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Andrea Passeri

The Zen Circus: il battito sfrenato di un rock che non molla

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Nella stanza di Gino Paoli c’erano soffitti viola e pareti di alberi infiniti, nella stanza dei The Zen Circus c’è un fuoco che continua a bruciare, nonostante gli anni, la stanchezza, la maturità e una consapevolezza di non poter più mandare tutti affanculo. Quella stanza però non è più quella di un centro sociale di provincia, ma ha la forma oblunga di un capannone scuro, caldo e pieno di gente. Nell’aria dell’Atlantico di Roma c’è quel senso di Rock fuori tempo, gilet a petto nudo, maglie vintage di concerti leggendari, bandane legate ai polsi e capelli lunghi che presto si gonfieranno di umidità e sudori.

Sono in attesa quando delle ombre saltellanti appaiono sul palco. La grande scritta The Zen Circus sul retro si confonde con le fiamme stampate, svanendo nell’aria fumosa del palazzetto movimentato. Dei corpi si agitano tra i fari che ronzano, un saluto, un accordo stonato e poi il battito sfrenato di un rock che non molla, si fa uomo e recita Catene, parla di funerali e rapporti familiari, di grida sottaciute, di madri, di sogni e di incomprensioni, di un amore che si immagina solo dentro una chitarra. La folla si stringe sotto palco, Canzone contro la natura anticipa La terza guerra mondiale dove il fuoco esce dalla stanza e torna nella sfacciataggine di una gioventù che sfugge ma che non sta zitta.

Il concerto ha preso quota, in fondo alla sala le porte di emergenza cominciano ad aprirsi, spiragli di luce per far uscire le ondate di calore mentre la folla che molleggia avanti e indietro, saltellando e spingendosi. Il batterista chiama l’attenzione e precisa l’unica regola necessaria per seguire questo concerto: “Più voi fate casino, più noi facciamo casino”. Appino, il cantante, si posiziona tutto sulla destra, in un’asimmetria congegnata che rovina le foto di Instagram di tutti gli smartphone esposti all’aria. Al centro del palco dà spazio al resto della band: i frontmen diventano due chitarre speculari sui lati, accanto ad un basso quasi al centro a compensare la batteria posizionata sul centro-destra in seconda fila.

“Mettete tutti i vostri cellulari in tasca e provate a farvi più male possibile” consigliano dal palco. Questo è il tour de Il fuoco in una stanza e la scaletta attraversa tutto il mondo immaginario di un gruppo che ha avuto sempre qualcosa da dire, attraverso la voce graffiante ed i pensieri stonati del suo cantante. Ascolto quindi tutti i malanni della provincia, torno ai dilemmi generazionali, a una mamma che ti chiama figlio di puttana ed un padre che va a lavorare, a guadagnare, a faticare. Mentre tu continui a cantare, e cantando sei arrivato a quarant’anni e ripensi a quell’infanzia perduta tra un Maurizio Costanzo Show ed un night club di donnine, musica jazz e sigarette.

I quaranta portano però ricordi e nuovi pensieri, teoria delle stringhe, Gaviscon e amici drogati che si sposano, sopravvissuti a Chernobyl, a Nirvana e Serie B, con indosso giacche H&M e una buona notizia che riverbera sui social. Insieme a qualche vecchia canzone come Nati per subire, che anticipa i saluti e manda affanculo anche gli dei. “Grazie a tutti” dicono, mentre le luci restano spente ma solo per pochi istanti. Fari che tagliano bassi l’aria e illuminano fronti sudate e mani levate al cielo, a sventolare riflessi di oro e sabbia, si gridano che l’anima non conta e probabilmente pensano a qualche amica lontana che, libera e felice, se ne è andata ma saprà sempre dove trovarli.

Ancora un paio di canzoni, prima che le luci mostrino le uscite e un applauso che va scemando, prima che i tecnici salgano sul palco a lanciarsi qualche cavo, prima che l’ultimo vigile non disinneschi l’ingorgo. Prima che i ragazzi non vadano ad un altro aftershow, perché essere cresciuti non significa essere adulti. I ragazzi li vedo ancora e sono cresciuti bene. Forse non piacciono a tutti, ma tutti no, a noi tutti non ci sono mai piaciuti. Quei tutti che viva qualcosa, sempre viva qualcosa.

