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Brava che sei, in esclusiva il nuovo video di Sergio Andrei

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Incontrare Sergio Andrei è come incontrare un vecchio amico. Lo è per me come lo è per Fabrique du Cinéma. Avevamo già avuto il piacere di conoscerlo qualche tempo fa, dal palco di India Estate, in una delle serate più riuscite della nostra rivista.

Ne è passato di tempo dall’ultima volta, e di cose nel mondo ne sono successe, eppure lo ritrovo con uno spirito rinnovato e ancora quel bisogno di esprimersi, non solo attraverso la sua musica e i suoi testi, ma anche attraverso tutto il corollario, tutto il bagaglio indispensabile di un artista del nuovo millennio. Sergio è le sue canzoni, il suo stile di vestire, un po’ street un po’ retrò, lo puoi riconoscere nei suoi profili social, nelle sue comparsate su Twitch, ma soprattutto nei suoi videoclip.

Questa è l’occasione per la quale ci incrociamo di nuovo, l’uscita del nuovo singolo Brava che sei della settimana scorsa anticipa la presentazione del nuovo video, che siamo orgogliosi di offrirvi in esclusiva sul nostro sito.

Il video di Brava che sei è molto cinematografico, come tutte le altre produzioni di Sergio, un po’ per scelta stilistica, un po’ per amicizia, perché quello è il mondo che si porta dietro, fatto di compagni di avventura, soci, amici di vecchia data e professionisti che hanno sposato il progetto di un cantautore giovane e pieno di vita.

Brava che sei è una storia di violenza, di incompatibilità, di incomprensione, di distanze, tutte parole che Sergio mi recita in un arzigogolo di emozioni scomposte e ricostruite nelle scene di una rissa, in un paesaggio urbano e western, che richiama una famosa scena di Peaky Blinders e la mescola con gli hooligans d’oltremanica, con i manifestanti nostrani, con i volti di una gioventù che confonde amore e guerra e nel farlo produce una smorfia brutta.

La canzone parla d’amore e di vuoti da colmare, abissi umani in cui ci si perde, relazioni che si incancreniscono dentro a contesti malati, alle suggestioni del nostro tempo, ai palcoscenici in cui recitiamo le nostre vite. Sergio mi racconta il video di Brava che sei a modo suo, del perché ha voluto ingigantire tutto e tradurlo in violenza, metterla come sfondo di un racconto in cui una ragazza e un ragazzo, lui stesso, non si capiscono, in uno scontro tra mille persone e l’intromissione intima di capelli a caschetto e un paio di occhi chiari. Parole che parlano di scelte, scene che mostrano conseguenze. Occhi che si rincorrono, occhi che guardano nel vuoto e si perdono, come le vite che ci sfuggono tra le dita.

Brava che sei di Sergio Andrei

E pensare che il video era lì, in cantiere da più di un anno, così come la canzone, che doveva uscire una settimana prima del lockdown. Invece il mondo si è fermato tutto d’un tratto e si sono arrestati i progetti di un album, si è interrotta la musica che era pronta a suonare, le scene girate in cui decine di ragazzi si sfidano e poi si scontrano, si colpiscono, si toccano, si mischiano l’uno sull’altro. E per un anno è sembrato tutto così strano, così distante, così di colpo improponibile, anacronistico. Oggi Sergio decide di tirarlo fuori dal passato e dal cilindro, fresco come il futuro che ci auguriamo e violento come la distanza che vogliamo mettere con il recente passato. Uno squarcio dal mondo che era rimasto in pausa, un calcio in petto al futuro.

Sergio mi racconta dei nuovi progetti, del prossimo singolo, del video da far uscire a settembre, di nuove storie, di strada da percorrere e una vita, quella di tutti noi, da riprendere in mano. Forse è il momento giusto, intanto ci gustiamo un piccolo gioiello fatto di video e musica.

Credits

Con: Gelsomina Pascucci  

Regia: Ludovico Pascoli

Direttore della fotografia: Mattia Cursi

Operatore: Simone Mastronardi

Aiuto Regia: Andrea Di Giusto

Direttore Artistico: Giovanni Lo Castro

Organizzazione: Lorenzo Calderale

Fotografie e video Backstage: Giacomo Frisenda

L’amore secondo i Thegiornalisti, Volume Secondo

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Mettiamoci l’anima in pace, i Thegiornalisti (di cui abbiamo parlato anche qui) non torneranno quelli di Vol.1 e probabilmente neanche quelli di Fuori Campo. Tommaso Paradiso è un personaggio mondano e non più il filosofo da bar che aleggia malinconico nel quartiere. Ha cambiato faccia, è diverso in tutto, maledetto tempo, maledetto mostro. Mettiamoci l’anima in pace, i Thegiornalisti sono questi, assuefatti d’amore e di successo, vogliosi di raccontare una vita di coppia, cane e casa al mare, vogliosi di raccontare che è proprio bello così. E noi lo dobbiamo accettare, forse siamo noi quelli che non sono cresciuti, quelli che sono rimasti indietro. A caccia di un piccolo amore lontano.

Invece al PalaLottomatica l’amore è enorme ed ha le fattezze di una scritta LOVE che si gonfia sul fondo del palco, e giganteggia sulla band e sui capelli impomatati, sugli occhiali da sole e il magliettone nero. Loro sono i Thegiornalisti Volume 2, quelli che l’hanno trovato l’amore, in un tour tutto esaurito lungo l’Italia intera, nelle radio che ti mitragliano con ogni hit, di televisioni che si litigano il bel faccione barbuto di Tommy, ormai uno di casa anche per le signore e le teenager. E noi che eravamo i ragazzini che ascoltavano la musica indie di gruppetti sconosciuti e senza senso del ritmo, adesso siamo diventati gli attempati nostalgici.

E ci tocca accettarlo, ma lo accettiamo cantando a memoria anche «New York» e «Zero Stare Sereno», accontentandoci dei soli quattro pezzi in scaletta che non provengono dagli ultimi due album. Il palazzetto però è stracolmo e sembra non accorgersi che mancano «Mare Balotelli», «L’importanza del cielo» o per i fan più longevi «Autostrade Umane», «E allora viva!» e «E Menomale», pare non importi perché tutti cantano con convinzione, persino la discutibile «Riccione» è, al riscontro oggettivo, un successo di entusiasmo e di pubblico.

thegiornalisti

Tommaso ci sa fare, anche questo è innegabile, gira sul palco con navigata autorevolezza, rimbalza tra i componenti della band e tra gli strumenti, palleggia tra chitarra e piano, gioca col pubblico, chiacchiera, stuzzica, risponde e zittisce, fa il pieno di applauso e di calore. Ogni tanto sbircia il grande schermo alle sue spalle che partecipa attivamente allo show e ad ogni canzone, in un crescendo anni ’80 che ormai è nel DNA della band, compreso lo sdoganamento delle luci al neon, con insegne eighties che si avvicendano alle sue spalle e che per noi sono un pugno nell’occhio, che le odiamo ancora tanto, ma forse non abbastanza se ripensiamo commossi alla lampada abat-jour ed alla meravigliosa «Per Lei», altra grande assente di serata.

