Beginning: nottambuli, ubriachi e malati d’amore

Beginning
Francesca Inaudi e Giovanni Scifoni sono i protagonisti di "Beginning", in scena fino al 31 dicembre.

Il sipario si alza su un appartamento chic nel nord di Londra: è notte. Il genere di notte che riguarda solo chi resta sveglio quando la festa è finita. Chi è troppo triste o troppo solo per andarsene a dormire.

Una donna è ubriaca sul divano della casa che ha appena comprato: è Laura, 38 anni. Un uomo è ubriaco nel salotto di Laura: è Danny, 42. Lei ha dato una festa d’inaugurazione, lui era l’accompagnatore di un amico. Si ritrovano soli e non è un caso. In questo momento sono ancora due estranei, ma nei prossimi cento minuti decideranno d’innamorarsi. È una notte che cambierà le loro vite, e noi ci ritroviamo a fare il tifo per questi due disperati che hanno ancora il coraggio di sfidare la roulette russa dei sentimenti, con tanto di applausi a scena aperta quando saranno finalmente pronti a spogliarsi l’uno di fronte all’altra. «Scusa. Per la pancia», dirà lui in mutande, con un divorzio alle spalle che lo ha allontanato dalla figlia e da qualsiasi donna. «Non pensi che sia pazza?», chiederà lei coprendosi come può, reduce da una relazione di dieci anni, orfana di padre e di madre.

Abbiamo visto Beginning al suo debutto romano, ora in scena al Teatro Sala Umberto fino al 31 dicembre, con Francesca Inaudi e Giovanni Scifoni protagonisti assoluti. Il casting rivela una delle migliori coppie teatrali degli ultimi tempi. Simone Toni firma la regia della trasposizione italiana del primo capitolo della trilogia di David Eldridge (avviata nel 2017 e proseguita nel 2022 con Middle): ai più nostalgici ricorderà il trittico di Richard Linklater (Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight) ma il retrogusto è quello di film amarissimi come Last Night di Massy Tadjedin e In the mood for love di Wong Kar-wai. La vera sfida vinta da Toni, va detto, è tipicamente autoriale: ci ricorda che si può fare davvero un teatro pop di qualità (discorso a noi sempre caro, soprattutto se parliamo di registro contemporaneo). E sul pubblico l’effetto è straniante. Si ha l’impressione di osservare dal buco della serratura qualcosa che non ci riguarda ma che in fondo è capitato ad ognuno di noi: l’insostenibile leggerezza di tornare a fidarsi di qualcuno, dopo aver amato e fallito. Oltre la percezione canonica della pièce teatrale, assistere a Beginning è come ritrovarsi spettatori di un film dal vivo.

Tra i veri meriti dello spettacolo c’è quello di riuscire a raccontare una storia semplice senza però rassegnarsi a una messa in scena semplicistica. Al contrario, le possibilità tecniche ed estetiche del linguaggio teatrale vengono sfruttate creando tensione con ogni mezzo. Tra le migliori scelte di Simone Toni, c’è poi quella di rinunciare ai microfoni in nome di un’atmosfera più intima, sulla scia del minimalismo e dell’iper-realismo britannico. Ai suoi attori chiede uno sforzo in più per conciliare emissione vocale e interpretazione, ma il risultato premia tutti.

Un momento in particolare è rivelatorio: Inaudi si avvicina alla finestra ed esce in terrazzo, tragicamente sexy nel suo abito di raso rosa (che grazie alla costumista Francesca Grossi la rende esattamente il personaggio che dev’essere: crepata dentro e irresistibile fuori). Lei esce, Scifoni rimane in scena ad aspettarla. È una pausa drammaturgica intensa e lunga, che ci offre il tempo di capire cosa funziona in questo adattamento: le tende respirano, il controluce rende imponente la sua silhouette, e sul palco è come se il fondale non esistesse. Perché Londra lì fuori non si vede, ma arriva tutta la potenza della city ostile e frenetica. A pochi metri da noi c’è Piazza di Spagna e quell’appartamento in cui morì John Keats: non sembra più una coincidenza.

