Marta Cuscunà e i suoi pupazzi meccanici da Marco Paolini

Marta Cuscunà
Marta Cuscunà con una delle sue creazioni (ph: Daniele Borghello)

Due volte finalista agli Ubu, premiata da Hystrio nel 2019 e dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro nel 2018 – per citare soltanto alcuni fra i riconoscimenti – Marta Cuscunà con le sue creature meccaniche sfida i confini istituiti del teatro di figura per dare vita a un eclettico progetto d’arte militante. I suoi corvi “meccatronici” scandiscono la narrazione della trasmissione La fabbrica del mondo di Marco Paolini in questi giorni su Rai 3.

Un teatro che è lupo vestito da agnello, smorfia nella risata, elaborato con il rigoroso team di lavoro – Marco Rogante, assistente alla drammaturgia e alla regia, e Paola Villani, scenografa – che accompagna la regista, drammaturga e performer nella creazione degli spettacoli, con cui fa luce nel labirinto dei conflitti sociali attraverso l’innocenza solo apparente di una manica di pupazzi.

Cosa ti ha portato al teatro?

A Monfalcone, quando ero alle superiori, c’era un corso gratuito di teatro per adolescenti organizzato dal Comune, in cui Luisa Vermiglio ci invitò a raccogliere storie della nostra città, dei suoi conflitti, del suo tessuto sociale. In una fase critica di costruzione della mia identità, mi rese da subito chiaro come il teatro potesse essere utile non soltanto alla creazione del proprio percorso di vita, ma come pratica cittadina, comune, per ragionare su chi siamo e dove viviamo.

Hai avuto dei maestri?

Dei maestri fondamentali. Joan Baixas per il teatro visuale, José Sanchis Sinisterra per la drammaturgia, Christian Burgess, Giuliana Musso a cui mi sono ispirata per l’approccio multidisciplinare: indago un tema attraverso studi ogni genere, dall’archeomitologia all’antropologia alla coreografia, liberamente. La prima idea non è mai quella finale. Per accettarlo bisogna cambiare mentalità, pensare che l’errore è parte del processo: non sapere le soluzioni dall’inizio ti porta a sorprenderti di quelle che trovi strada facendo.

Che rapporto ha Marta Cuscunà con le sue creature meccaniche?

Essendo ancora molto forte il pregiudizio nei confronti delle femministe, è molto più facile portare il mio discorso agli spettatori attraverso di loro piuttosto che attraverso il mio corpo: il pubblico è molto più disposto ad ascoltarle senza innalzare muri. Poi mi permettono di impersonare una gamma infinita di ruoli, ad esempio in Sorry, boys animo dodici personaggi contemporaneamente. Per progettarle e costruirle, Paola ricerca le soluzioni più originali: freni di bicicletta, pulegge, dischi autolubrificanti; e quando alla fine mi presenta di fronte l’immagine che avevo in testa ma vera, tridimensionale, funzionante, per me è pura magia. È la meccanica degli oggetti che mi dice come devo agire sul palco.

Nella trilogia Resistenze femminili racconti tre storie realmente accadute.

Sì. Con È bello vivere liberi!, del 2009, siamo nella lotta antifascista, con la giovanissima partigiana Ondina Peteani che capisce che il suo contributo di ragazza diciassettenne è fondamentale per smantellare una dittatura e cambiare il Paese. La semplicità ingannata, del 2012, è ispirato alla vicenda del convento Santa Chiara di Udine, trasformato dalle Clarisse in uno spazio di contestazione, di libertà di pensiero, di dissacrazione dei dogmi religiosi e della cultura maschile. Siamo a cavallo tra Cinquecento e Seicento, e Arcangela Tarabotti, una proto-femminista a tutti gli effetti – un momento in cui si riteneva che le donne neanche avessero l’anima – rivendica il diritto all’autodeterminazione per le donne. Una cosa incredibile.

Marta Cuscunà
Marta Cuscunà durante lo spettacolo “Il canto della caduta” (ph: Daniele Borghello).

In Sorry, boys diciotto ragazze condividono il patto segreto di rimanere incinte e crescere i bambini in una sorta di comune femminile.

È l’ultimo spettacolo della trilogia. Era il 2016, la realtà che avevo davanti stava cambiando – con il movimento Me Too, #quellavoltache, YoSiTeCreo, i Fridays For Future – e questo spettacolo per me esprime la necessità di non limitare più il discorso della parità di genere alle donne. Sorry, boys porta in scena tutti gli esclusi da quel patto segreto di maternità: sono i ragazzi a interrogarsi, anche in modo buffo, sulla loro sessualità, su quello che vedono nei film porno, aprendo un discorso sulla violenza degli stereotipi maschili, imposti dallo stesso patriarcato agli uomini. Una mascolinità tossica che rimane ancora troppo spesso in secondo piano, e che impedisce agli uomini di vedere quanto lo smantellamento di un sistema maschilista aprirebbe anche per loro degli spazi di libertà dove realizzarsi senza il peso di quegli stereotipi.

Gli spettacoli della trilogia attraversano cinque secoli di storia.

Per me è stato sconvolgente capire quanto in profondità nel tempo fosse piantato il seme della rivendicazione femminista. Nel j’accuse de La semplicità ingannata, Arcangela Tarabotti smaschera apertamente tutte le forme di autorità patriarcale seicentesca. Quello che colpisce di una storia apparentemente lontana, che parla di monacazione forzata, sono le analogie con la contemporaneità: quest’idea della figura femminile che viene costantemente valutata e monetarizzata a seconda dell’aspetto fisico, della disponibilità sessuale, del carattere mansueto. Tutti concetti che oggi, seppure con termini diversi come la «bella presenza» richiesta nelle offerte di lavoro, ricordano a noi donne che la nostra bellezza è metà, se non di più, del nostro valore come persone.

Come si fa a sviluppare una libertà di pensiero così grande in un contesto di costrizione?

In questi giorni ho ripreso in mano Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf. Mi sembra centrale l’idea di avere un angolo proprio, dove scoprirsi al di fuori degli schemi disegnati da altri. Quello che mi ha colpito della storia delle Clarisse è il fatto che, per non accontentarsi delle briciole che il sistema dava loro, hanno avuto bisogno di chiudersi, difendersi, proteggersi per immaginare qualcosa di completamente diverso. Perché è facilissimo accontentarsi delle piccole concessioni. Ci fa confondere restare dentro un mondo che non ci lascia spazio, e chiudersi in una stanza tutta per sé a volte è l’unica soluzione. Nel titolo di Sorry, boys per me c’è tutta la tristezza di questa separazione: «ci dispiace, ragazzi, ma in questo momento il mondo non è all’altezza dei nostri sogni, dei nostri desideri, dobbiamo chiuderci in una stanza tutta per noi per immaginare qualcos’altro». Ed è un pensiero che vale per tutte le categorie discriminate, con la necessità di trovare un proprio linguaggio, un proprio spazio di espressione di sé.

Quando lavori a uno spettacolo a che pubblico pensi?

Scrivo pensando di rivolgermi alle generazioni più giovani della mia perché ho la sensazione, la speranza, che il teatro possa diventare per loro uno strumento di cambiamento della società. Il campo di osservazione che ci viene proposto a scuola sulla storia dei femminismi è molto riduttivo, eppure oggi ci troviamo di fronte a una realtà che per me quando ero piccola, o anche solo dieci anni fa, era impensabile. Mi sento molto ottimista. Credo che stiamo scrivendo delle pagine di storia.