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Luca Ottocento

“Senza lasciare traccia”

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In un pigro pomeriggio testaccino, Fabrique ha incontrato Gianclaudio Cappai per parlare di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio, in pellicola, dietro la macchina da presa.

Dopo un corto vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un’opera di finzione di trenta minuti presentata nella sezione “Corto Cortissimo” a Venezia (So che c’è un uomo, 2009), Gianclaudio Cappai lavorava da qualche anno alla realizzazione del suo primo lungometraggio. Senza lasciare traccia conferma il talento per la messa in scena del quarantenne regista sardo e si avvale di un cast affiatato e di ottimo livello composto da Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane. Prodotta dalla società fondata nel 2009 dallo stesso regista e sceneggiatore, Hira Film, l’opera prima è ambientata in una località rurale in provincia di Lodi e affronta i tormenti di un giovane uomo che improvvisamente si ritrova immerso nei meandri del proprio passato.

Tutti i tuoi lavori ruotano attorno a traumi che condizionano pesantemente il presente dei protagonisti. Cos’è che ti interessa in questo tema?

In effetti Senza lasciare traccia può essere considerata l’ultima parte di una trilogia che ha come focus proprio quanto hai appena detto. Di sicuro c’è da parte mia l’interesse di indagare il modo in cui la malattia influenza non solo chi ne è affetto, ma anche coloro che gli vivono vicino. Rispetto alle mie due opere precedenti, in questo film ho cercato di focalizzarmi sulla percezione soggettiva del protagonista: Bruno infatti si convince che il suo tumore sia strettamente collegato a un passato traumatico che non ha mai raccontato a nessuno. In fase di scrittura, con la co-sceneggiatrice Lea Tafuri eravamo molto intrigati da questo spunto narrativo, ispirato all’esperienza personale di una nostra amica. Era necessario però inserirlo all’interno di una drammaturgia di finzione e così abbiamo cercato di sviluppare un percorso a ritroso nel passato di Bruno, come fosse una sorta di viaggio esistenziale nell’arco di una sola giornata.

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Proprio a proposito della struttura del film, alcuni passaggi tra le dimensioni del passato e del presente sono molto suggestivi. Era già tutto preventivato in fase di scrittura?

In questo contesto la fase di montaggio è stata fondamentale. In sceneggiatura i flashback erano molto più descrittivi e carichi di informazioni sul passato (era molto più chiaro il rapporto di inquietante complicità tra la bambina e il fuochista, così come il passato di Vera e del padre) e si concentravano nella parte iniziale. Al montaggio poi li abbiamo asciugati e frammentati lungo tutto l’arco del film. Il racconto più dettagliato del passato aveva certamente i suoi punti di forza, ma toglieva mistero ai personaggi ed efficacia allo sviluppo narrativo in termini di coinvolgimento emotivo. Così con Lea e il montatore Alessio Doglione abbiamo scelto di andare in questa direzione confidando nel fatto che sarebbe stato il pubblico, seguendo il percorso di Bruno, a mettere a posto i vari tasselli del puzzle. In tal modo credo che il film sia divenuto più enigmatico, rarefatto e interessante.

Sul piano visivo Senza lasciare traccia ha l’indubbia capacità di creare una costante atmosfera di tensione. Come hai lavorato sulla messa in scena e a che tipo di estetica cinematografica ti sei ispirato?

Dal punto di vista visivo ero alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse la New Hollywood statunitense degli anni Settanta. Il mio punto di riferimento era il cinema di registi come Robert Altman o Michael Cimino. Alcuni tra i loro primi lavori – per Altman penso soprattutto a Images, Il lungo addio e Tre donne – presentano storie molto potenti che fanno leva su una notevole messa in scena, rigorosa ma allo stesso tempo fluida, mobile e soprattutto furtiva. Da questi film per esempio abbiamo preso l’attitudine all’utilizzo di focali lunghissime per le riprese. Adottando uno stile del genere volevo affinare ed esplorare in maggiore profondità una serie di scelte espressive cui avevo già fatto ricorso nei miei precedenti lavori.

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Sei riuscito a produrre il film con la tua società, senza l’aiuto di altri produttori…

Dopo aver rinunciato ad alcuni progetti più costosi a causa del mancato accordo con dei produttori, per questo film avevamo dei punti su cui non transigevamo e che sapevamo avrebbero infastidito i nostri interlocutori: girare fuori Roma per sfruttare le location più adatte, realizzare il film in 16 mm e in non meno di sei settimane. Di conseguenza, occuparci della produzione è divenuta l’unica via ed è stato possibile grazie a finanziamenti provenienti dalla Regione Lombardia e da altri bandi. Trovare i soldi è stato senz’altro complicato, ma in questi casi non è da sottovalutare neppure la difficoltà nell’individuare un arco di tempo in cui il cast artistico su cui si vuole puntare sia disponibile. Può forse sembrare assurdo, ma spesso i film slittano e poi non si fanno più proprio per questo motivo. Appena abbiamo potuto contare sulla disponibilità di tutti gli attori principali siamo partiti con la preparazione del film, anche se avevamo a disposizione meno della metà del budget necessario. Durante la preparazione poi abbiamo continuato parallelamente la ricerca dei fondi. Alla fine è andato tutto bene e questo doppio binario ha funzionato in maniera perfetta.

