi puntate molto sul suono: non è una scelta scontata.

No, non è per niente scontata. Puntiamo sul suono perché è la nostra storia, la nostra esperienza e quindi è qualcosa che conosciamo e amiamo, in cui sappiamo di poter fare la differenza… su un film, su un prodotto televisivo ma anche su un cartone animato, su cortometraggi di autori giovanissimi. È uno strumento in più per il regista, è qualcosa che può usare anche per offrire delle dimensioni che magari non è riuscito a creare sul set. Chiaramente per far questo deve essere supportato da un team di persone che possano dargli il suggerimento giusto. “Perché non spostiamo questo effetto sul surround destro e l’altro sul centrale, creando magari uno spiazzamento?”; così anche il suono diventa parte della narrativa.

Impiegare insieme tecnologie tradizionali e ultimissime garantisce un diverso valore?

Senza dubbio la naturalezza del suono. Perché il suono digitale a volte è troppo perfetto da non essere quasi più reale, e in effetti spesso si tende proprio a sporcarlo… è anche un po’ la storia di pellicola e digitale. I filtri della Neve non è che sporchino il suono, ma gli danno naturalmente un valore diverso. Gli inglesi lo definiscono il suono Neve, oppure il suono SSL: sono consolle che creano un suono personale: ti danno naturalezza, morbidezza e verità.

Sul set ormai la figura del fonico di presa diretta è più limitata. Quanto incide sul lavoro di post produzione?

È un problema enorme: bisognerebbe invece puntare sulla formazione dei fonici e dare loro più tempo sul set, perché è tempo che poi si risparmia in post produzione. Premesso che in post devi comunque ricostruire sempre degli effetti e dei rumori, avere suoni e dialoghi già incisi nel loro ambiente originale poi torna sia a livello artistico che di costi, mentre forse si crede che sia più facile il contrario. Prendere il rumore dalle libraries richiede un tempo lungo e si tratta comunque di rumori standard. Avere più materiale da missare invece è un’altra cosa. Anche il resto dell’Europa si lamenta di questo problema, che si verifica perfino su produzioni grandi e soprattutto televisive, dove appunto sul set si lavora in maniera ancora più veloce. E quando alla fine senti che il suono è povero, è terribile.

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Voi vi occupate davvero di tutto, dal videogioco al film, dalla fiction al cinema: come cambiano le dinamiche di lavorazione all’interno dei diversi prodotti audiovisivi?

 Come dicevamo, per il suono del cinema è molto importante quello che ti arriva dal set, e così anche per la televisione. Un cartone animato è un’operazione completamente diversa, anche più creativa, specialmente per quanto riguarda il lavoro dei doppiatori sulle voci dei personaggi… ci vuole una buona dose di fantasia. Nel videogioco è un discorso ancora più esasperato: la registrazione del dialogo è molto asettica, si lavora su frasi spesso scollegate dalle immagini.

Il boom dello streaming, di Netflix e via discorrendo: con il web cambia la modalità di fruizione soprattutto nel caso della serialità internazionale. È l’era della visione veloce e simultanea, del sottotitolo. Che futuro vedi per il doppiaggio?

 Credo che il doppiaggio ci sarà sempre perché comunque è un servizio in più. Soprattutto per alcuni prodotti da consumo bulimico, come i reality televisivi. Ma i cultori delle serie, che preferiscono guardarle sottotitolate, stanno aumentando sempre di più perché credo che la qualità del doppiaggio si sia un po’ abbassata. Un vero peccato, perchè il doppiaggio è davvero un mestiere artigianale in cui noi eravamo e siamo ancora tra i più bravi.

Cannes 2016/ “Il silenzio”, unico italiano in concorso

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Kino produzioni vola sulla Croisette: Il silenzio”, cortometraggio di Ali Asgari e Farnoosh Samadi, è l’unico titolo di produzione italiana in concorso.

A capo della Kino Giovanni Pompili: davanti a sé Il più grande sogno mai sognato, lungometraggio di Michele Vannucci con Alessandro Borghi. Alle spalle un anno di successi, con Quasi eroi di Giovanni Piperno (vincitore del Nastro d’Argento 2016) e Giro di giostra di Massimiliano Davoli (vincitore del premio RAI Cinema a Cortinametraggio), e un’idea precisa di cinema: conoscere il metodo per sovvertirlo, cogliere gli infiniti spunti della realtà e portarli in scena.

Giovanni, trovo che le tematiche affrontate ne Il silenzio e in Quasi eroi favoriscano alcune scelte stilistiche piuttosto coraggiose. Parlami del taglio antropologico che fa da fil rouge a tutte le tue produzioni.

Per me fare questo lavoro è un atto di cittadinanza attiva. Io vengo dal cinema documentaristico: ho iniziato a 22 anni facendo l’assistente operatore, sicuramente aver lavorato nel campo mi ha aiutato. Ho fatto anche delle regie di documentari e ho vinto un premio nel 2011, con un reportage sulla maternità precaria. L’anno precedente avevo diretto e co-prodotto un documentario sulle donne arabe nel Mediterraneo, una sorta di riflessione sui confini. Sicuramente vengo da un approccio molto legato alla realtà.

Questo approccio “politico” svela anche un personale gusto registico. In che modo la tua idea di cinema influenza il tuo lavoro di produttore? Quando consideri valido un progetto?

Distinguiamo innanzitutto la scelta di voler lavorare con degli autori e quella di voler esplorare dei soggetti, anche se ovviamente per me vanno insieme. Per me il soggetto è la realtà che deve essere raccontata. Dopo vent’anni in cui si sono raccontati gli amori borghesi di Prati… basta, raccontiamo quello che è il paese reale, le storie reali. Anche perché, Zavattini lo diceva, la realtà è una miniera d’oro, è stupefacente. In Quasi eroi ad esempio, c’è una scena in cui i protagonisti si baciano in tram mentre un uomo discute al telefono con suo padre, che non riesce a capire qual è il PIN per la banca online… In molti mi hanno chiesto: “Come vi è venuto in mente di scrivere un pezzo del genere? Che genialità”. Ma non è scritto, era vero! Anche il lavoro che abbiamo fatto con il film di Michele Vannucci, che stiamo finendo di montare (Il più grande sogno mai sognato) nasce da una storia vera che viene rimessa in scena. Ambientato in un quartiere di Roma Est, la maggior parte degli attori non erano professionisti e si girava a canovaccio. È stato un approccio molto da cinema d’osservazione. È complesso, perché vivi insieme le difficoltà e le bellezze di un modo di lavorare non tradizionale.

Si sta parlando molto della Kino: da Cannes, Venezia e Berlino, addirittura alla distribuzione in Giappone di Cargo (di Carlo Sironi). Nell’ottica di un cinema impegnato, non hai mai la sensazione di accettare un compromesso? Il consenso di critica a discapito del successo di pubblico?

Pubblico e critica, è una bella domanda. È un cinema politico dal punto di vista di contenuti, di spunti. Il modo di raccontare può avere un successo di critica e non di pubblico, oppure il contrario – vedi Checco Zalone, nemmeno è stato nominato ai David di Donatello! Oppure Guadagnino, che adesso in America ha un’accoglienza di critica molto favorevole, mentre a Venezia lo hanno stroncato. Qui potremmo ragionare per ore: chi rappresenta la critica, che vuol dire cultura?