Cosmo in piazza. E ballano anche i sanpietrini

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Cosmo è sul palco che salta, si sbraccia, fa avanti e indietro, gigioneggia sul mixer pizzicando le manopole colorate tra un balzo e uno strillo. La fronte suda, la gente canta. Suoni psichedelici si sprigionano dalle casse e vanno a sincrono con i faretti e i proiettori in fila, che dalle americane flagellano la folla con fendenti e lampi intermittenti.

L’aria calda di un giorno lungo. Il più lungo dell’anno. E l’estate che si è annunciata col sorgere dell’ultimo sole. Piazza Farnese vibra di suoni e pulsioni che generalmente non le appartengono e tutto ciò la rende ancora più bella.

Questa sera, questo angolo di Roma, sembra estorto da un’altra città, una piazza che di solito è bella e buia e silenziosa, oggi è viva e vitale, grazie ad un concerto all’improvviso, che aprono i La Femme e chiude uno straordinario Cosmo da Ivrea, di quasi Torino. Tutto in occasione della Festa della Musica, tradizione piacevolmente copiata e presa in prestito dai “franzosi”, che ci ospitano a casa nostra, di fronte all’Ambasciata di Francia, quel loro gioiello romano.

Qualche minuto di ritardo e la prima canzone parte con un riverbero irritante che mangiucchia le parole al microfono. Cosmo non si perde d’animo, allunga i tempi e mixa i ritardi insieme alla sua band, un altro cenno d’intesa con i tecnici e la serata prende la piega giusta e basta un attimo e una canzone in più a far dimenticare a tutti ogni possibile disguido.

Le canzoni de L’ultima festa si intervallano con quelle più datate di Disordine, ripescate dal lontano 2013. Per una sera il nostro esce fuori dalla dimensione del club, quella che più ama, quella che lo ha visto protagonista di un infinito tour denominato Succede l’impossibile che ha attraversato il 2016 come una Formula Uno tra i go-kart, riscrivendo un nuovo modo di intendere la musica elettronica in Italia, coniugandola finalmente con la felice tradizione cantautorale nostrana, che oggi più che mai sta vivendo una nuova giovinezza.

Sul palco il buon Marco canta che «tramonta un continente, ed io non sento niente» e questa è la sensazione che vivo quando da Campo de’ Fiori vedo la strada interdetta da folla, transenne e camionette, quando la perquisizione in piazza si fa normalità, come i mitra alle stazioni della metro. Tutti col sorriso ovviamente, ma con la fobia del terrorismo nascosta nella borsetta, tra l’accendino e il rossetto. Niente birra, neanche un paninaro a mezzi col Comune.

Per fortuna che c’è Cosmo e tutto passa in secondo piano, il suo repertorio sembra magico anche fuori dal buio angusto di quei locali invernali che ha cappottato lungo tutto lo stivale. La serie di pezzi in progressione mi ricordano quanto siano belli, veri e così maledettamente ben riusciti.

Come un nubifragio di buonumore le casse ci tempestano di suoni e parole e si inseguono Le voci, Dicembre, L’altro mondo, Cazzate, la meravigliosa Regata ’70, legandosi a tracce che andiamo a ripescare dal passato, come la già citata Continente, fino a Ho visto un Dio, Dedica ed Esistere; le mani a tempo seguono i battiti di ogni traccia, tutti saltano e sudano. Ballano anche i sanpietrini.

Le cose più rare non manca mai, insieme alla novità de La mia città e al solito gran finale, con L’ultima festa, che anche se non è neanche mezzanotte sembra quanto mai azzeccata.

Come sanno bene anche i ragazzi del Cinema America a San Cosimato, in questa città invecchiata e lamentosa l’amplificazione va spenta presto, la musica smorzata, e allora tutti cantano «via, è ora di andare via, iniziamo a guardarci male», anche il signore coi baffi che suda dietro di me; tutti si muovono a tempo, anche la signora in vestaglia che si affaccia da sopra al ristorante. «Eppure mi sento da Dio» ripete Marco sul palco, prima di salutare e ringraziare. Con grazia e senza troppo miele, con discrezione piemontese e calore romano. La piazza ricambia il saluto con un lungo applauso prima di svincolarsi in cerca di una birra rinfrescante, tra le transenne spostate a fatica, tra una bottiglia rotta e un turista ubriaco che ancora sta cercando da dove arrivi la musica.