Hai già in mente quale sarà il tuo prossimo film?

In questi mesi sono ancora impegnato ad accompagnare Senza lasciare traccia in tutte le città in cui viene richiesto. Per ora non riesco a isolarmi per mettermi al lavoro su un nuovo progetto, ma dopo l’estate c’è tutta l’intenzione di farlo. Ho comunque già iniziato a pensare a degli spunti che potrebbero diventare un argomento di discussione con altri sceneggiatori e, in particolare, ho individuato un tema che mi attrae moltissimo. Rispetto all’esperienza fatta con il mio primo lungometraggio vorrei però trovare qualcuno che sostenga il progetto fin dall’inizio. Scrivere un soggetto e una sceneggiatura senza avere già alle spalle un produttore, infatti, crea poi difficoltà inaudite nel far partire la realizzazione del film.

Cannes 2016/ Giovannesi e il “Fiore” dell’innocenza

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Molto apprezzato dal pubblico della Quinzaine, “Fiore” di Claudio Giovannesi è l’ultimo dei sei film italiani presentati alla 69a edizione del Festival di Cannes.

Fin da Fratelli d’Italia, il documentario del 2009 in cui si mostrava la quotidianità di due stranieri e un italiano di origini egiziane che frequentavano la stessa scuola, il cinema di Claudio Giovannesi è quasi sempre incentrato sulla narrazione di adolescenti ai margini. A quattro anni di distanza da Alì ha gli occhi azzurri, in Fiore il 38enne regista romano torna a utilizzare nel contesto del cinema di finzione attori non professionisti (ottime le prove dei protagonisti Daphne Scoccia e Josciua Algeri) e a ispirarsi a vicende reali, apprese da ricerche sul campo.

Questa volta l’intento è raccontare una storia d’amore sui generis. Il punto di vista infatti è quello di Daphne, giovane rapinatrice della periferia capitolina che tira avanti rubando cellulari dopo aver minacciato i malcapitati con un coltello. Finché non viene catturata e si ritrova in un carcere minorile, dove ragazzi e ragazze sono rinchiusi in ali separate con l’assoluto divieto di relazionarsi fra loro. È qui che Daphne incontra Josh, un neodiciottenne milanese cui sono rimasti da scontare ancora due mesi di detenzione. Tra messe domenicali, ore d’aria e segrete corrispondenze epistolari, i due iniziano a conoscersi e si innamorano, arrivando infine a sperare di avere un futuro insieme.

Dopo aver frequentato un carcere minorile di Roma ed essere entrato in contatto con diversi detenuti, Giovannesi si concentra sullo sviluppo dei rapporti che Daphne stabilisce sia con Josh che con il padre (Valerio Mastandrea), reduce da sette anni di prigionia. E lo fa con mirabile delicatezza e senza concedere nulla al sentimentalismo.

Un esempio paradigmatico è legato a un particolare momento del film: dopo aver appreso che può uscire qualora il genitore accetti l’affidamento in custodia, Daphne ascolta con il lettore mp3 Sally di Vasco Rossi. L’accostamento tra le parole della canzone e il primo piano della ragazza felice è assai efficace ed emoziona, eppure il regista decide di interrompere la musica dopo pochi secondi, staccando sulla scena successiva per mandare subito avanti la narrazione. All’insegna di un’essenzialità che è il carattere distintivo della poetica dell’autore.

Con questo ultimo lavoro Giovannesi, da sempre interessato a tratteggiare umanità e innocenza dei propri personaggi senza mai giudicarli, continua a portare avanti un’idea di cinema ben definita, legata a doppio filo alla rappresentazione del reale e all’ardua vita degli ultimi. Un cinema che tiene presente la tradizione del neorealismo, di una certa Nouvelle Vague e la poetica del primo Pasolini (non a caso esplicitamente citato già nel titolo di Alì ha gli occhi azzurri), ma che allo stesso tempo è in grado di proporre uno sguardo personale e sempre più maturo.

Cannes 2016/ I tempi felici per Comodin verranno in futuro

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Presentato come proiezione speciale della Semaine de la Critique, I tempi felici verranno prestodi Alessandro Comodin è un film ostico, a tratti affascinante ma pretenzioso e difficile da decifrare (guarda la clip).

Non è semplice scrivere di un film come I tempi felici verranno presto a caldo, tentando di argomentare in maniera equilibrata un giudizio subito dopo la prima visione. Il regista friulano ha infatti realizzato un’opera seconda certamente ambiziosa e originale, con alcuni motivi di interesse, ma alquanto criptica e tendente a un’autoreferenzialità che si fa via via piuttosto snervante.

