C’è un soffio di vita soltanto, storia della più longeva transessuale italiana

    C’è un soffio di vita soltanto
    Lucy Salani, protagonista dell'ultimo film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, "C’è un soffio di vita soltanto".

    Il nuovo film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è un documentario. C’è un soffio di vita soltanto è un ritratto sui generis di Lucy Salani, la più longeva transessuale italiana, cresciuta sotto il fascismo, sopravvissuta a Dachau, rigettata dalla famiglia una volta di ritorno in Italia, passata dai palcoscenici a un laboratorio di tappezzeria, dal catechismo alla prostituzione, dall’essere madre all’essere nonna d’adozione, fino a vedere avvicinarsi il secolo di vita in mezzo alla più grande epidemia della modernità.

    Il percorso produttivo del film inizia poco prima dello scoppio del contagio (ironia della sorte: il loro lungometraggio precedente si chiama proprio Il contagio, riprendendo il titolo  dell’omonimo romanzo di Walter Siti al quale è ispirato). Le visite e gli incontri con Lucy nel suo appartamento bolognese seguitano mentre restrizioni e confinamenti imperversano tutto intorno. Intanto, da piccolo film indipendente, il progetto cresce e Botrugno e Coluccini alzano il tiro, altre forze si aggiungono per rendere possibili i nuovi obiettivi. Poi saltano le celebrazioni che avrebbero previsto anche la partecipazione di Lucy Salani a Dachau – unica sortita fuori dalla microgalassia casalinga – ma i due registi insieme alla loro protagonista affrontano comunque un viaggio avventuroso e nel settembre del 2020 registrano le immagini che chiudono il film: la vecchia donna, sola, attraversa i viali di quello che fu uno dei più efficienti campi di sterminio nazisti, fronteggiando i luoghi dei suoi giorni più bui e quasi contrapponendo la sua vita resistente all’algida e silenziosa immobilità di quelle stanze, di quelle mura, di quei cancelli.

    Nella sua forma essenziale il film aggiunge qualche incontro casalingo, la presenza del coinquilino nipote adottivo di Lucy, e rare, brevi, remote immagini d’archivio in bianco e nero che scandiscono il corpo del lungometraggio come squarci aperti su un universo alieno, indifferente e lontano. Un trovata originariamente ingenua – un modo per imprimere un movimento ulteriore alla testimonianza della protagonista proiettandola sullo sfondo di allusioni alla sua passione per la fantascienza, e forse anche alle sue effettive e concretissime avventure nello spazio e nel tempo – che si trasforma subito in scelta oculata, la costruzione immediata di una dimensione aggiuntiva del film: l’invenzione di un orizzonte epico e tragico sul quale si stagliano più nitide e trasfigurate da una inattesa messa in proporzione le parole della protagonista.

    Matteo Botrugno e Daniele Coluccini
    Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.

    Le difficoltà materiali e logistiche in mezzo alle quali il film è stato realizzato hanno lasciato tracce: il duo di registi romani incappa qua e là in qualche inciampo, e nonostante, dopo l’incipit suggestivo, il film sembri volersi appoggiare alle rassicuranti e temibili ritmiche dei dialoghi-intervista, una certa tensione e una chiara intensità spingono presto fuori dal quadro le tiritere del birignao documentaristico nostrano, lasciando posto a uno sviluppo felicemente eterodosso, a un quotidiano e dimesso splendore. Un luogo delle immagini in cui a Lucy è concesso esprimere la propria selvaggia e sofferta libertà accostando filastrocche e versi poetici al racconto disgustato della violenza subita e di quella testimoniata.

    Le eclissi solari e i pennacchi che si elevano dai bordi della stella infuocata, i fumi e le fiamme di vulcani in eruzione, la crescita di un embrione diventano il controcampo alla dimensione claustrale, intima, riparata e quasi segregata nella quale sembra Lucy si muova e parli, dentro i ricorrenti, insistiti e affettuosi primi piani che costituiscono la struttura portante del film. Così forse C’è un soffio di vita soltanto, oltre a raccogliere in una forma laconica ma coerentemente fuori canone la testimonianza preziosa d’un’esistenza che va dissolvendosi, diventa uno dei migliori film sulla nuova condizione nella quale la pandemia ci costringe tutti: in un racconto intimo e riflessivo il presente e il passato sembrano toccarsi, il personale lievita e si proietta nell’universale, il corpo si espande fino a occupare ogni possibile orizzonte, tanto da spingere la mente verso l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.

    Dopo la presentazione in anteprima mondiale al Torino Film Festival, in sala da oggi e poi in onda su Sky e sulla Rai.