Lo strano caso di Mattia Briga

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Il piano suona lento, le note soavi di una melodia senza tempo. Un cono di luce sorge alle spalle dell’ultima fila, e chiude il suo lungo raggio sulle mani esperte di Enzo Campagnoli, il Maestro Enzo Campagnoli.

Mattia al centro del palco attacca timido, andando a stimolare il suo giovane pubblico con la supplica graffiata che gli esce dalla gola e dal cuore. E dillo, ’na vota sola che pure tu stai tremanno. Dimmi che mi vuoi bene, sembra supplicare. Solo d’amore è carico il coro che nasce di risposta. Uno spaccato commosso di Napoli canta con lui.

un altro momento dello show di mattia brigaMattia Briga è un caso strano. Odiato e amato, bistrattato e lodato, continua a rimbalzare tra la visibilità nazionale e la reticenza verso chi è figlio di un talent. Ma di quei figli oggi Briga è uno dei pochi che ce l’ha fatta. Che si è scavato una via di fuga, un tunnel dalla cella stretta in cui buona parte dei suoi colleghi concorrenti si sono spenti, negli anni.

La sua via di fuga è stata esserci, esserci per i fan prima di tutto, ed esserci spesso, con i dischi, con la TV, con i libri (bellissimi tra l’altro, dato che li ha scritti con il sottoscritto), con le radio, con le opinioni, e se la sua esuberanza pirotecnica è andata ammorbidendosi negli anni e si è conciliata con la girandola dello spettacolo, lui, nonostante tutto, sembra essere rimasto a suo agio. Così me lo ritrovo nel camerino della Casa della Musica, una bottiglia di whisky che aspetta il post-concerto, delle scatole di scarpe nuove, i resti di un’ottima pizza locale e un cuoppo di fritti già consumato per pranzo.

È quasi buio quando la platea comincia a riempirsi, sotto palco ci sono i fan più agguerriti, quelli che hanno sfidato la noia della notte e il sole caldo del giorno, seduti sul breve tratto di marciapiede a disposizione, e ora sono lì ancora in attesa a pochi passi dal palco.

Sulla scena c’è James Da Cruz, il dj di fiducia, il piccolo genio che mixa bombe a mano sui giradischi. Balla e fa ballare tutti quanti, anche i ragazzi al bar. Lo scaldapopolo sta sparando i suoi ultimi colpi prima che lo show di giornata abbia inizio.

Il palazzetto non è strapieno come pensavo, ma c’è un calore che raramente si vede in giro, quando entra Mattia le prime note d’introduzione si mescolano a strilli sguaiati ed applausi scroscianti. Come una cosa sola il pubblico è aggrappato alle transenne che anticipano il palco, un solo lungo coro che inizia poco prima delle 22 e finisce quando rintocca la mezzanotte, tra nuovi applausi e lacrime. Sì, le fan di Briga piangono sempre, specialmente quando lo vedono inchinarsi, ringraziarle e ringraziare con un affetto sincero ogni membro della sua band, uno per uno, che si fanno avanti timidamente, senza la protezione dei loro strumenti, e ringraziano a loro volta.

mattia briga sul palcoIl concerto scivola via leggero e coinvolgente, senza tempi morti e senza frenesia. Dopo poche canzoni sale Sercho a dare una carica in più, a cantare quella Eo Eo che prende in giro tutti, anche se stessi, raccontando la vita da star e la stupidità di alcuni fan. Lui e Mattia si inseguono sul palco, saltano e ruggiscono e si nuotano intorno e la folla sembra saltargli incontro nel vano tentativo di raggiungerli.

Tocca ai ritmi estivi, tocca a Baciami e L’amore è qua, prima che Naufrago interrompa lo scorrere del tempo e lasci che una canzone ti trasporti via, lontano. La prima metà del concerto si chiude con Bambi e, soprattutto, con l’assolo della band, forse al massimo della sua forma, con l’avvocato Francis Drake a festeggiare il suo compleanno e uno splendido Mario Romano, capace di rapinare con prepotenza la scena a tutti e incendiare l’arena, dita che giocano e si moltiplicano su corde ardenti.