Diviso sostanzialmente in tre parti in cui si intrecciano riferimenti fiabeschi, arcaici e simbolico-metaforici, il film per un’ora e quaranta conduce lo spettatore in un mondo a tratti anche intrigante ma davvero difficile da decifrare. Si passa così dalla prima mezz’ora in cui due giovani scappano in un bosco per fuggire da qualche minaccia, alla seconda parte in cui una ragazza parigina si muove sul medesimo sfondo per affrontare meglio un’imprecisata malattia, fino al breve epilogo ambientato in un carcere. In più, tra la prima e la seconda parte, un intermezzo mockumentary che in qualche modo si riallaccia al contesto di una narrazione tanto libera e anticonvenzionale quanto incerta.

Inquadrature lunghe, luci naturali, totale assenza di musica (ad eccezione degli ultimi minuti), pochi dialoghi e trionfo del non detto. Quella proposta da Comodin vorrebbe essere soprattutto un’esperienza sensoriale e alcune sequenze notturne hanno senz’altro un loro fascino sul piano meramente visivo. Il problema però è che si fa davvero tanta fatica a capire cosa il cineasta friuliano voglia comunicare, raccontare e l’empatia con quanto scorre sullo schermo diviene così inevitabilmente – in maniera progressiva – un’irraggiungibile chimera.

Dopo l’apprezzato documentario presentato nel 2011 al Festival di Locarno L’estate di Giacomo, la netta sensazione è che con I tempi felici verranno presto Comodin, nel contesto del cinema di finzione, abbia voluto forzare la mano. Alzando prematuramente l’asticella delle ambizioni, però, ha finito per dare vita a un’opera che, sebbene riveli comunque le buone capacità di messa in scena del proprio autore, è alla resa dei conti pretenziosa e poco riuscita. Per Alessandro Comodin i tempi felici della maturità artistica sono ancora lontani, ma di questo trentaquattrenne cineasta friulano sentiremo comunque parlare ancora.

Cannes 2016/ “La pazza gioia” di Virzì emoziona il festival

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Salutato con un lungo applauso al termine della proiezione, l’ultimo lungometraggio del regista livornese alterna felicemente dramma e commedia e si alimenta delle ottime interpretazioni delle protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti (guarda il trailer).

Più di qualcuno se lo aspettava in concorso e, ora che lo abbiamo visto, possiamo affermare che il film non avrebbe affatto sfigurato in gara per la Palma d’Oro. A ogni modo, visto il livello di quest’anno della Quinzaine des Réalisateurs (tra gli altri, ci sono i lavori di Larraín, Bellocchio, Jodorowski), Paolo Virzì non ha davvero nulla di cui lamentarsi.

Ne La pazza gioia il cinquantaduenne cineasta tratteggia con delicatezza, senza scadere mai in forzature o patetismi, la storia di Beatrice e Donatella, donne con seri problemi psichiatrici che decidono di scappare dalla casa di cura in cui si trovano nella speranza di dare una svolta alla propria esistenza, tornando a provare l’ebbrezza di una vita più libera. Coadiuvato in fase di scrittura dalla regista e sceneggiatrice Francesca Archibugi, Virzì narra il tormentato ma vitale percorso di crescita delle due, così diverse tra loro per storia personale, carattere ed estrazione sociale, con uno sguardo appassionato e coinvolgente che ha il notevole pregio di rifuggire ogni tipo di edulcorazione o banalizzazione.

Come già visto ne La prima cosa bella (2010), quella che ancora oggi può essere considerata la sua opera più profonda e toccante, anche qui l’autore livornese mostra un indiscusso talento nell’alternare i toni della commedia e del dramma. Non rinunciando a un affascinante ed efficace approccio ironico anche nel mettere in scena una storia al fondo così tragica.

La regia come sempre è misurata, essenziale e del tutto estranea a tentazioni di carattere virtuosistico. D’altronde non si può dire che Virzì sia mai stato molto interessato alla ricercatezza formale. Ciò a cui ha dato assoluta priorità, fin all’inizio della propria carriera, è stato infatti lasciare il maggiore spazio possibile agli eventi narrati e agli interpreti. A proposito di questi ultimi, il regista in questa nuova fatica rivela per l’ennesima volta di essere un ottimo direttore di attori: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, nei panni rispettivamente dell’esuberante bipolare Beatrice e della gravemente depressa Donatella, forniscono delle prove particolarmente convincenti, dando forma con umanità alle tensioni emotive che muovono le protagoniste.

Dopo l’inaspettata incursione nel dramma corale con Il capitale umano (2013), Virzì è tornato a un tipo di cinema a lui tradizionalmente più vicino e La pazza gioia si inserisce di diritto tra i suoi lavori migliori, confermandolo tra i registi italiani di maggior valore tra quelli emersi nella metà degli anni Novanta.

Cannes 2016: “L’ultima spiaggia” e quell’occasione mancata

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Proiettato tra i titoli Fuori Concorso della 69a edizione del Festival di Cannes, il documentario del duo composto da Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan parte da un’idea interessante, ma si perde progressivamente per strada.