Ma se riuscissimo per un attimo a mettere da parte nostalgia e vecchiaie allora potremmo affermare che qualcosa di buono, in fondo, è rimasto, non siamo qui per negarlo. La capacità di colpire, il timbro sempre più marcato di una band che ha il suo stile e la sua impronta, i ritornelli, l’orecchiabilità, la familiarità, l’estate, il rumore delle onde, il ristorantino. Tommaso Paradiso è un icona pop, diventando un po’ la parodia di se stesso, quasi a prendersi in giro da solo quando canta di «una cena spaziale dopo una corsa totale» dove sembra citare la geniale pagina Facebook «Tommaso Paradigma», in un concentrato di sentimentalismi esasperati, nei quali però crede fortemente, parla con i personaggi delle serie tv e non si vergogna di mettere in musica l’appellativo love, da coppietta liceale, e gli va bene così, tra l’ingenuità di Verdone e l’impudenza di De Sica.

thegiornalisti

Che poi, comunque, in mezzo a tutto ciò, riesce anche ad inserirci la dedica d’amore più profonda e riuscita del nuovo millennio, perché non potrà esserci niente di più sentito e profondo di un «sei la Nazionale del 2006», ed essere paragonati alla più grande felicità che ha accomunato una generazione, dentro casa col vestito da sposa. I tempi delle questioni di letto e di sigarette fino alle sette sono finiti, anche quelli di «Promiscuità» che è ancora bello sentire come un diamante raro in qualunque scaletta, eravamo dieci adesso siamo migliaia, ma il gusto ci sembra lo stesso.

«L’ultimo giorno della terra» in versione live dà il suo meglio e anticipa la parte finale della scaletta con tutte le hit degli ultimi anni, prima di un’insolita chiusura morbida ed intimista, con il pianoforte di «Dr.House» a scandire i minuti conclusivi del concerto ed uno scrosciare di applausi convinti e meritati.

Mettiamoci l’anima in pace, i Thegiornalisti sono cambiati e forse è giusto così, perché se Tommaso Paradiso cantasse ancora che sotto al suo palazzo è tutto uguale, si autopredicasse di dare tempo al tempo, e suonasse filosofie di cieli e bar e amori rifiutati, beh forse sarebbe ancor più parodistico, sarebbe una menzogna protratta, un vino annacquato. Mettiamoci l’anima in pace, i Thegiornalisti sono questi e forse è meglio così.

Frah Quintale: un campionario incredibile di storie a colori

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Gemello abbandona la scena con ancora addosso il suo naturale carico di elettricità. La sala dell’Italian Attitude Stage vive una stasi di passaggio, ancora più piena di prima con l’aria che si fa più canicolare, movimenti intorno al bar, folla accalcata sotto al palco, quando l’orologio annuncia l’una di notte ed il pezzo forte di giornata si fa attendere. Luci vermiglia, riflessi indaco, fari che orbitano sul vapore umano, sul calore ansante di migliaia di respiri congiunti, prima che appaia una testa tonda, una papalina anni ’90, un camicione largo a maniche corte ed una presenza a metà tra Giuliano Sangiorgi e Space One, il pubblico grida, i cellulari si alzano al furore di un concerto che deve ancora iniziare.

Frah Quintale è sul palco e attacca subito con uno dei suoi pezzi più riusciti, ma è il microfono a fare le bizze e la sua voce si perde in mezzo ai suoni dei suoi orchestrali ed al coro di tutti i presenti, ma è un peccato e lo percepiscono tutti, così una volta terminata la musica il buon Frah ricomincia, a cappella, trascina il suo pubblico e ricomincia da capo, con i suoi otto miliardi di persone e nessuna voglia di tornare a casa. I pezzi da fare sono tanti, adesso che il microfono funziona bene, adesso che l’ambiente si fa ancora più caldo, tra la pioggerella che punzecchia la strada all’esterno ed il sudore che puntella le fronti all’interno. Una dopo l’altra le canzoni si accavallano ed è quasi una sorpresa rendersi conto di come siano tutte giuste, una dopo l’altra sembrano una selezione di una lunga carriera e non la sequenza che caratterizza poco più di un album e mezzo di storia, i pezzi più deboli sono pochi e forse non ce ne sono.

Frah quintale

Frah Quintale ha talento, è innegabile, le parole si incastrano armoniose una sull’altra, retaggio da rap, amore pop, scorza indie, ogni strofa funziona, la sua direzione è precisa e probabilmente scavalca tanti indecisi che questo processo di evoluzione dall’Hip Hop lo avevano tentato prima di lui, compreso lo stesso Coez. Frah Quintale funziona e funziona anche sul palco di Spring Attitude, in questa curiosa veste autunnale, e funziona così bene che quasi non si respira, per la gente che continua a sopraggiungere e per un coro senza sosta che attraversa l’intera scaletta, da “Branchie” a “Stupefacente”, da “Chapeau” amputata di Carl Brave alla più intimista “Accattone”, prima di tornare su con la divertente “Sì, ah”, recitata con saltelli da tutti i presenti. La splendida “Missili” alla quale manca il timbro inconfondibile di Giorgio Poi, poi “Cratere”, “Gli Occhi”, “Gravità”, e sembra un peccato non citarne qualcuna, come non cantarle, non seguire le sue braccia al cielo, prima dei giochi con l’autotune, prima di una serata che sembra appena cominciata.

Hai visto mai che c’è un altro cantante in circolazione che forse non sparisce dopo due pezzi passati in radio. Hai visto mai che forse adesso quello spazio è conquistato e non dovuto, se anche un festival dal sapore internazionale come Spring Attitude ha scelto di dedicare un intero Stage ai prodotti di casa nostra, lasciandogli un ruolo di primissima rilevanza. Non che prima non accadesse, vedi Cosmo e i Coma_Cose, ma mai come ora c’era tutta questa voglia, che ci piace definire necessaria. E balliamo senza testa al centro di questa festa. Frah Quintale regge la scena e la reggono i suoi pezzi, scorrono altri fiumi di frasi, di amori persi e rincorsi, di letti freddi, di camminate nei treni la notte a riconoscere i nomi sulle scritte disegnate, lo stesso nome che adesso trovi sulla locandina di un concerto, a raccontare le sue storie di provincia, di alcol e occhi rossi, di lampioni spenti, rumeni ubriachi e cattive compagnie, di storie a colori, anche quando la strada ed il cielo hanno lo stesso grigio.