Quando Mattia riappare il calore non si è raffreddato, via ancora con nuove hit e qualche classico, sentire Benvenuta appaga sempre e anche se in scaletta mi piacerebbe risentire anche qualcuno dei pezzi d’annata, mi devo accontentare del meglio che gli ultimi album ci hanno concesso. Mattia mostra il suo petto e il suo cuore al pubblico, ma cela qualche ombra di noia nel cantare sempre le stesse canzoni che tutti si aspettano. In cuor suo credo che stia aspettando solo il Maestro Campagnoli, al quale la band gli lascia il palco, per deliziarci prima con la loro personale versione di Malinconia della partenza, poi, per omaggiare a casa sua l’indimenticato Pino Daniele, ci regalano Alleria e infine  chiudono con la struggente Tu si’ na cosa grande che ci accompagna verso le lacrime e la conclusione di una calda serata napoletana.

Il buio scende sul palco giusto per una boccata d’aria e il tempo far rientrare tutti sul palco, raccogliere entusiasmi e sospiri con Sei di mattina e Non più una bugia e congedarsi, dall’amore, dal caldo, dal lungo abbraccio che dura da quasi ventiquattro ore. Mattia ringrazia e si rilassa, scende dal palco, batte il cinque a tutti, poi si stringe ad Enzo Campagnoli, «te l’avevo detto – mi dice – quando c’è il Maestro niente può andare storto».

 

 

 

Carl Brave x Franco 126, live in Roma

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Dieci tracce. Dieci tracce che sembrano una sola. Dieci fotografie statiche, che bastano per riempire lo spazio buio degli Ex Magazzini, a Roma, sotto l’ombra bucherellata del Gazometro. Dieci tracce che hanno lanciato Carl Brave x Franco 126 nell’harem digitale dei cantanti di cui se ne dice un gran bene.

Il perché non è ben chiaro a nessuno, quasi mi viene voglia da chiederlo a tutti i ragazzi ammucchiati sotto al palco, a tutta la fila che incontro mentre entro nel locale e scambio qualche rapido saluto. Cosa sono? Carl Brave x Franco 126 si sono presentati con una compilation di polaroid sfuocate e sovraesposte e una cascata di parole che ci disegnano qualcosa di così naturale da chiederci se non ci siamo già visti.

Quando attaccano, tutta la fauna accaldata che si stringe in questo piccolo club si mette a cantare a squarciagola, tipo cori da stadio, persino i due ragazzi sul palco sembrano stupirsene, ancora un po’ incerti mentre testano il risultato della loro creatività.

Carl Brave x Franco 126 in concerto a Roma giovedì 11 maggio 2017Occhiali da sole, camicie colorate e un atteggiamento fin troppo sfrontato se lo confrontiamo poi con le loro canzoni. Cosa sono? Vengono dall’hip hop, strizzano l’occhio alla musica indie, corteggiano il pop e fanno il verso da una parte ai cantautori dall’altra alla trap. Cosa sono non è chiaro e forse è questo il motivo per cui ci piacciono, quell’attrazione semi-illogica verso la novità, la ricerca dello stupore.

Chitarra, batteria, sassofono, strumenti che si mescolano bene, il riverbero dell’autotune a volte disturba, ma non distrae da questa passeggiata nei vicoli di Roma, di una Trastevere umana e partecipe. Queste canzoni non ti fanno emozionare, non ti fanno pensare, non ti fanno piangere, ma sono una scorpacciata di realtà, intrisa di una malinconia velata di gente senza posto.