Dopo l’apertura della Quinzaine con Fai bei sogni di Marco Bellocchio, a Cannes è arrivato il momento de L’ultima spiaggia, il secondo dei sei film italiani attesi quest’anno nel contesto della prestigiosa kermesse francese. La curiosità per questo piccolo documentario, interamente ambientato in una spiaggia triestina dove ancora oggi un muro separa lo spazio dedicato alle donne da quello riservato agli uomini, non era poca (guarda il trailer).

Girato nell’arco di un anno a quattro mani dal greco Thanos Anastopoulos e dall’italiano Davide Del Degan e co-prodotto da Italia, Grecia e Francia, L’ultima spiaggia si propone di mostrare una moltitudine di persone che frequentano giorno dopo giorno il popolare stabilimento balneare di Pedocin (chiamato anche Lanterna) per stimolare una riflessione sulla travagliata storia di Trieste e sui molteplici contrasti interni a un popolo che nel corso dei secoli, così come più specificamente del Novecento, ha conosciuto diverse occupazioni e molteplici influenze socio-culturali.

l'ultimaspiaggia2Per quanto alcune immagini siano senz’altro suggestive (a tratti, come nel caso delle scene subacquee, emerge un buon gusto per la messa in scena) e taluni momenti anche spassosi o stimolanti (una serie di dialoghi tra pensionati al mare, le loro genuine espressioni), il documentario però si perde troppo spesso in aspetti della quotidianità che alla resa dei conti risultano sconnessi tra loro e, di conseguenza, incapaci di far emergere un discorso profondo e strutturato sui vari e complessi temi che si vorrebbero toccare, tra i quali anche quello così attuale connesso alla costituzione di muri e barriere in territorio europeo.

Il più grande problema de L’ultima spiaggia risiede nel fatto che, passando in continuazione da un personaggio all’altro e da una più o meno estemporanea chiacchierata all’altra, non dà mai l’impressione di riuscire a trovare una vera e propria chiave narrativa, un filo rosso che permetta allo spettatore di appassionarsi davvero ai vari personaggi e a quanto scorre sullo schermo. Di certo avrebbe giovato limitare il numero di persone su cui focalizzarsi, con la conseguente più concreta possibilità di porre maggiormente in risalto le singole storie personali e i punti di vista di ognuno. In questo modo, invece, il documentario è condannato a rimanere alla superficie delle cose nonostante la durata di due ore e quindici minuti, decisamente eccessiva.

Se l’idea di partenza era certamente buona e sulla carta avrebbe potuto condurre a sviluppi molto interessanti, la sensazione dominante che si ha alla fine della proiezione è quella di un’occasione mancata.

“Fai bei sogni”: Bellocchio convince di nuovo

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Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Festival di Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs. 

Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di regia da lui curato da diversi anni a Bobbio, era dai tempi di Vincere (2009) che Marco Bellocchio non dirigeva un film davvero convincente e al livello della sua produzione dei primi anni duemila (L’ora di religione, 2002; Buongiorno, notte; 2003; Il regista di matrimoni; 2006).

Gli ultimi due suoi lavori Bella addormentata (2012) e il recente Sangue del mio sangue (2015) infatti, entrambi presentati in concorso al Festival di Venezia, per motivi e in misure differenti non erano risultati riusciti. Se il primo, pur potendo contare su dei buoni momenti, si caratterizzava per uno squilibrio tra le diverse linee narrative, il secondo era stato addirittura una vera e propria delusione, dividendosi in due macro-parti troppo lontane tra loro e in particolare con una seconda metà esplicitamente farsesca ben poco ispirata, forzata e troppo sopra le righe.

Con Fai bei sogni però, a sette anni di distanza dal potente e stilisticamente assai affascinante Vincere, Marco Bellocchio si è ritrovato. E piuttosto sorprendentemente lo ha fatto adattando l’omonimo best-seller autobiografico del 2012 di Massimo Gramellini, in cui il noto giornalista ha raccontato la propria vita e il lungo percorso che lo ha condotto ad affrontare il passato, la perdita della madre avvenuta quando era bambino e la verità su quel traumatico accadimento, scoperta solo in età adulta.

Pur rimanendo fedele al romanzo, il settantaseienne autore bobbiese ha modificato la struttura temporale del racconto originale (il cui cuore è rappresentato da un unico lungo flashback), affidandosi a numerosi salti in avanti e indietro nel tempo al fine di mostrare sul grande schermo i traumi infantili del protagonista e le difficoltà da adulto ad essi connessi con notevole pathos.

