Ombre: il cinema libero di John Cassavetes

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John Cassavetes, regista americano dalle origini greche, è geniale quanto iconico. La sua attività di regista si svolge ai margini del sistema hollywoodiano – dopotutto ha preso a pugni il produttore più potente di Hollywood, Stanley Kramer, giocandosi la carriera – ma ha sempre rifiutato il ruolo di icona del cinema indipendente. Il suo unico obiettivo è la sincerità, rifugge da qualsiasi intellettualismo, scrive e dirige film privati e familiari incentrati sulla vita quotidiana delle persone, sceglie attori poco conosciuti o non professionisti, lavora con troupe ridotte e monta e rimonta i suoi film all’infinito.

Per riuscire a finanziare le sue opere arriva a ipotecare casa e a lavorare come attore (come Orson Welles) in pellicole spesso mediocri; nel corso della sua carriera recita in ben settantacinque film per essere completamente libero di girarne appena dodici. Il più alto incasso della sua carriera è stato quello di Una moglie, poco più di sei milioni di dollari, una cifra irrisoria rispetto alla media delle pellicole hollywoodiane.

Ombre (Shadows) è il suo primo film, finanziato grazie ad un annuncio sul New York Times e a una richiesta di fondi lanciata via radio nel corso di una trasmissione notturna. «Il principale vantaggio del fare un film come l’abbiamo fatto noi è che abbiamo avuto piena libertà. Probabilmente non è mai stato realizzato un film più libero.», lo dice in radio lui stesso «Pensate a quanto sarebbe bello, se a fare film fosse la gente qualunque, e non quei parrucconi di Hollywood che pensano solo al business. Volete un i film che parli di cose vere, di gente vera? Non avete che da mandarmi i soldi perché ve lo faccia io», in questo modo racimola duemila dollari. In breve, ancora prima di girare la sua opera prima, Cassavetes esprime la propria idea di cinema, simile a quella di Pasolini «Preferiamo film imperfetti ma vivi a film falsi. Non vogliamo film rosei: li vogliamo del colore del sangue».

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Cassavetes gira la pellicola in 16 mm, tra il 1959 e il 1960, in bianco e nero, con una fotografia sfocata e una troupe di appena sei persone, investendo circa 15.000 dollari. Il film si chiude con il cartello «The film you have just seen was an improvisation» e infatti viene girato a canovaccio, senza sceneggiatura, con la camera a mano che segue il cammino dei protagonisti senza interferire mai, gli attori improvvisano e il sonoro viene registrato in presa diretta.

Hugh (Hugh Hurd), Lelia (Lelia Goldoni), e Ben (Ben Carruthers) sono tre fratelli afroamericani che vivono a Manhattan e rincorrono le proprie ambizioni per le strade e i locali di New York. Come ombre, i tre fratelli si muovono in atmosfere notturne rischiarate da insegne al neon e dal chiarore lunare, come suggerisce la locandina del film (Gli amanti del chiaro di luna) di Roger Vadim sulla quale Lelia si sofferma, incantata da Brigitte Bardot. Hugh, il più grande, è un cantante jazz che si arrangia nei nightclub, Lelia sogna di diventare una scrittrice, frequenta i circoli intellettuali, desidera il riscatto sociale e si finge bianca come Ben (i due hanno la pelle più chiara rispetto al fratello). Proprio Ben è il più giovane dei tre e frequenta un gruppo di ragazzi bianchi che passano le giornate a bighellonare e a combinare guai. Quando Lelia porta a casa il suo corteggiatore, Tony (Anthony Ray), il ragazzo capisce di essere stato ingannato e l’abbandona, spezzandole il cuore.

Ottenere nell’America di Eisenhower la distribuzione di un film sulle relazioni interrazziali si rivela impossibile, per questo John Cassavetes porta la pellicola al Festival di Venezia, ottenendo il favore della critica e alcuni premi minori. Rivalutato solo in seguito, Ombre diventa un piccolo film di culto per modernità, stile e tematiche.

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L’incipit è folgorante: c’è una festa piena di gente, Ben è spaesato, si sente fuori posto e si allontana in silenzio. Il tutto è ripreso con una tale attenzione alle espressioni del volto del ragazzo, che le sue sensazioni di disagio ci appaiono subito reali. Il problema del razzismo è sia centrale che relativo e viene vissuto in maniera differente e assolutamente personale dai tre fratelli. Questo concetto viene esplorato su vari piani, compreso quello musicale: Self-Portrait in Three Colors è il titolo allusivo della partitura jazz del compositore Charles Mingus, le tre tonalità a cui si riferisce sono proprio le diverse sfumature della carnagione dei tre fratelli e, quasi per riflesso, i loro diversi approcci alla questione.

La critica di Cassavetes però è soprattutto rivolta al dramma dell’omologazione che, verso la fine degli anni ’50, ha finito per privare i giovani americani della capacità di credere in qualcosa e di identificarsi in essa. La diversità espressa da Ombre non risiede nel colore della pelle ma in quella delle persone (e non dei personaggi), nell’orgoglio di Hugh, nel coraggio di Lelia che paga il prezzo di essere una donna libera tra uomini che le chiedono «a chi appartieni» e nell’inquietudine di Ben che alla fine del film ritroviamo solo, a vagare, così come l’avevamo incontrato.

Martin Scorsese ha definito Ombre «una visione di verità quasi insostenibile», i tre fratelli sono ombre reali ma spesso invisibili, in una città che ha smarrito sé stessa. Eppure, le ombre di Cassavetes prendono forma sul set dai ritratti a carboncino realizzati da uno degli attori, che li intitola proprio Ombre. Come silhouette dai profili sfocati Lelia, Hugh e Ben diventano tracce di un’esistenza precaria e confusa, ombre sfuggenti ma reali, impresse sia su un foglio che sulla pellicola, ormai impossibili da ignorare.