I loro testi sono sinceri, sono loro stessi vomitati su ogni rima e raccontano quella realtà generazionale che forse si può raccontare solo così. La leggerezza con cui si vive tra cose serie e cose frivole è riflessa perfettamente nel loro palleggiare tra la morte di un nonno ai like su facebook, tra le “guardie” e i genitori che invecchiano; in quella naturale tranquillità con cui si parla di droghe, di canne, di rom, di AIDS, di negri e di “lelle” (lesbiche). Non c’è nessuno che si offende, non c’è traccia di morale, c’è uno scudo fatto di trasparenza e di romanità che li protegge. Tanti ragazzini con gli occhi un po’ rossi mi strillano intorno ogni singola frase, ripassando tutto il glossario contemporaneo che va dal car sharing allo “zozzone”, dagli onnipresenti sanpietrini alla “solita vecchia Santa Maria”, dall’Atac all’ACAB; d’un tratto mi vedo seduto con loro sull’ingresso di una chiesa, davanti al bar San Calisto, una birra in mano a far passare un’altra innocua serata romana.

Carl Brave x Franco 126Non c’è un senso di rivalsa mentre cantano, non c’è quella sopravvalutazione di sé tipico retaggio del rap, la spavalderia di chi mostra la coda tipo pavone; tutto questo non c’è in Carl Brave x Franco 126, ci sono solo due ragazzi a mollo, che cercano di non affogare in questa pozza urbana. Nessuna ricerca sociologica può essere più accurata di questa melodia, nel raccontare la generazione di mezzo dei figli di Roma, non i ricchi snob, non i poveri delle periferie. I figli di Trastevere, dei turisti, dei vucumpra’, della John Cabot, delle birre dal “bangladino.

Dieci tracce, dieci polaroid che già prima di approdare su Spotify hanno vagabondato su YouTube e rimbalzato da una bacheca all’altra. C’è da ringraziare Bomba Dischi per l’ennesimo regalo. Carl sgambetta rigido sul palco, Franco sembra più sciolto con la sua maglietta di Wojtyla. In mezzo alla folla scorgo Gemitaiz e qualcuno dei The Pills, una sorta di meadley/jam conclusivo mi annuncia la fine di un concerto per forza di cose breve ma intenso. L’odore dell’erba aleggia nell’ambiente ma l’elettricità si percepisce ancora nell’aria.

Chissà se allontanandosi dalle mura di questa città tutto questo carico emozionale possa essere percepito, se questa poetica sommessa ma mai arrendevole, questa slavina di riferimenti sia, allo stesso modo, comprensibile. Per adesso ce li godiamo noi, da qui.

 

 

Thegiornalisti in concerto, semplicemente i migliori

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Questa è una dichiarazione d’amore. Non perché Tommaso Paradiso sia il cantante più bravo della sua generazione, non perché Completamente sold out sia il miglior disco degli ultimi anni, non perché questo sia stato il miglior concerto della nostra vita.

È una dichiarazione d’amore perché con i Thegiornalisti ci sentiamo tutti a casa. Perché quando Tommaso si affaccia sul palco con la sua aria ingombrante e un po’ goffa, ci sembra di vedere quel tipo spaccone che ciondola tra i tavolini di Prati, che lo conosci anche se non lo conosci.

Quasi ci fa strano vedere l’invadenza di un PalaLottomatica strapieno cantare certe canzoni, non quelle dell’ultimo disco, così fresche e immediate da far breccia in tutte le radio, piuttosto fa strano sentire migliaia di persone cantare quelle canzoni che erano la tua chicca, il tuo linguaggio privato nei tramonti d’estate, le canzoni velate di una malinconia atavica che sceglievi di mettere tornando dal mare, scansando il solito disco di Venditti e di Dalla, evitando la solita compilation che hai comprato in autogrill.

Tutto comincia con qualche canzone recente, poi Tommaso fa un saluto generale «la cosa più bella dei palazzetti sono le uscite di sicurezza», tutti si girano a guardare le luci verdi nel buio che scavano l’arena in lunghe linee che tranciano le gradinate. Porta gli occhiali scuri sul volto, si giustifica con una delle sue solite sviolinate e ci fa ridere. Quando subito dopo attacca con Mare Balotelli si è visto qualcuno piangere, pensando all’aria fresca che ci aspetta fuori e noi che non vediamo l’ora di tornare a essere tutti uguali, coi costumi a fiori.