La forza di Fai bei sogni sta in primis nel riuscire a mettere in campo, ad ogni istante, uno sguardo sincero e vivo. Tra i momenti del passato in cui Massimo è bambino colpiscono ad esempio alcune immagini attraverso le quali viene restituito con tatto e semplicità il mondo della fanciullezza: il gioco con le dita della mani che simulano il movimento delle gambe a scuola, la raccolta delle molliche con un coltello mentre è a tavola con il padre, i salti sul divano per imitare i tuffi dal trampolino che sta vedendo in tv. Molto intensi sono poi alcuni momenti della vita da adulto, come quelli che lo vedono protagonista insieme alla dottoressa di cui si innamora (si pensi al bizzarro incontro in ospedale dopo l’attacco di panico e alla bella scena in piscina) o nel caso dell’incontro notturno rivelatore con la zia anziana.

In questo contesto, Bellocchio è anche molto abile ad evitare il ricorso a ogni tipo di retorica. Persino uno dei momenti da questo punto di vista più a rischio, in cui Piera Degli Esposti appare in un cameo, viene infine stemperato da una efficace battuta in grado di conferire alla scena un tono ironico e completamente diverso rispetto a quanto ci si potesse aspettare.

Nonostante alcuni passaggi narrativi possano risultare un po’ troppo veloci e non particolarmente approfonditi, dunque, Fai bei sogni non ha mai cali di ritmo per le oltre due ore di durata, si avvale di un ottimo cast (dal giovanissimo Nicolò Cabras a Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, passando per Guido Caprino e Barbara Ronchi) e rappresenta un convincente ritorno dietro la macchina da presa per uno dei registi più importanti del panorama cinematografico italiano.

“Jeeg Robot”: il cinema di genere risorge e combatte

Il romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso un po’ tutti.

In l’Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a seconda dei casi, sono troppo spesso molto simili tra loro. In questo contesto, dopo il fortunato caso del 2014 di Smetto quando voglio (trovate l’intervista a Sibilia nel numero 6 di Fabrique), Lo chiamavano Jeeg Robot rappresenta un altro importante elemento di discontinuità. Al suo primo lavoro dietro la macchina da presa, infatti, Gabriele Mainetti ha realizzato un film di supereroi molto sui generis ambientato in una Tor Bella Monaca dominata dalla malavita. L’operazione è coraggiosa e risulta strettamente legata alla poetica portata avanti dal regista sin dai pluripremiati cortometraggi Basette (2006) e Tiger Boy (2012) . Con Gabriele, in passato anche attore per il cinema e per la televisione, abbiamo parlato della particolarità del suo progetto, delle sue passioni cinematografiche e di molto altro ancora.

 Come nasce l’idea alla base di Lo chiamavano Jeeg Robot e qual è il legame, per alcuni aspetti molto evidente, con i tuoi lavori precedenti da regista?

La mia collaborazione con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone va avanti da diverso tempo. Lui infatti, prima di scrivere insieme a Menotti Jeeg, si era occupato del soggetto e della sceneggiatura sia di Basette che di Tiger Boy. Entrambi siamo cresciuti con Bim Bum Bam, che è stato per noi una sorta di baby sitter, e ci piace spesso far riferimento al mondo dell’anime giapponese perché è come se ci offrisse l’opportunità di entrare di nuovo in contatto con i miti della nostra infanzia. Fin dai corti è nata così una formula che consiste nel contaminare la realtà quotidiana romana con l’immaginario e i protagonisti di alcuni anime molto noti. In Jeeg però abbiamo introdotto per la prima volta l’elemento “supereroico” (il Lupin di Basette e l’Uomo Tigre di Tiger Boy non lo erano): in questo modo abbiamo voluto proporre la nostra personale visione di un filone cinematografico con il quale gli americani negli ultimi anni ci stanno in qualche modo lobotomizzando.

Il protagonista del tuo film in effetti è molto diverso dai supereroi che siamo abituati a vedere nel cinema statunitense. In che modo se ne differenzia?

Enzo Ceccotti, oltre a essere associato a Jeeg Robot esclusivamente dalla fantasia della protagonista femminile Alessia (non a caso indosserà la maschera del supereroe, fatta a maglia, solo nel finale), non vuole aiutare gli altri perché li detesta. È un delinquente di periferia che decide di accettare le responsabilità legate ai propri poteri dopo un lungo arco di trasformazione, grazie allo svilupparsi del rapporto con lei. Stiamo quindi parlando di tutto un altro contesto rispetto a quello di celebri supereroi come Batman, Superman o Spiderman.

Uno degli elementi in assoluto più riusciti del film è l’alternanza dei toni drammatici e comici. In alcuni momenti i passaggi sono anche repentini ma, grazie all’apporto della sceneggiatura, della regia e delle interpretazioni, funzionano sempre.