Frah quintale

Non ci sono capolavori, ma canzoni fatte a mestiere, non c’è De André, ma un campionario di vita credibile, sincera, viva, quel male d’amore che si ripete non porta troppa poesia, ma un po’ di droga, bottiglie di birra e notti sbagliate, come tutti noi, Frah Quintale da Brescia non è qui per salvare la musica, non è qui per salvare nessuno, forse solo sé stesso, facendolo però ci sta regalando tante piccole perle che rimangono in testa e in bocca, cantandole con lui ed in macchina sulla via buia del ritorno. E se per stare un po’ in giro cerchiamo ancora un motivo, oggi ne abbiamo trovati parecchi, perché preferiamo Roma quando c’è Spring Attitude e sul palco ci sono artisti come Gemello e Frah Quintale.

Le foto sono una gentile concessione di Spring Attitude.

Gemello: una testa che frulla tra intelligenza e immaginazione

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La primavera è un ricordo che si fa lontano in questi primi accenni di autunno e piogge pomeridiane. C’è una cosa però che ci riporta fuori stagione, ad accettare con più armonia l’incedere del freddo e dei giorni corti, c’è un evento che di solito è un anticipo d’estate ma quest’anno si trasforma in enclave di primavera. Ovviamente si tratta dello Spring Attitude, il festival romano per eccellenza, un gioiello gentilmente offerto dai ragazzi di L-ektrica e i loro sforzi, anno dopo anno. Quest’edizione vede l’architettura industriale dell’Ex Dogana di Scalo San Lorenzo prestarsi al gioco, nell’imbroglio di ombre e luci che confondono le tre sale con altrettanti palchi e scalette diverse.

Gemello 2Fuori pioviccica, dentro sembra estate, l’Ex Dogana si va riempiendo e lo stage dedicato alle creature tricolori ribolle, attirando su di sé tutte le attenzioni del venerdì sera. Giovani e meno giovani teste attendono solo l’ingresso di Gemello, tra le colonne di cemento armato e le vele sponsorizzate Molinari che ondeggiano nell’aria. Quando le luci cambiano colore e finalmente giunge il momento di affacciarsi sul palco però non sale da solo, lo fa accompagnato da un viso familiare, tale Silvano in arte Coez, ad aumentare a sorpresa l’hype su un festival, su una serata e su un’esibizione che già si preannunciavano scoppiettanti.

E allora “Su le mani, Roma” gridano saltando sul palco, qualche parola con accento marcato, un ringraziamento, un saluto agli smartphone ed alle birre levate al cielo. Prima che parta la festa, l’approdo è subito con le canzoni fatte in due, i ritornelli condivisi, le tracce più “cantabili”. Per questo è utile Coez, a coinvolgere e scaldare un pubblico già bollente, ma soprattutto a stemperare il fuoco sacro di Andrea, immediatamente riconoscibile quando incolla le labbra sul microfono e squarcia l’aria di grinta e parole, una pioggia di parole su tutti i presenti.

Basta poco, parte “Testa Uragano”, prima del violento Gemello c’è un morbido Coez, come un Michael Bublè sotto effetto che nasconde i tagli, a raccontare nel ritornello la stessa percezione di tutti, quel desiderio di andare via, la sensazione di essere soli in un mondo che esplode. Proprio quel rapporto con il mondo che ritorna in tutti i testi del rapper introverso, quell’assordante silenzio del mondo che schiaccia tutti, il freddo delle relazioni umane e una vita a cercare di scaldarsi. Stesso registro quando la traccia si trasforma in “Taciturnal”, presente nell’ultimo album di Coez, tra una citazione dei “Sottotono” e un paio di Nike, quella domanda che ritorna sotto altre forme, noi dove andremo? Continueremo a bruciare semafori, a cercarci nel buio intermittente delle strobo, il fumo del mattino, e ci ritroveremo sempre col cappuccio In The Panchine.

Gemello Coez

A ricordare tempi gloriosi di gioventù e sana pazzia, di genialità e incoscienza, di un mondo parallelo che ha segnato tutto e ritorna quando Silvano lascia la scena e Gemello fa felici i ragazzi più cresciuti che si annidano tra la folla, quel seme Old School che ora grida in risposta ad ogni strofa di Deadly Combination, dove tutto è ancora presente, tutto è ancora vivido, l’inglese e l’italiano mischiati così perfettamente male, le droghe, i parchetti, l’amicizia, da Parioli a Torre Maura, dentro l’hip hop, il cinema di Luis Bunuel e i b-movie, l’America e gli sprazzi di cultura generale, dalla strada a Kobe Bryant.

Gemello salta, zompetta, piroetta sul palco, stringendo il microfono come a volerlo distruggere, si agita convulso, si muove frenetico, schizofrenico, palpitante. Questo è Gemello con il suo esercito di parole, questa è la sua vocazione, un torrente senza argini che diventa una cascata di rime, un’esplosione di sillabe, di versi criptici, di cento concetti in una frase e cento frasi per un solo pensiero, come parlarsi addosso, come pensarci troppo, come tornare e ritornare e ripetere, come rivivere una scena, come riavvolgere il nastro mille volte e tornarci su e ritornarci ancora.

Gemello 1Gemello è così sul palco, Andrea è così nella vita, senza differenza, la stessa testa che frulla, che non si ferma, che è un’ebollizione di intelligenza e immaginazione. Così nelle sue canzoni come nei suoi quadri, milioni di vite condensate nell’ansia di uno spazio chiuso, di limiti, di delimitazioni, di un contenuto esagerato per schemi troppo stretti. Mille colori che si frantumano in mille pezzetti e si uniscono uni sugli altri a partorire qualcosa di nuovo, mille parole che giocano allo stesso gioco. Dentro quel corpo minuto non c’è abbastanza spazio, così fiorisce l’arte, e quando accade ci regala un’altra canzone di cui lui non sa che farne. Seduto a penzoloni sul mondo, prima saltare con le braccia in aria per non atterrare più, per andare ancora via, ma via dove? A chiederci come vorremmo che finisse tutto quanto, con un boom, uno splash o in un lampo?

Le foto sono una gentile concessione di Spring Attitude.

Mèsa: la confessione leggera in una domenica tiepida

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Un paio di Adidas Gazzelle annunciano gambe lunghe e scoperte, accavallate su uno sgabello senza pretese, una chitarra avvolta tra dita e capelli scuri, una maglia candida e occhiali da vista poggiati sul naso che cerchiano occhi che si chiudono in continuazione, lasciando la voce vibrare nel contorno blu di questo locale incastonato nel pieno centro di Roma.

