Favolacce: i bambini ci guardano (e ci giudicano)

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Una fiaba nera come la notte quella firmata da Fabio e Damiano D’Innocenzo con tanto di voce narrante che funge da cornice, colori acidi e sguardo infantile. Dopo aver raccontato l’adolescenza criminale della periferia romana ne La terra dell’abbastanza, i D’Innocenzo si spingono oltre e scandagliano il lato oscuro dei sobborghi residenziali. Quelle raccontate in Favolacce sono famiglie del sottoproletariato uguali a tante altre, disoccupati, venditori, camerieri, che fanno sacrifici per tirare avanti dando ai figli un po’ di quel che meriterebbero, ma il malessere che scorre sotto la superficie troverà il modo di manifestarsi in modo imprevedibile.

A trentun anni, i fratelli D’Innocenzo si avventurano in un territorio impervio che ha visto cadere nomi più illustri ed esperti, ma la visione lucida e coraggiosa dei gemelli romani non teme ostacoli nell’accostarsi all’infanzia con sguardo a tratti partecipe e a tratti distaccato. Il talento di Fabio e Damiano D’Innocenzo si manifesta fin dal casting, perfetto, dei piccoli protagonisti che incarnano bambini solo in apparenza normali, bambini isolati, timidi o smarriti, curiosi di sperimentare e di conoscere ciò che li aspetta nella crescita.

Per gran parte del tempo Favolacce sembra raccontare una quotidianità fatta di piccole cose, incontri, confronti coi genitori, tentativi di socializzazione, prime cotte. La crisi economica rende più duro il quotidiano, ma le famiglie si dimostrano presenti, attente. Elio Germano, Gabriel Montesi e gli altri adulti non nascondono i loro lati grotteschi, la loro loro volgarità intrinseca, che cozza con la purezza dello sguardo infantile e i D’Innocenzo traslano da un punto di vista all’altro in un equilibro che arriverà a incrinarsi nel climax finale.

I D’Innocenzo si distanziano dalla matrice neorealista che caratterizzava la loro opera prima per esplorare quella regione oscura dove reale e surreale si incontrano, ed è da questo scarto che nasce Favolacce. La visione del film risulta ancor più angosciante proprio in virtù del fatto che la storia narrata nel film utilizza strumenti desueti per il cinema italiano. Lo stile visivo dei D’Innocenzo si fa più raffinato e stratificato, con primissimi piani insistiti sui piccoli protagonisti a cui corrisponde una rarefazione della parola. I piccoli osservano muti il degrado degli adulti che invece riversano su di loro un mare di parole (parolacce spesso), in buona fede, ma si dimostrano incapaci di comprenderli fino in fondo. La presenza dell’elemento naturalistico, tipico delle aeree suburbane, unito alla suggestiva fotografia di Paolo Carnera e a un montaggio sapiente creano un’atmosfera straniante e allucinata amplificata dall’uso del silenzio, tanto più assordante man mano che gli adulti aprono gli occhi sulla vera natura dei piccoli fino a toccare con mano l’orrore che si nasconde dietro i loro sguardi dopo che la luce si è spenta.