In effetti quella di fondere i registri della commedia e del dramma è un’idea che ho sempre perseguito. Per raggiungere il risultato che si vede nel film è stato fondamentale il lavoro sui personaggi. Affinché tutto funzioni è molto importante che risultino veri, anche nel caso abbiano tratti marcatamente surreali o fantasiosi. All’inizio ero preoccupato dal dover trovare il giusto equilibrio tra i due toni, ma poi tutto si è risolto ancorandomi alla semplicità della storia e alla verità dei personaggi. Gli attori hanno svolto un ruolo essenziale, in particolare i tre straordinari interpreti Claudio Santamaria, Luca Marinelli e l’esordiente Ilenia Pastorelli. Abbiamo lavorato davvero tanto insieme per ottenere quello che cercavamo. Claudio è un attore incredibile, oltre che un mio grandissimo amico, e ha preso venti chili per interpretare un personaggio che gli ha pemesso di fare qualcosa di completamente diverso. Luca, più di ogni altra cosa, mi ha sorpreso per la capacità di far evolvere in continuazione il personaggio, anche sul set. Ilenia invece, pur non avendo mai recitato prima, ha dimostrato uno straordinario talento naturale sul quale poter continuare a lavorare.

In altre occasioni hai affermato di essere interessato al cinema di intrattenimento e di genere più che a quello squisitamente d’autore. Ci puoi chiarire il tuo pensiero a riguardo?

Alla base, la mia è una concezione del cinema come intrattenimento. Non ho nulla contro il cinema d’autore, anzi, ma non condivido l’atteggiamento di chi parte con l’idea di fare film d’autore. A mio avviso il vero autore, prima che qualcuno glielo faccia notare, non è neppure consapevole di esserlo. Personalmente non nutro particolari ambizioni di far riflettere lo spettatore. Quello che mi interessa è giocare con la commistione di più generi tentando di essere sensibile al contemporaneo, al mondo che ci circonda. Vedo quindi il genere come uno strumento con il quale raccontare la contemporaneità.

Qual è il cinema a cui ti senti più vicino? Le tue principali ispirazioni cinematografiche?

Da piccolo guardavo a ripetizione, insieme a mio padre, i film di Indiana Jones, 007 e quelli di Monicelli come L’armata Brancaleone, I soliti ignoti, Il marchese del Grillo e Amici miei. Poi, nel momento in cui ho iniziato a studiare storia e critica del cinema all’università, ho cominciato ad avere una conoscenza più ampia della settima arte. In più ho senz’altro una passione sfrenata per il cinema asiatico e, in particolare, per il cinema di Takashi Miike, Takeshi Kitano e Park Chan-wook. Se di Miike mi diverte molto la modalità di messa in scena della violenza e Kitano in qualche modo mi ha proprio educato al cinema, Old Boy di Park Chan-wook è forse il mio film preferito in assoluto. Amo lo sguardo proposto dal cinema asiatico, contraddistinto da una messa in scena potente ed elegante, e la capacità di questi film di essere drammatici e comici allo stesso tempo.

Hai già qualche idea sul tuo prossimo progetto?

Sicuramente voglio continuare a lavorare sulla contaminazione di diversi generi. Attualmente ho due soggetti già pronti e un soggetto in via di sviluppo. Ne ho già parlato con alcuni possibili collaboratori e co-produttori. Una volta che tornerò con i piedi per terra dopo l’incredibile accoglienza ricevuta per Jeeg, sceglierò il progetto dei tre che mi stimolerà di più, anche se dovesse trattarsi di una cosa piccola e semplice.

Non è un paese per onesti

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Al suo terzo film dopo “Circuito chiuso” (in cui si rifaceva al filone found footage) e il thriller “The Stalker”, Giorgio Amato cambia registro proponendo una caustica e disincantata black comedy.

Nel suo nuovo lavoro il regista milanese narra con tragica ironia e buon senso del ritmo la storia di un imprenditore in crisi che, per evitare la bancarotta della propria società, invita un ministro a cena in casa propria per corromperlo e ottenere un ricco appalto.

Quello che emerge da Il ministro è un microcosmo popolato da personaggi infimi e cinici il cui unico orizzonte è rappresentato dal proprio tornaconto. Persino i rapporti familiari si rivelano un coacervo di indicibili bassezze e non c’è davvero nessuno che si riesca a salvare. In un simile contesto, va da sé che non possa essere contemplato alcun tipo di redenzione. O meglio, come ha affermato Giorgio Amato durante la nostra intervista «la sola possibile redenzione non è legata a un’evoluzione dei personaggi, bensì alla fine che fanno».

Ma andiamo con ordine e, attraverso le parole dell’autore, scopriamo qualcosa in più su questo audace piccolo film indipendente e a bassissimo budget.

 Qual è stato lo spunto dal quale sei partito?

La scintilla iniziale è stata la ballata di Fabrizio De André Il re fa rullare i tamburi, un brano non molto conosciuto della sua discografia in cui si riprende un testo medioevale per raccontare il dramma di un marchese che cede la moglie al sovrano per obbedienza e opportunismo. Una canzone molto triste che mi ha fatto riflettere su come oggi le cose non siano cambiate granché. Certo, magari non si è disposti a tutto per un titolo nobiliare, ma per qualcosa come un appalto che ti può risolvere la vita sì. Quando pensavo ai miei personaggi avevo sempre in mente l’intercettazione di quei due imprenditori che ridevano dopo il terremoto dell’Aquila. Persone prive di coscienza che non si fermano davanti a niente e che sono disposte a tramutare qualsiasi tragedia in oro.