La famosa piccola e sconosciuta Mèsa, qualche chiacchiera spigliata tra una canzone e l’altra, davanti al pubblico sparpagliato a brandelli in giro, tra il bancone luminoso che si stende alla sinistra del minuto palco e l’ingresso a tende alla sua destra, dove maldestra qualche testa si affaccia. Pian piano che una canzone segue l’altra, le persone cominciamo a volgere i volti, ad interrompere le chiacchiere distratte di una domenica sera tiepida, a tralasciare cocktail che sfidano l’autunno che non vuole arrivare. Uno dopo l’altro tutti si rivolgono a quella ragazza sola, tra gli altri strumenti fermi e nudi intorno a lei, nel buio di un contorno che non c’è, lontani dal bagliore che nasce solo su di lei, sulla sua voce, sulla sua dolce maniera di essere il solo centro della scena.

La sua esibizione è una pietra preziosa all’interno di un format chiamato Border Live, che di settimana in settimana associa musica dal vivo, artisti nuovi e vecchi, sconosciuti o meno, in un flusso di suoni, canzoni, esibizioni a contatto con il pubblico stesso, nell’ambiente confidenziale dello Sheket, tra specchi, synth pop, sonorità 80s, maniglie dorate e teatralità.

Mèsa si ritrova lì, a metà serata, come in una confessione leggera a poche amiche fidate, a raccontarsi attraverso le sue canzoni, figlie di un album talmente ben riuscito che le si cuce addosso anche così, armata di una sola chitarra, a spogliare le sue stesse creature di tutti i mantelli e le strutture musicali fatte di strumenti, arpeggi e distorsioni sonore, mentali, emozionali. Adesso sono tutte negli sforzi minuti delle sue dita a ringhiare sulle corde, a misurarsi negli occhi così vicini, di un pubblico che si intimidisce quasi più di lei stessa.

mèsa

 

Ogni parola si rincorre veloce, la sua voce sembra un gomitolo che si srotola, nell’economia del tempo che passa con le lancette ferme, Mèsa si racconta ripetendo i versi che ha già masticato nella sua testa, nelle registrazioni di Touché, nei concerti, nei live, nei piccoli club e sui grandi palchi dove l’abbiamo ammirata destreggiarsi con la stessa leggerezza di stasera, come in quell’ingombrante stadio di mezza estate, a Latina, ad anticipare la performance di Frah Quintale, nella grande notte di Calcutta.

Canzoni alle quali già vogliamo bene si annunciano e si susseguono, come A chi fatta in apertura, seguita da La metamorfosi dell’aria, La colpa, Il mare tra il dire e il fare fino alla splendida Oceano Letto che chiude l’album così come chiude la sua esibizione di stasera, con un grazie, una carezza all’asta del microfono a scostarlo dal viso e lo scendere dal piccolo palco con il capo chino di timidezza, la sola risposta che conosce, agli applausi delle testa affacciate sulla porta, dei ragazzi al bancone, del pubblico seduto sulle scalette che portano alla sala ristorante, dei pochi tavolini, delle persone in piedi, dello sguardo del barman che tiene il ritmo del suo shaker mentre la vede nascondersi su uno sgabello, vicino ai componenti della sua band, stasera superflui, con un sorriso contagioso, e questa voglia che resta come un ritornello nella mia testa.

La serata prosegue con altra musica, altri live, altri cocktail, altro traffico di Largo Argentina, altri gabbiani che frugano tra l’immondizia, Mèsa (qui il suo profilo Facebook) torna a vestire i panni di Federica Messa, una volta riposta la chitarra, si allontana, lasciandoci in dono la grazia di una musica che tocca sempre i tasti giusti, tra le sonorità americane e le melodie suggestive di una lingua che conosce, con la quale sa giocare, nel conforto di un Italiano avvolgente. Solo un’altra piccola grande scoperta di Bomba Dischi, in un’altra serata dallo stampo nostrano per non sentirci più estranei a casa nostra.

E se ci avanzerà del tempo, tra una tesi e un aperitivo, linkeremo una canzone in linea col nostro stato emotivo.

Grazie, Roma: la musica di Ovunque tu sarai di Roberto Capucci

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Da dove si parte quando si vuole raccontare l’amicizia? Dalle cose che accomunano tutti, da un viaggio, da una passione grande come il calcio e, soprattutto, dalla musica.

Questa è la sintesi di Ovunque tu sarai, questo è il pensiero che mi gira in testa dopo aver chiacchierato a ruota libera con Roberto Capucci, il regista, e Marco Conidi, perno centrale dell’Orchestraccia e curatore d’eccezione della colonna sonora del film. Parlando con loro vado a scavare, cerco di ricostruire come si sia strutturato il mantello musicale che avvolge e protegge tutto il film, riscoprendo un viaggio emozionale prima che effettivo, ricucendo gli strappi di un’opera prima sincera, alla quale gli spettatori si sono affezionati. Non è difficile ottenere informazioni da Roberto Capucci, che come un fiume in piena mi investe con il suo entusiasmo, la sua soddisfazione umana prima che professionale nel ripercorrere le tappe di avvicinamento al film, raccontandomi di come, un pezzo dopo l’altro, si siano incastrati tutti gli ingranaggi della macchina.

Il suo incontro con Marco Conidi è stato quasi fortuito, un conoscente in comune che li porta a cena insieme: «Hai presente quando non ti conosci ma sei amico da una vita?». Roberto non trova altre parole per spiegare come sia nato un rapporto da subito molto forte. Un’intera sera a parlare di idee, di Roma, della Roma, di esistenze distanti che però condividono lo stesso background culturale, le stesse emozioni. Proprio da questi presupposti nasce il film e da questi presupposti nasce un’amicizia e una collaborazione che parte dal titolo, quell’Ovunque tu sarai che proviene naturalmente dal famoso coro della Sud e da un estratto del testo di Mai sola mai, canzone di Conidi dedicata alla sua A.S. Roma, ma che attraversa emozionalmente qualunque tifoso di calcio. «Orgogliosamente ti dico che è un film musicale» mi racconta Roberto «c’è una matrice rock che accompagna tutto il film, e che ci accompagna da Roma fino in Spagna. Poi c’è un’unione di molti generi: abbiamo inserito continui riferimenti alla musica, a cominciare dal pulmino dei Triana, un gruppo realmente esistito che proponeva un rock progressive con sonorità spagnole».

ovunque tu sarai

La storia esordisce con la confessione di uno dei protagonisti, con il suo sogno di diventare una rockstar, poi non possiamo che innamorarci di Abre la puerta proprio dei Triana, prima di scoprire la versione spagnola della canzone Ovunque tu sarai scritta da Marco Conidi per il film e cantata nella pellicola dalla deliziosa Ariadna Romero, per poi stupirci nel riascoltare Comprami di Viola Valentino, retaggio di un’epoca cinematografica così distante e così indimenticabile. Tendenzialmente nei film a basso budget e nelle opere prime la musica si usa per riempire i vuoti, ma è spesso una musica preconfezionata, fatta di sonorità di circostanza. Nel caso di Ovunque tu sarai, invece, la musica dà ritmo al film grazie all’apporto essenziale di Conidi e degli altri due collaboratori per le musiche, Valerio Calisse e Daniele Bonavire, uno dei chitarristi di flamenco più importanti in Europa. Prima di congedarlo parliamo del videoclip della title-track, firmato sempre da lui, gli chiedo se fosse stato solo un piccolo sforzo collaterale al film oppure no: Roberto mi rivela che senza il videoclip non avrebbe avuto il finale del film, in cui sono state riutilizzate le scene del pulmino girate per la canzone, in una congiunzione quasi magica.