Non può non continuare con Fine dell’estate, con quelle quattro strofe, quattro inquadrature che ci proiettano dentro quei film anni ’80 citati nel ritornello, quattro pugni allo stomaco assestati tra le birre che deglutiamo. Il pubblico, che era partito vagamente freddo, ora sbrodola di applausi e ricordi confusi con occhi sognanti, la band riattacca con le canzoni del nuovo album, e si cantano tutte, dai suoni sembra che da un momento all’altro possa iniziare anche Ricordati di me di Venditti ma non avviene mai, purtroppo.

L’album nuovo forse non ha la forza poetica dei primi, l’incoscienza di altri testi datati, ma ha la capacità di coinvolgerti a ogni canzone, anche se dice frasi più banali, anche se una canzone che recita «sono un po’ fatto di te» non avremmo mai pensato di cantarla, però siamo tutti lì, con una sorprendente ed eterogenea gioventù romana, forse la sintesi migliore della città, senza turisti da concerto di massa, senza adolescenti in preda a crisi ormonali, senza disagio dilagante.

Con Disperato ci racconta quando un attacco di panico lo porta a spasso per il quartiere e a guidare per la città, e tutti con la testa sembrano fare un segno di assenso confortante, ripensando alle domeniche d’ansia e pentimento trascorse; Sbagliare a vivere pare arrivare in soccorso di quei pensieri come una sorta di riscatto, con quella sua e nostra triste felicità.

Tommaso Paradiso, con ai suoi lati Marco Rissa e Marco Primavera, si siede al centro del parterre, come sospesi sopra le teste ammucchiate e le mani che stringono centinaia di iPhone luminosi. Ricostruiscono l’ambiente intimo di un vecchio club, stretti come se si spartissero i pochi metri di qualche angolo cencioso, sopra a uno di quei palchetti alti venti centimetri. E come in un club di tanti anni fa ci riportano indietro con un medley, tipo quelli che fa Vasco per risparmiare sul tempo e mettere qualche canzone in più. Parte E menomale, si trasforma in Autostrade umane e finisce con una meravigliosa Io non esisto, che estrapola pezzi di anima da tutte le voci che strillano le loro sconfitte d’amore.

Come il mare, l’estate e le notti in città, anche il calcio ritorna sempre nelle canzoni dei Thegiornalisti, inizia così anche Proteggi questo tuo ragazzo quando Tommaso si siede solo al suo pianoforte e ci dice che se sbaglia il primo pallone butta via tutta la stagione e non si riprende più. Luca Carboni arriva in supporto, appare dal buio con la sua aria da rocker sbiadito, un lungo applauso lo accoglie sulle note di una canzone alla quale tutti vogliamo un po’ bene. Un abbraccio tra i due cantanti anticipa Luca lo stesso canzone scritta da Paradiso per uno dei suoi miti anni ’80, qualcuno dalle retrovie aspetta un momento di silenzio per intonare Silvia lo sai … lo sai che Luca si buca ancora, tra l’ilarità di chi gli è intorno.

Tommaso Paradiso è ancora lì con il suo magliettone nero e i capelli gonfi, canta qualche altra canzone che scivola via nell’euforia generale, poi si ferma un attimo e stuzzica il pubblico, chiama l’attacco di Sold out e come un mantra condiviso tutti quanti strillano «vorrei morire brillo», senza musica, senza accompagnamento, continuando fino a metà canzone quando tutto si sbriciola in un applauso sincero e commosso che le gradinate si scambiano con la band.

Tra la strada e le stelle ci introduce Elisa che compare brevemente spalleggiando Tommaso, in una prestazione bella e quasi sprecata, tanto da far invocare il suo nome a tutto il pubblico, che lo scandisce a più riprese, ma lei si abbraccia forte con lui e poi sparisce con il suo fare timido e quasi fuori posto, in quello che è senza dubbio il suo habitat naturale.

Il tuo maglione mio rimbomba subito dopo con la folla che si scioglie definitivamente di ogni pudore, prima che il palco si svuoti di musicisti e si riempia dell’ego di Fabri Fibra che anticipa la base di Pamplona, la nuova hit che cominceremo a odiare con l’incedere dell’estate, quando ogni radio ce la propinerà senza soluzione di continuità. Il pubblico è in piedi e salta a ritmo, il ritornello chiama cannoni fumogeni che smuovono l’aria surriscaldata del palazzetto, Tommaso si agita e si tira il cocktail addosso, ballando con il bicchiere tra le mani.