Il film ha un ritmo incalzante e stimola in maniera costante l’interesse dello spettatore, nonostante sia quasi esclusivamente girato all’interno di un appartamento e nell’arco di una sola notte. Come hai lavorato sulla scrittura per ottenere questo risultato?

Fin dall’inizio ho pensato a tutta una serie di elementi narrativi che mi portassero a creare una tensione che potesse poi condurre i vari personaggi a un punto di rottura. A questo scopo ho cercato di lavorare molto sulle contrapposizioni e così ho delineato ad esempio l’imprenditore e la moglie come due figure agli antipodi, il conflitto tra lui e il cognato o la ballerina di burlesque. Quest’ultima in particolare, ambigua e imprevedibile, poneva sul piano narrativo le condizioni affinché la serata potesse andare diversamente dai piani dell’imprenditore.

In tutto questo contesto l’apporto degli attori è stato senz’altro fondamentale…

Assolutamente. Questo è un film in primis di sceneggiatura e di interpretazioni, tant’è che dal punto di vista registico mi sono voluto ridurre al minimo lasciando spazio agli attori. Gianmarco Tognazzi è stato per me una grande scoperta e credo sia uno degli attori più sottovalutati del panorama cinematografico italiano. Con lui abbiamo lavorato insieme su ogni minimo dettaglio. Alessia Barela invece è arrivata sul set all’ultimo momento per sostituire un’altra attrice ed è stata estremamente disponibile e ricettiva rispetto alla mie indicazioni, così come Edoardo Pesce e Jun Ichikawa, la quale si è dimostrata bravissima ad adottare diversi registri recitativi in base al personaggio con cui doveva interagire. Con Fortunato Cerlino infine abbiamo lavorato molto a livello di preparazione ed è stato molto propositivo, chiedendomi di apportare delle modifiche al personaggio.

Determinati temi e approcci rimandano chiaramente a un certo tipo di commedia all’italiana. Ti sei ispirato a qualche film in particolare?

Mentre scrivevo ho cercato di tenere bene a mente la lezione di registi come Mario Monicelli e Dino Risi, che riuscivano a raccontare uno spaccato della nostra società attraverso personaggi che ben la rappresentavano. Sono partito nello specifico da I mostri di Risi, di cui mi è sempre rimasto impresso il primo episodio in cui Ugo Tognazzi offre al figlio quella celebre lezione di diseducazione civica. Mi piaceva l’idea che quel bambino, allora interpretato da Ricky Tognazzi, potesse essere nel frattempo cresciuto diventando l’imprenditore interpretato nel mio film da Gianmarco Tognazzi.

Quanto è difficile fare un film indipendente in Italia? Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato?

La cosa più complicata è legata all’organizzazione, perché non puoi permetterti di pensare soltanto alle riprese, a come posizionare la macchina da presa o al rapporto con gli attori, ma devi tenere un po’ tutto sotto controllo. In questo film tra le altre cose mi sono dovuto occupare anche del carico dei materiali come degli accordi con il catering, oltre che della gestione del budget in quanto produttore esecutivo. Alla fine però quello che conta davvero è avere le idee chiare quando si arriva sul set. Chissà, magari avere più budget non mi avrebbe consentito di essere così concentrato e fare le cose nel modo in cui le ho fatte.

 

Michael Jackson è tornato. A Taranto

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Dopo una candidatura ai Globi d’oro del 2009 con Il cappellino e la vittoria nel 2012 del Nastro d’argento per Stand by me, nel 2013 il regista e sceneggiatore Giuseppe Marco Albano ha girato Una domenica notte, il suo primo lungometraggio. Qualche mese fa, grazie a Thriller, si è invece aggiudicato il David di Donatello per il miglior cortometraggio.

Come è nata l’idea di raccontare la storia di un quattordicenne con il sogno di diventare famoso ballando come Michael Jackson, sullo sfondo della questione dell’Ilva di Taranto?

Fin da piccolo Michael Jackson è stato uno dei miei idoli e ho sempre pensato che un giorno avrei potuto raccontare una storia che in qualche modo lo riguardasse. Da anni inoltre avevo il desiderio di girare a Taranto, una città bellissima che conosco bene perché vicina al paese dove sono cresciuto e tuttora vivo. Nel periodo in cui si è iniziato a parlare della drammatica situazione dell’Ilva, ho immaginato fosse interessante collegare questo aspetto alla vicenda di un fan di Michael Jackson in attesa di partecipare a un talent show. Una volta buttato giù il soggetto, ho scritto la sceneggiatura con Francesco Niccolai e così, dal mio amore per Taranto e per Michael Jackson, è venuto fuori Thriller.

Thriller privilegia l’interesse per una tematica sociale attraverso un approccio improntato alla commedia. Quali sono, da questo punto di vista, le tue ispirazioni?