L’idea del video nasce proprio così: un’unione visiva tra i componenti dell’Orchestraccia impegnati a cantare e i ragazzi del film che li passano a caricare con il loro pulmino, aggiungendo una tappa ulteriore a quelle che vediamo nella storia. Per Marco Conidi, che intercettiamo poco prima che entri in sala prove, non è la prima volta al cinema, è sempre stato attore e cantante, le uniche due cose che da piccolo si era ripromesso di non fare nella vita ‒ ma si sa che le cose non vanno come uno se le immagina. Marco è navigato, conosce il linguaggio dei film e quello della musica, conosce Roma e i messaggi che sa comunicare, quindi è stato l’interlocutore ideale per un progetto come questo. Le colonne sonore sono una delle sue passioni e dopo aver conosciuto Capucci si è lasciato subito coinvolgere. Ma quando è arrivato, ha trovato musiche d’appoggio, riempitive, insieme a tutta una serie di riferimenti a canzoni che spaziavano dai Queen, ai Rolling Stones fino a Elvis: «Ci mancava solo Let it be dei Beatles e le avevano prese tutte, gli ho detto mettici sei milioni per i diritti e ce le hai tutte ’ste canzoni», ci racconta Marco con un sorriso.

Il suo problema dunque era creare qualcosa che non deludesse il regista, perché quando hai in testa delle canzoni così potenti sopra una scena, è difficile poi abituarsi a qualcos’altro senza la sensazione che manchi qualcosa: «Il film ha tanta musica, più della maggior parte degli altri film, e questo si nota, si sente. Quindi c’era bisogno di una colonna sonora che facesse sentire qualcosa, non solo per riempire i silenzi. Credo che con Valerio e Daniele ci siamo riusciti». Mi viene spontaneo chiedergli com’è scrivere per qualcosa che già esiste, che nasce dall’ispirazione di qualcun altro. Così torniamo a parlare del suo rapporto con il cinema, di come ha sempre scritto canzoni immaginandosi un film. Per Marco è naturale che le due cose coincidano, le sue canzoni e la sua scrittura, ci confessa, nascono per immagini: «Le mie canzoni sono delle mini sceneggiature, cerco di raccontare una scena, qualcosa di vivo, qualcosa che mi immagino davanti agli occhi».

ovunque tu sarai

Prima di lasciarlo ai suoi impegni, gli chiedo un accenno sulla citazione che dà il la alla canzone Ovunque tu sarai, quel Famme resta’ co’ te, sinnò me moro che ci riporta alla mente Gabriella Ferri e una Roma che ci manca anche se non l’abbiamo vissuta. Quella canzone, mi spiega, l’ha sempre amata, si sente molto coinvolto da quel testo, dalle possibilità di comunicazione che solo il dialetto può dargli: «Credo che il dialetto abbia una capacità di sintesi, un’empatia, una capacità di trasmettere sensazioni che manca all’italiano. Se io dico Sinnò me moro tu capisci subito la situazione, con l’italiano avrei bisogno di articolare frasi molto più lunghe». Marco è un fan del romano “nobile”, quello che non è forzato e che non è volgare, ma che fa parte della tradizione italiana profonda e antica dei dialetti, una tradizione che dovrebbe unire il paese invece di dividerlo.

Nei concerti dell’Orchestraccia, ricorda infine, la band ha spesso accostato sonetti di Belli a versi di Sciascia, di Pavese e Trilussa, cercando di dimostrare come l’Italia sia in realtà corta e indivisibile, e che certi temi e alcune “sensibilità” l’abbiano attraversata interamente, anche grazie all’espressione dialettale capace di raccontare bene qualunque emozione, a Nord come a Sud.

Calcutta: il cantante che aspetta davanti a un mondo di pecore

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C’è un po’ di futuro sul grande palco del Francioni, il vecchio stadio di Latina all’ombra della cisterna a fungo. C’è il futuro della musica italiana che ingombrante si fa spazio con una prepotenza che ha l’espressione tenera del faccione di Edoardo. Che sfugge dal retaggio hipster di cui è figlio, superando i capisaldi di quel movimento indie scappato dal ghetto, lontano dalla malinconica mise del fascino anacronistico di Tommaso Paradiso e dalle leopardiane pose ingobbite di Niccolò Contessa. Edoardo è Calcutta (qui il suo sito ufficiale) e mette d’accordo tutti, scioglie tutti, anche quel pubblico snob che tendenzialmente frequenta certi concerti, ma senza divertirsi troppo, con moderazione. Non stasera, non oggi, non con Calcutta sul palco, che colora uno stadio con migliaia di sciarpe rosse, con musica nuova, che ricorda, richiama, cita e saluta, ma è nuova ed è tutta sua.

Calcutta è travolgente, invidiabilmente coinvolgente, grazie all’atteggiamento più radical e più rockstar che ci si possa aspettare: il disinteresse. Sembra un caso che proprio lui si trovi lì sopra, si muove a disagio, si guarda intorno, balbetta qualche frase tra una canzone e l’altra, ride delle sue battute e si rifugia in un’altra strofa. Naturale come il cielo azzurro di un’estate da campione del mondo. Ogni volta che finisce di cantare riapre gli occhi con un sospiro, come a controllare che fosse davvero tutto tutto lì, che fosse tutto vero, come un bambino alla prima recita che non ha ancora capito bene il senso degli applausi.

calcutta

Sul palco ci è salito con una sciarpa del Latina sull’asta, perché chi non salta è gialloblu anche se il Frosinone è di nuovo in serie A. È lo schermo alle sue spalle a dare il benvenuto a tutti, anticipato solo da un piccolo spazio pubblicità dedicato all’Acqua Parda, una sorta di Cacao Meravigliao 2.0, presentato con verve internazionale dal buon Pierluigi Pardo, nuovo guru televisivo della musica Indie. Poi tutto fiorisce in una pioggia di luci e voci, dal microfono attacca la splendida Briciole, prima che si srotolino due ore di concerto che scivolano come un lungo conciliabolo tra amici, ogni canzone chiacchiera con la folla, che risponde, risponde forte e chiaro. Giovani, vecchi, ragazzi e bambini, ultras e groupie, musicisti e dj, tutti ammucchiati sul prato verde. E questo non è un talent show, sono 20.000 persone a fissare un ragazzotto a metà tra un Vasco Rossi prima maniera ed un allenatore di categoria.

