Il cattivo poeta: Sergio Castellitto fa rivivere Gabriele D’Annunzio

Il cattivo poeta con Sergio Castellitto
"Il cattivo poeta" con Sergio Castellitto e Francesco Patanè, foto di Paolo Ciriello.

Se si pensa a qual è una delle figure emblematiche nel panorama letterario italiano, non può non venir in mente il nome di Gabriele D’Annunzio. Figura da sempre associata al fascismo, ma, allo stesso tempo, unico uomo in grado di far tremare il regime dittatoriale instaurato da Mussolini, che, con il Vate, decide di intraprendere una “cordiale inamicizia”, paragonandolo a «un dente malato, che o lo si ricopre d’oro o lo si estirpa».

Da questa consapevolezza filologica parte il primo lungometraggio di Gianluca Jodice (regista e sceneggiatore), Il cattivo poeta, un film che si colloca in quel filone di opere contemporanee – di cui Matteo Rovere (qui in veste di produttore) è un anticipatore – che vedono nella storia italiana un substrato ricco di linfa per il cinema.

Con un tocco intimo, posato e artigianale, Gianluca Jodice conduce lo spettatore nell’intimo di un protagonista scomodo e controverso della nostra cultura, decidendo però di mostrarlo da un punto di vista originale. La sinuosità della macchina da presa si affianca, infatti, a Giovanni Comini (interpretato con delicatezza e discrezione da Francesco Patané, al suo debutto sul grande schermo), il cui occhio si pone allo stesso livello di noi spettatori: ospite silenzioso all’interno di un’amara e malinconica visione, quella di D’Annunzio (incarnato da un camaleontico Sergio Castellitto), che rimane però un eterno soggetto onnipresente e fuoricampo allo stesso tempo.

In ciò, diventa fondamentale non solo lo scontro/incontro con Comini, che rappresenta tutto ciò che D’Annunzio stesso era e che ha ormai perso (se il primo ha più futuro che passato nelle proprie vene, il secondo ha invece più passato alle spalle che futuro davanti), ma anche il Vittoriale, luogo deputato in cui il poeta, finanziato da Mussolini, si era posto in auto-esilio, in attesa di quell’ultimo sussulto di vitalità, rappresentato proprio dall’incontro con la figura del giovane federale fascista.

Jodice e Rovere – come hanno sottolineato nella conferenza stampa di presentazione – fotografano il Vate in quel logorante cul de sac nel quale il poeta decadente si è rinchiuso in un vortice di ossessioni che lo hanno trasformato in un recluso, in un mitologico Nosferatu (nota Rovere), che riversa la propria anima tormentata dentro la geografia dello spazio che abita (quasi come in uno sperduto “deserto dei tartari”). Spazio che non viene visto tanto come un deposito d’antiquariato, ma come un luogo archeologico di potenza, decadenza e desiderio vitale.

La regia, all’opposto, decide di essere pulita e controllata, al fine di lasciar scolpire la figura del Vate non tanto tramite eventi o dialoghi (che, in ogni caso, la sceneggiatura ricostruisce  con un lavoro meticoloso di documentazione), ma attraverso un’estetica affidata all’evocazione fotografica e scenografica (curate rispettivamente da Daniele Ciprì e Tonino Zera), in grado di restituire un taglio antico e classico con tonalità profonde come il giallo, il verde e il nero, che richiamano in più occasioni i dipinti metafisici di De Chirico.

Il cattivo poeta (coproduzione italo-francese che arriva oggi, con duecento copie, nelle sale) è dunque un’opera che si sgancia dal contemporaneo alla ricerca di nuovi codici, che tengano però sempre presente il tessuto culturale in cui siamo immersi. In questo contesto, sebbene l’aspetto filologico, soprattutto all’inizio, risulta eccessivamente pressante, si viene a delineare un film “epidermico”, dove, più che le parole, a risuonare sono le immagini