Ho studiato e amo follemente grandi autori come Fellini, Bertolucci e Truffaut, però i miei modelli sono altri. Ho scoperto la settima arte con i film di Castellano e Pipolo, Sergio Corbucci, Steno, così come con le pellicole che vedevano protagonisti Bud Spencer e Terence Hill o Enrico Montesano. Poi ho conosciuto Johnny Stecchino e Il mostro di Benigni. In generale, mi affascina quel tipo di cinema capace di affrontare importanti temi sociali con la leggerezza tipica di noi italiani, permettendoci di essere profondi pur non virando necessariamente verso il dramma vero e proprio.

Tutti i tuoi corti si concludono con dei finali surreali e, in una certa misura, sospesi. A cosa è dovuta questa scelta?

In effetti si tratta di una struttura che continuo a sviluppare nel corso del tempo. In ogni mio lavoro sono presenti la componente onirica e un doppio finale. Thriller ad esempio sarebbe potuto finire nel momento in cui il protagonista va a ballare davanti all’Ilva interrompendo la manifestazione. Invece, citando il celebre videoclip di Michael Jackson diretto da John Landis, ho scelto di aggiungere la scena in cui il ragazzino danza con gli operai trasformatisi in zombi. Spesso per l’ideazione e lo sviluppo di un progetto mi capita di trarre ispirazione dai miei sogni ed è per questo che i miei lavori hanno sempre degli aspetti fantastici e surreali.

A cosa ti stai dedicando ora?

Insieme a Dario D’Amato e Angela Giammatteo sto scrivendo un lungometraggio che spero di dirigere il prossimo anno. È una commedia che si concentra su tematiche sociali forti attraverso la rappresentazione del mondo degli anziani. Si chiama Vedi Napoli e poi muori e attualmente stiamo dialogando con diverse produzioni italiane interessate, alla ricerca di una soluzione che mi permetta di fare il film come lo intendo io, senza doverne stravolgere la storia.

L’amore davanti al “Monitor”

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Presentato con successo alla Festa del Cinema di Roma (sezione Alice nella città/Panorama) “Monitor” è un’opera affascinante che segna l’esordio nel lungometraggio di Alessio Lauria, prodotta da Rai Cinema e Tea Time Film con un budget di 200.000 euro. 

Noi di Fabrique lo avevamo già intervistato a proposito del divertentissimo corto Sotto casa, divenuto un piccolo cult sul web con la sua storia di un uomo in estasi per aver trovato parcheggio davanti al portone del proprio palazzo. A pochi anni di distanza Alessio Lauria ha girato Monitor, un’atipica love story ambientata in un mondo distopico, solo apparentemente perfetto, in cui i dipendenti di una multinazionale sfogano ansie e frustrazioni a dei monitor, persone che li ascoltano da dietro un muro senza conoscerne l’identità e hanno il compito di stilare relazioni per l’azienda. Il risultato è un’opera prima per molti versi coraggiosa, inventiva e ottimamente realizzata.

Una delle cose migliori di Monitor sono le interpretazioni di tutti gli attori, in primis dei protagonisti Michele Alhaique e Valeria Bilello. Qual è stata la tua esperienza con loro?

Michele è stato fin dall’inizio la prima scelta mia e di Manuela Pinetti, tanto che abbiamo scritto la sceneggiatura pensando al suo volto. Nonostante avesse un range abbastanza ristretto di emozioni entro cui poter spaziare, è riuscito a rendere con efficacia l’evoluzione di un personaggio che pur cambiando non si snatura mai. Valeria Bilello invece mi era piaciuta molto in Happy Family di Salvatores e fin da subito si è dimostrata una persona estremamente intelligente e ricettiva. C’è stata un’affinità immediata tra noi e anche lei, come Michele, è stata bravissima nel non andare mai sopra le righe, giocando con microespressioni e microtoni.

Così come le interpretazioni e la sceneggiatura, composta da dialoghi asciutti, anche la regia si caratterizza per un’essenzialità priva di virtuosismi.

Il mio gusto personale è legato all’essenzialità e alla sobrietà. Sono convinto che se si usano i movimenti di macchina solo se funzionali a un particolare momento del racconto acquistano un valore aggiunto e si possono apprezzare di più. Nel contesto di un film low budget come il nostro non ci sarebbe comunque stato modo di dedicarsi a elaborati movimenti di macchina, che avrebbero richiesto molto tempo e una grossa organizzazione. In questo caso, quindi, la scelta di una regia essenziale si è dimostrata a tutti gli effetti la più adeguata.

Non capita spesso di riuscire a girare un lungo avendo alle spalle un solo corto. Come ci sei riuscito?

Entrambi i miei lavori sono stati realizzati grazie al Premio Solinas. Sotto casa è nato nel contesto del concorso “Talenti in Corto” ed ha avuto molta fortuna. Nello stesso anno, il 2011, ho vinto anche il concorso “Solinas Experimenta” e così poco dopo ho avuto l’opportunità di iniziare a lavorare a Monitor. Per tutto il processo di scrittura e di realizzazione del film il Solinas mi ha messo a disposizione tutor molto preparati e da loro ho imparato davvero tanto.