Sul palco c’è l’insicurezza della provincia, in una geografia di mille luoghi, rimbalzati da un testo all’altro a spasso per la nostra piccola Italia in un vernissage di cartoline da negozio di souvenir, da Pesaro a Peschiera del Garda, fino alla grandiosità di Venezia, che è bella ma non è il suo mare, meglio il freddo della stazione di Fondi. L’insicurezza da piccola città, perché il mondo è un tavolo e noi siamo le briciole, tra campi di kiwi e chiese impolverate che lasciano suonare queste campane. Affinché questo mondo cane si faccia gli affari suoi. Calcutta è lui, è così, è tutto lì, senza costruzioni intellettuali, senza ruffianate. Semplice, testi asciugati al massimo ma non vuoti, colmi di mille pensieri ammucchiati che si svelano nelle frasi ironiche di una spruzzata di baffi, di uno che ti chiede di vestirti da Sandra perché a lui riesce bene fare Raimondo. Calcutta è un ghigno sul viso ed una bugia alle interviste. Ti parla di Frassica e di Raffaella Carrà, la cantina buia di Battisti, di YouPorn e danza kuduro. E si potrebbe ridurre tutto parlando di un giro facile come «mi sento il cuore a mille», ma la verità è dentro «la saliva che risbatte forte come il mare i miei pensieri a riva», all’interno di frasi come «mi sono addormentato di te».

Avrebbe potuto fare un album sulla falsa riga del primo, una serie di ritornelli facili, una canzone estiva e giocare sull’immagine di sé che hanno costruito sulle sue imprudenze. Invece il buon Edoardo ha sfoderato un piccolo gioiello della musica Italiana: ritmi, melodie e testi che ti rimangono lì, a mezza bocca, incapace di odiarle, pronto a ricantarle.

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Come hanno fatto tutti in un concerto che sembrava un festival, fiumi di gente in fila ed in passeggiata già dal mattino, uno stadio in festa, dalle aperture di Mesa e di Francesco De Leo, fino a Frah Quintale che dà ufficialmente il via alle danze, una giostra che scoppia mentre il sole balzella lontano. Un po’ di karaoke con i Thegiornalisti e gli Oasis, prima dello spettacolo finale, un visual bello, originale, d’impatto, capace di reinventarsi ad ogni canzone, passando dagli effetti di luce e forme, ai selfie sfocati, dalle insegne retrò alle illustrazioni iconiche del personaggio, baffi, cappuccio e cappellino, tutto accompagnato da una band al completo, con tanto di Giorgio Poi alla chitarra, reso tutto più maestoso dal coro di Chiara Calderale e le sue ragazze, messe in bella mostra a dar man forte al nostro di Latina.

Sulle note di Oroscopo arriva anche Tommaso Paradiso, saltellando e strillando prima di scomparire nel backstage, lasciando che il viaggio continui a vele spiegate, da Cosa mi manchi a fare a Pesto, da Rai a Del Verde, da Gaetano a Hubner passando come ombre cinesi su varie città. Non c’è il giochino del bis, sembra non ci sia mai finzione con Calcutta, c’è solo uno spettacolo lungo un intero pomeriggio, offerto da Dna Concerti e Bomba Dischi e dall’aria di mare di questa piccola città del basso Lazio. Dove Calcutta aspetta tutti gli altri, seduto davanti a un mondo di pecore, come sulla copertina del suo ultimo album. Il Frosinone sarà pure di nuovo in Serie A, la musica italiana starà pur vivendo una nuova vita, ma Calcutta sta giocando un campionato a parte. Mettendo radici nelle tue radici.

Willie Peyote: il rap di un paroliere punk dall’anima indie

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La musica in Italia sta rinascendo. Ce ne siamo accorti e ne siamo anche piuttosto lieti. Tante nuove canzoni, nuovi tormentoni, nuove stelle da seguire. Il fatto è che quelle canzoni parlano sempre della stessa ragazza. Una ragazza bella, tutta fame e sorriso, tra il conservatorio e l’università e la bicicletta Atala. Siamo tutti innamorati di quella ragazza, certo, quella che riconosciamo nei video in soggettiva (o POV se a qualcuno gli è più chiaro e caro il concetto) e nelle descrizioni di denti bianchi e abitudini innocue. Però, in mezzo a questo mare di vino e romanticismo spicca il nome di Willie Peyote il cantante rapper più indie, o il cantante indie più rapper, di tutti. Spiccano le sue canzoni, che strabordano di concetti, di ragionamenti, di riflessioni, di insulti e di richiami.

Sul Palco di Villa Ada, che annuncia i suoi artisti con una voce registrata pregna di coscienza civica, sale un ragazzetto slanciato e la sua band, non un ragazzo da camicia e fiori, ma da camicia a fiori aperta davanti, una maglia bianca lisa, occhiali con montatura spessa e baffo arguto, arguto come le sue canzoni, lineari come i suoi calzoni skinny, come la sua dizione così piemontese, sabauda come la sua educazione. Fumo che opacizza l’aria, seghettata da frasi che si ripetono a cascata per un concerto che parte subito forte. Willie zompetta, ha l’aspetto di un Jovanotti d’annata, molta cattiveria in più, parte un funk e si intervalla con un blues, anticipa qualche sound alla Daft Punk e poi cede il passo al rock ed all’Hardcore.

willie peyote

Willie Peyote se la prende con tutti, e se qualche volta cede a una retorica superficiale, quantomeno ti lascia qualcosa da pensare. Non c’è il romanticismo da spensieratezza estiva, c’è un cinismo simpatico ed un mare di cose da dire, di pensieri da fare, congetture da smontare, è questo che ci attiva, non il coinvolgimento forzato ad una politica che sa di vecchio, l’opinion leader schierato in un sistema già morto, ma la disattivazione di certi schemi mentali, la logica che scarta la facciata, il pensiero che scavalca la barricata. Nelle sue canzoni c’è un percorso visibile, dalla rabbia giovanile che mastica battaglie e senso di rivalsa, dentro frasi e testi fin troppo schierati a bandiera alta, in un’evoluzione che porta fino a La sindrome di Tôret, il suo ultimo album, dove con Nietzschiana determinazione prende a martellate le verità, le convinzioni, chi ha troppe certezze, i gruppi, il singolo, la maggioranza e la ragione stessa.

E se un po’ di saccenteria stona con il concetto dell’album, la platea è piena a disquisire cantando di religione, di fama, di successo, di competenza e risultato, di brava gente, persone normali, di astensionismo ed alcolismo, perché si ritorna sempre alle origini, o almeno una vodka tanto, nonostante chi ti vuole bene e ti vuole sobrio al volante. Forse qualche ragazza o donne che sanno di posacenere, sesso esplicito, parolacce, messe in mezzo di gente del cazzo.