Il concerto è finito? Non ci crede nessuno, mancano le due hit principali degli ultimi due album e questo è un trucco che non ingannerebbe più neanche un cavernicolo. Tempo di riprendere fiato e cambiarsi il magliettone, che da scuro diventa candido, ed ecco che Tommaso torna cantando l’immortale Promiscuità, forse la canzone più riuscita del gruppo, quel misto di ambientazioni retrò, sesso occasionale, sigarette e tanta voglia di non invecchiare mai. Completamente chiude il circo, le mani battono a tempo, ogni bocca segue le parole di una canzone tenera e compromettente, siamo tutti lì a saltellare con lui, con i coriandoli che invadono il palazzetto, sparati in aria a inondare palco e pubblico.

L’applauso che chiude il cerchio è sincero, tra vecchi amici che si vogliono bene. Dalle casse parte Balla, altro pezzo niente male lasciato fuori dalla scaletta, tutti sono lì a raccogliere il giusto tributo, la band storica con il buon Leo Pari, acquisto dell’ultimo tour, gli Shazami (Mandelli e Russo) che hanno aperto il concerto dopo il DjSet di Calcutta, tutti saltano e si abbracciano.

Sul palco con loro è come se ci fossero i nostri anni ’80, e i nostri ’90, da De Sica a Verdone, da Nanni Moretti a Willy il principe di Bel Air, c’è tutto l’armamentario culturale che qualcuno voleva dimenticare e che ora riaffiora prepotente, con Tommaso Paradiso, con i Thegiornalisti e con noi, “trentenni alcolizzati”, insicuri e sorridenti; con noi che condividiamo i loro stessi ricordi bambini.

 

Il concertone è finito, andate in pace

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Via Emanuele Filiberto chiusa al traffico è una romantica sinfonia da città dopo un bombardamento, con i semafori che cambiano colore nel vuoto di macchine e routine.

Due camionette blindate annunciano blocchi di controlli e metal detector, sempre meno serrati degli stadi di Serie A. Il concerto è vicino. Un altro primo maggio a San Giovanni incombe, sul palco ci aspetta tanta Italia e una scaletta non troppo ambiziosa, rispetto ai ricordi di fasti andati.

Il meltin’ pot di genti e sorrisi si ritrova sulle strade, tra i palazzi che rimbalzano i suoni del concerto ancora lontano, tutti si riscoprono più uniti con la cosa più multiculturale che c’è, che anticipa persino la musica, c’è un pallone che schizza in aria inseguito da mani e piedi multietnici, nel loro splendido linguaggio universale; tirare calci.

Ex-Otago

Entriamo nella piazza che va colmandosi e sul palco troviamo gli Ex-Otago che ci accolgono a Marassi, subito dopo che qualcuno ha dimostrato quanto sia facile ridicolizzarsi davanti a migliaia di persone, ricordandoci, con la più spietata banalità, che ogni emozione si ascolta col cuore e non con le orecchie. C’è bisogno di una birra.

La Press Area ci accoglie mentre Motta batte il suo tamburo, il vento impazza e la folla si anima dei primi entusiasmi sinceri. Ci muoviamo nell’area riservata cercando qualcosa da raccontare, troviamo solo una riunione di vecchi amici e giornalisti annoiati. Tutti con in mano un piattino di affettati, fave, pasta fredda e un bicchiere del vino in cartone più democratico che ci sia.

Gli Ex-Otago sono ora appollaiati su pochi sgabelli, in posa davanti al backdrop, e sono gli unici che rispondono alle domande di tutti. Massimo Marino si aggira spettrale intervistando persone che non sapremo mai chi siano. Tanti scrivono convulsamente sui loro laptop, seduti al coperto sotto i gazebo preposti, vivendo l’esperienza del concertone attraverso i televisori appesi qua e là.

Le persone che dovranno raccontare l’evento lo seguono filtrato dalla tv e ne sentono l’eco scomposto dell’enorme retropalco, tutto agghindato a lutto.