La scenografia di Alessandro Chiti racconta molto. L’arredamento riempie ogni spazio, la palette è identificativa del personaggio di Laura: una che ha buon gusto, ha fatto carriera e può sfoggiarlo. Il caos è ragionato e mimetizza gli oggetti senza mai svelarli prima del dovuto, così ci è concesso perfino di stupirci (e veniamo sollevati dal tipico sforzo di immaginare un loft osservando solo un tavolo e un abat-jour). Poi ecco che si affaccia un suono che sembra provenire da fuori e invece è diegetico (una chicca creata dal sound designer Andrea Mazzucco): è il camion della spazzatura. Passa mesto, carica e poi scarica. Una pausa e poi ricomincia daccapo. È il rumore che culla i nottambuli, gli ubriachi e i malati d’amore. Il segnale che anticipa l’alba e ci rassicura: anche le notti peggiori finiscono. Ma al teatro non te lo aspetti, perché è come se la rievocazione attraverso i rumori fosse prerogativa esclusiva dell’audiovisivo.

Sul palco quei due fanno di tutto. Mangiano hot-dog, ballano tre hit di fila (Lady – Hear me tonight, Song 2 dei Blur e We no speak americano), riordinano un appartamento senza simulare nulla, rimangono nudi come fossero su un set con troupe ridotta anziché in una sala sold out. Scifoni trova la sua dimensione portando in scena un’interpretazione da cinema, non carica mai troppo e si becca la risata su ogni battuta che la chiama. Passa dal registro ironico a quello pietistico, e riesce nell’impresa di rendere credibile un tipo di uomo che è un agguato alla nostra comfort zone: uno che soffre per la fine di un matrimonio e rivendica il tempo di cui ha bisogno per ritrovare fiducia. Il sesso occasionale lo terrorizza: «Come funzionerebbe? Se andiamo a letto. Vorresti rivedermi? Non mi taglierai mai fuori?».

Se crollasse uno dei due, crollerebbe tutto. E invece funziona, perché Inaudi e Scifoni giocano lo stesso campionato. Lei è nel suo habitat, passa dalla sbronza molesta alla seduttrice sarcastica, canta Like a virgin cavalcando il tavolo del salotto, interagisce con ogni elemento scenico con una carica voluttuosa che le appartiene da sempre. Prepara un panino pulendo un po’ le dita sullo straccio e un po’ leccandole. Ma un attimo dopo si esibisce in una crisi nervotica: la voce le si spezza in gola mentre deve dire: «Resta». «Tu mi piaci». «Non voglio passare un’altra domenica da sola».

In questo gioco di seduzione coreografato sul dramedy, l’atto finale è un vero esercizio di equilibrio: i due, stremati, siedono insieme sul divano. Al cinema sarebbe un bellissimo campo lungo. Qui è l’incipit del monologo più autentico di Beginning, e Inaudi lo interpreta come se fosse un fatto personale, come se l’avesse sussurrato lei all’orecchio di Eldridge: «Voglio essere sposata. E voglio un marito normale su cui poter contare. E voglio ancora il cazzo di vestito bianco. E voglio mettere tutte le foto su Facebook. Tutte, anche quelle venute male. Voglio le foto con te che mi baci sui gradini della chiesa. Di te che balli con me su un pezzo dei Bros». È la resa del baluardo radical chic, dell’emancipazione forzata e dell’individualismo miope. È anche la conferma che ogni ruolo drammatico da protagonista negato al cinema a quest’attrice, è una perdita per tutti.

Silenzio. Danny: «Mi ricorderò di questa serata quando sarò vecchio». Silenzio. Laura: «Mi ricorderò di questa serata quando sarò vecchia». Nel pubblico qualcuno tira su con il naso. Beginning si è aperto con Chelsea Dagger dei Fratellis e si chiude con Bloom dei Paper Kites. Se fosse un film, ora i titoli di coda scorrerebbero su Londra che albeggia. Nonostante chi scrive provi sempre una certa repulsione nel leggere frasi come “fatevi un regalo: andate a teatro”, stavolta fatevelo davvero un regalo, ché è pure Natale. Sipario: trionfo di applausi e fazzoletti.