Willie Peyote sembra un hipster ma dice che se rappa è ancora hardcore, come Kamil Glik, il roccioso difensore che portava fiero i colori di Torino, come i vecchi santoni del rap che cita a nastro nelle vecchie canzoni, che canzona quando tira in ballo i nuovi filoni, mescola la sua storia di musicista del rap e paroliere del punk, e sul palco si vede tutto e noi ci divertiamo, seguendo la sua energia, anche chi non condivide certe linee di pensiero, ma convincere chi è già d’accordo è facile, scemo. Stuzzica tutti, gioca con i suoi riferimenti, le punture politiche, il sarcasmo da campo di calcio, il pubblico risponde e se c’è quello alla fine c’hai ragione tu, anche se la gente non è poi così tanta e anche se lo meriterebbe, ma in fondo si sa che non è che se vai forte sei bravo per forza, il più delle volte si tratta di turismi, e di gente che sale in cattedra, di un popolo di Alberto Angela, tutti con qualcosa da insegnare ma poi non si sa distinguere il bene dal male.

willie peyote

Willie Peyote è un bene, una benedizione, con il suo linguaggio forbito, la schiettezza aggressiva di uno preparato, un po’ incazzato, che se la prende con gli altri e di riflesso con se stesso, con le banche, con gli obiettori, con il pentapartito e con Adinolfi, con quelli che parlano a vanvera, con i social, con la televisione e i talent show, con chi ha sempre ragione, in un viaggio di sproloquio e pentimento, di incertezza, perché chi è troppo sicuro spaventa.

Il viaggio di Willie Peyote è lungo, dentro al cuore della musica, del linguaggio, della storia che si porta appresso, di una musica italiana abbandonata che ritorna, anche con lui (come con i Coma_Cose, tra gli altri), citata, cantata, riadattata, amata, da L’avvelenata di Guccini a Via con me di Paolo Conte, passando per Tenco e il maestro Gaber, in un viaggio che prosegue nel pensiero, nelle forme di intrattenimento e di tanto in tanto la voce di Giorgio Montanini che compare dall’amplificazione di Villa Ada, così come lo trovate tra le tracce dell’ultimo album, mixando canzoni a stand-up comedy, in una fusione artistica sullo stesso concept: la libertà di espressione ed i suoi paradossi. Nell’informalità di una notte estiva, nella leggerezza di un concerto all’ombra dei pini e nel riflesso di un laghetto a Roma Nord. Willie Peyote è questo, un baffo hipster, una rivoluzione proletaria, una verità negata, una canzone romantica e un difensore polacco. Willie Peyote è tanta roba.

Cesare Cremonini: un traghettatore per la musica italiana

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Un lungo valzer solitario di 40.000 persone che si plasmano nei movimenti di un uomo solo e sudato. Il blasone paillettato di un cantante che ha smesso di essere emergente tanti di quegli anni fa da sembrare di un’altra epoca.

Lui tuttavia riesce ancora ad essere un volto nuovo, uno da attendere, da coccolare, da seguire come una fan idolatra, da apprezzare come un tecnico del settore, anche se lui è sempre più stempiato ed i suoi seguaci hanno smesso di essere teenager da un pezzo. Il sole fa fatica a spegnersi, nei giorni più lunghi dell’anno, in questo giugno mite e pigro, ma l’Olimpico è vestito a festa come solo nelle grandi occasioni, nelle notti di coppa e in quei concerti che hanno segnato epoche. Il grande stadio di Italia ’90 si colora come un arcobaleno nel cielo scuro di mille galassie, come un carnevale sotto la guerra.

Questo è stato Cesare Cremonini per tanto tempo, un lacrimogeno nell’aridità, un traghettatore per la musica Italiana degli ultimi vent’anni, ed è riuscito a sospingerla fino alle acque calme dove ora naviga placida, scorgendo nuove Itaca avvicinarsi, nei volti di tanti nuovi giovani artisti. Cesare Cremonini c’è stato e c’è ancora, in grande forma. Ed i motivi sono così tanti che non saprei quasi spiegarli e metterli in fila; i motivi sono umani, musicali, emozionali. Tutta una serie di perché per i quali non si poteva non venire a vedere.

cesare cremonini

E allora vieni a vedere perché, il perché lui c’è, in un’epoca senza mezze misure in cui la musica viene seguita o da fan invasati ed intrattabili oppure da un pubblico snob che non si esalta di niente, in un’epoca dove o emerge il nazional popolare oppure i palazzetti sono il massimo delle aspirazioni, in un’epoca in cui tutto viene ridimensionato dalla gogna pubblica che dalla piazza si è presa un’arena digitale molto più grande dell’immaginabile.

Vieni a vedere perché, perché Cesare Cremonini da Bologna è riuscito a ritagliarsi un posto tra i grandi, è riuscito a conquistarsi l’Olimpico con un percorso fatto di musica, esperimenti, sincerità ed un sorriso grande quanto il riflesso di centinaia di smartphone levati al cielo. Ci è riuscito senza essere derivativo, senza la smania del citazionismo lirico e musicale, creandosi uno spazio tutto suo, un pop magistrale che strizza l’occhio e si evolve sia dal cantautorato italiano che dai ritmi britannici, dalla poesia di Dalla alla verve di Luca Carboni, dal rock dell’idolo Freddie Mercury agli arrangiamenti di beatlesiana memoria, dai Synth anni ’80 all’elettronica moderna.

Sono venuto a vedere perché, senza il dubbio di un solo secondo. Lo schermo nero mi accoglie, una voce fugge tra le teste, senza il richiamo degli enormi led, senza il riverbero delle luci, un tramonto che scende lontano e una canzone che nasce dal nulla. I passi di Cesare, l’intro di «Cercando Camilla» ed una «Possibili scenari» che annunciano una grande serata. Due ore e mezza di musica che si rincorre tra i ricordi d’adolescenza fatti di rane e Vespe, attraversando traumi d’amore e notti passate a saltellare, lui sul palco come tutti noi sul prato e sulle tribune. Degli enormi monoliti alla Kubrick gigioneggiano sopra le teste della band, cambiando posizioni, geometrie e colori.

cesare cremonini

Ogni canzone è una corda sfilacciata nella memoria di una vita coltivata allo stesso ritmo. Quello di uno che ci sa fare, con le parole e con il suo corpo dinoccolato che si scompone sopra il lungo palco, dimostrando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, quanto ci sappia stare, lì sopra, quanto sappia tenere la scena e accompagnarti lungo un percorso ben architettato, facendoti scivolare addosso una serata di belle canzoni ed un presagio d’estate entusiasmante.