Le Luci della Centrale Elettrica si prendono la scena ma Vasco Brondi non è nella sua migliore giornata, un giornalista un po’ ubriaco in fila per il bagno, oltre a mostrarci la sua indifferenza all’ennesimo primo maggio, ci spiega che è lo stesso problema di sempre, gli strumenti regolati in cinque minuti, il sound check inesistente e il ritorno in cuffia che ovatta tutto. Di certo non ci siamo innamorati de Le Luci per la voce da usignolo di Brondi. La pazienza che gli concediamo viene ripagata quando lo sentiamo cantare «sono sacri gli interessi dell’Eni» proprio sotto al simbolo giallo, al cane a sei zampe che campeggia tra i main sponsor dell’evento.

Le luci della centrale elettrica

I tempi televisivi impongono un lungo stop e la noia lambisce tutti gli angoli del quartiere. Quando Levante riattacca sul palco siamo già usciti dal limbo del backstage, la notte incombe e la folla si agita danzando. La piazza col buio sembra più piena e la cantante siciliana illumina la serata, scaldando la scena prima che si manifesti il pezzo forte di giornata.

Sono gli Editors, che dall’Inghilterra portano pioggia fitta e musica che ti sorride. Non si scompongono neanche di fronte alla distesa di ombrelli che si dipana davanti a loro, alle persone che vanno a nascondersi sotto gli alberi, ai capannelli che occupano la piazza fino alle insegne luminose dei paninari in fila.

Il concerto torna indie quando sul palco si affacciano quei bei ragazzi de Lo Stato Sociale, con gli abiti privi di una manica e una gamba, salutano le mani che si levano nel pubblico e chiamano in causa il Ministro Poletti e le sue infelici uscite sul calcetto, tornando quindi al sempreverde linguaggio universale del calcio.

Lo Stato Sociale

I ragazzi ci suggeriscono di mettere dei curriculum nei nostri palloni, lanciandoli sulla folla e partendo con l’immortale Mi sono rotto il cazzo. Canzone che non si vergogna di cantare «tutti a lavoro in auto, ma una persona per auto per finanziare meglio l’Eni» sempre sotto al simbolo che si staglia maestoso ai loro lati. La piazza è già tutta loro, quasi non serve quella battuta su Salvini, però fa sempre ridere.

La sfilata prosegue con Gabbani in splendida forma, mentre noi aspettiamo Brunori Sas, con la sua verve da intellettuale anacronistico. Attacca con il nuovo album, tutto fila liscio e si conferma uno degli artisti più promettenti della scena.

Tra una canzone e l’altra sbrodola anche qualcosa a proposito del lavoro su se stessi e sull’aggregazione, poi per fortuna si scagiona annunciando la profonda falsità dei cantanti, ci strappa un sorriso e si libera dalla banalità a comando da impegno sociale.

Clementino pensa a introdurci il resto della serata, insieme a Camila Raznovich che ha finito la voce quando ancora il sole era alto, non sono finite invece le storie strappalacrime e piene di retorica tra una performance e l’altra. Dovrebbero richiamare Vasco Brondi, o aspettare Bennato, e farsi spiegare come si possa parlare di qualunque argomento senza scadere nella più scontata moralità a buon mercato.

Arriva Ermal Meta e lo segue proprio Bennato, che esordisce cantando una frase che dovrebbe essere da monito «via da quei luoghi comuni», nell’incipit della canzone Pronti a salpare, con il suo ossessivo ripetersi del titolo.

Samuel

Attendiamo di scoprire live la nuova solitudine di Samuel senza i Subsonica, e non delude neanche così, prima di congedarsi ci lascia cantando Vedrai, uno dei singoli più riusciti del nuovo album, un inno alla speranza che ci strilla in faccia che «se siamo ancora qui, vedrai che un motivo c’è…».

Quando, dopo di lui, i Planet Funk cantano Who Said capiamo quel motivo e ci emozioniamo dei nostri ricordi bambini, la nuova formazione del gruppo illumina la scena e fa saltare convulsamente la folla già agitata. I Public Service Broadcasting chiudono la serata mentre gli angoli della piazza si smussano di persone che raggiungono la metro anzitempo. Una ragazza dai capelli lunghi e castani balla da sola con gli occhi chiusi.

Qualcuno provvederà alla sporcizia e all’incuria. Un giorno qualcuno provvederà anche ai lavoratori. Forse.