Una sull’altra si intervallano le canzoni dei LunaPop, del primo Cesare Cremonini solista, fino all’autore maturo degli ultimi album, con i quali gioca con l’audacia e si fa spazio nella tradizione, tra ballate che non si dimenticano e pezzi intimisti, riservati, tra il vezzo di una poesia e la carezza ubriaca di una confessione notturna. Tutto si incastona in un’architettura solida che non distrae e non stufa, ti stanca solo un po’ la voce a forza di seguire un lungo coro senza soluzione di continuità.

Se da un lato manca l’intimità di un palazzetto caldo e avvolgente, d’altra parte non possiamo lamentarci, solo lasciarci travolgere dalle 40.000 voci unisone che salutano la serata al grido di «domani sarà un giorno migliore», ma una serata migliore di questa per Cesare sarà difficile da ripetere, ed anche per noi.

Coma_Cose: quando c’è voglia di cantare in italiano

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Sono nell’area antecedente al club dove bar, divani e piante fanno da ingresso alla sala. Il concerto è finito da una ventina di minuti abbondanti. Ho una birra in mano mentre parlo con un dj di zona e un’account manager: discutiamo del secondo tragico Calcutta, di Vasco Brondi e del duo che abbiamo appena ascoltato. Si parla di nuovi linguaggi, di evoluzione dei testi, di musica che ritorna e canzoni non all’altezza. Ma soprattutto notiamo una cosa che ci fa un gran bene al cuore: c’è voglia di Italia, c’è voglia di cantare in italiano. Questa nuova ondata “indie”, questo nuovo filone di cantanti, gruppi, progetti e featuring ci sta restituendo un piacere quasi antico, quello di cantare nella nostra lingua madre, di sentire, comprendere, vivere ogni parola strillata al vento.

Come in un buco spazio temporale, al quale erano sopravvissuti indenni solo Cesare Cremonini e pochi altri, siamo riemersi dallo tsunami del Brit Pop, del Punk Americano, dell’Indie Rock e giù a discorrere ogni inclinazione possibile. Li abbiamo amati certo, abbiamo studiato l’inglese per loro, abbiamo cantato i loro modi dire e le loro città, ma poi ci sono mancate le nostre. Che ritornano prepotenti. Che si insinuano nelle nostre cuffie. Che fioriscono nelle nostre città. Come funghi. Come lumache dopo la pioggia. Come risvegliarsi da un coma e ritrovare un sacco di cose. Come i Coma_Cose, forse l’ultimo meraviglioso regalo di questo filone “indie” nostrano.

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Due ragazzi, uno ha la barba e il cappellino, l’altra ha labbra morbide, sorriso largo e nuca bionda. Indossano dei giacchetti da metalmeccanici e salgono sul piccolo palco del Lanificio saltellando pieni di carica. Si annunciano con un «Coma_Cose nella casa», che già vuol dire molto, niente «in the house» e niente «Yo», c’è un’anima italiana, che diventa presto una «Anima Lattina», in uno dei pezzi che già spiccano nel loro ristretto campionario. Ed è anche uno dei numerosi riferimenti alla musica cantautoriale italiana che per anni ci è sembrata così distante e inaccessibile. E dopo Battisti la ritroviamo anche quando chiamano in causa Celentano, oppure con la «dolce venere di rime» che ci riporta a De Gregori che, nonostante tutto, è ancora il loro «artista rap preferito».

Le canzoni sono poche, sono giovani e sono fresche come il panorama di cannucce nei bicchieri di plastica. Le canzoni sono poche ma già le conoscono tutti, qualche centinaio di persone che invece di giocherellare con l’ombrellino da cocktail in un tavolino all’aperto hanno preferito venire, in questo sabato di quasi estate, nel caldo di un club compatto e accogliente. Per ascoltare loro, i Coma_Cose, una delle più belle sorprese di questa spumeggiante scena italiana. Fanno parte della scia, ma non assomigliano a nessuno, ammucchiano e si ammucchiano dentro generi e sinfonie, mischiano parole come fossero giocattoli e ci regalano un linguaggio nuovo che ci raggiunge, ci trasforma e ci emoziona ancora una volta.

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Accompagnati da una batteria che si adombra sullo sfondo, Fausto ha il cappellino sulla fronte e fa avanti e indietro sul palco tipo riscaldamento a bordo campo, Francesca agita braccia e testa dorata con movenze alla Eminem d’annata. Un’insegna con una S ed una A sovrasta il centro palco e ci ricorda quel gioiello tutto romano che è lo Spring Attitude degli amici di L-Ektrica, che gentilmente ci regala un’altra serata come questa.

La folla agita le braccia a tempo di musica, i ragazzi sul palco alternano ritmi rap a strofe melodiche, sforzi da romanticismo post-impero e sfogo sociale, senza moralismi, senza sofisticazioni, una Milano già bevuta, una serie di giochi di parole intelligenti senza essere pretenziosi, acrobazie divertenti, tanta Italia in salsa internazionale. E non importa se le canzoni sono veramente poche e si esauriscono prima di esserne soddisfatti, anche loro sul palco ne sembrano dispiaciuti, ma quasi scusandosi ci dicono «abbiamo solo queste, però facciamo ancora qualche altra roba», un breve intervallo con la cover di “Cani Sciolti” dei gloriosi Sangue Misto e poi qualche canzone da ripetere.

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«Post-Concerto» funge già da grande classico di repertorio nonostante abbia appena pochi mesi di vita: tutti ripetono le strofe come un mantra fatto di novità e sorrisi stupiti, per quella pioggia transitiva che ci «temporala», o per la splendida immagine di una «Sarajevo sulle tapparelle che il sole mitraglia di luce», flash mnemonico che nella mente accomuna le camere da letto di qualunque generazione. Fino alle dichiarazioni d’amore di due figli dell’epoca nuova, qualcosa di immaginifico e poetico come «la mia ragazza è bella come David Bowie» per arrivare alla voglia di occupare, e di andare a dormire col cane nella testa dell’altro, come in un gigantesco centro sociale.

Un ragazzo dell’organizzazione dell’evento mi confessa la sua soddisfazione, ma soprattutto la sua felicità nel riconoscere sui volti dei Coma_Cose uno stupore sincero, appassionato, quando vedono così tanti romani cantare a memoria le loro canzoni, una sensazione che gli ricorda il primo Cosmo, passato anche lui tra le sapienti mani dello Spring Attitude qualche anno fa. Non possiamo che augurare ai ragazzi di Milano lo stesso successo del piemontese, e ringraziamo questa nuova Italia musicale, giovane e piena di vita. Che viene da anni di niente, ma vuole tutto. Come i Coma_Cose dal Giambellino.

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Le fotografie sono una gentile concessione di Fabio Germinario e di Spring Attitude.