Calcutta, dalla stanza accanto

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Adesso sembra tutto normale. Anche un po’ sottodimensionato. Dopo l’amplesso di Latina, le glorie di Verona e le multisale d’Italia, vederlo in un palazzetto sembra una cosa quasi riduttiva. Eppure, fino a qualche anno fa il nome Calcutta brancolava nel buio di piccoli locali di periferia, lontano dalle luci della ribalta e dai riflettori ideali di ogni radio, tv, network e sito web che anche lontanamente si siano occupati di musica. Un nome strano, sconosciuto ai più. Poi qualcosa è successo, forse stava già succedendo, ma è difficile delineare veramente se lo sdoganamento della musica indie abbia fatto bene a Calcutta, o se sia stato Calcutta stesso ad essere l’alfiere che ha permesso tutto ciò.

Quando il video del bambino ciotto e con la maglia a righe apparve, qualcosa si stava ramificando in un tessuto musicale sfilacciato, fatto di generi distinti e scarsa fiducia. Una voce strana si chiedeva cosa ci mancasse a fare, qualcosa che ancora non c’era. Ma poi è uscito Mainstream, a mo’ di profezia, e come un fiore dai mille petali sono spuntate canzoni e cantanti in una lunga primavera che si protrae fino ad oggi, molti sono appassiti o destinati ad appassire, all’ombra di una vegetazione che, invece, sembra florida e resistente, quella di questa nuova musica italiana di cui tutti parlano.

E proprio quando Sanremo accetta e assorbe quest’ondata indie, e persino quella trap, nelle sue fila, il nostro di Latina decide di giocarci su, mettendo le sue due date romane proprio in contemporanea ai primi due giorni di Festival, registrando comunque due sold out facili e orgogliosi. Così quando le luci del Palalottomatica si spengono ed una musica ad effetto parte in sottofondo ad annunciare lo show, sullo schermo appaiono minacciosi flash di Sanremo, immagini di Baglioni e Bisio, Orchestra e Nino d’Angelo.

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Brevi fotogrammi che si insinuano tra i visual (sempre sorprendenti) dell’Evergreen tour, si rincorrono tra il buio immagini paillettate dall’Ariston di fiori e completi scuri. Sotto all’enorme schermo invece entra Edoardo, con il suo passo ciondolante, giunge fino a centro palco senza bisogno di presentazioni, un k-way multicolore ed un cappello da baseball collidono con il clima barocco della diretta nazionale che ogni tanto lampeggia alle sue spalle, come fosse nella stanza accanto, ma stavolta non è lì che sembra tutto più bello. Parte la splendida Briciole, a rompere il ghiaccio, e poi la cascata di tutti gli altri brani, non è uscito un nuovo album dall’ultimo concerto, quindi il repertorio è lo stesso, racchiuso in pochi anni di carriera che però già sembra raccontare un’epopea generazionale.

Potremmo metterci ancora a sviscerare le sue note più pure, le sue sincerità in ogni canzone, i suoi guizzi poetici all’interno di ogni testo asciutto ed il suo diretto intimismo, ma soprattutto il suo sembrare al contempo naturale ed inappropriato. Parla con un’abilità oratoria straordinaria e totalmente goffa, sembra non dirti mai niente di sincero, eppure ti si rovescia lì, interamente, con l’anima che sbrodola nel suo guardarsi intorno, incerto, chiedendo lumi alla vocal coach, facendo cenni ai musicisti, ai tecnici al mixer, alle coriste in fila alla sua destra.

Migliaia di persone sono in festa e cantano ogni canzone, anche quelle più vecchie, quelle che Spotify non ha fatto in tempo a raccogliere nel suo parco giochi. Il palazzetto è vivo e vivido nonostante lo stato di polizia di steward e forze dell’ordine, più incattivite che mai (effetto Sferaebbasta probabilmente); il palazzetto è una festa di colori, di fan adolescenti, ragazzi post-hipster, famiglie, una fauna intergenerazionale unita dalla stessa leggerezza esistenziale, figlia di Latina, di Bologna, dei viaggi in treno, dei cieli profondi, di amori sciatti e di grandi illusioni.

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Come tradizione vuole, anche stasera, prosegue la sfilata di cantanti amici, di protagonisti della nuova scena nazionale che fanno la fila per partecipare alla festa. Prima di Oroscopo appare sullo schermo il faccione di Fiorello, spalleggiato subito dopo dal sempreverde Paolo Fox, ad annunciare la canzone in tema, anticipando Cosmo, con la solita carica elettrica che si porta dietro, ultimo successore di Tommaso Paradiso, Giorgio Poi, Frah Quintale, Elisa, Francesca Michielin, ecc. ecc.

Il pubblico risponde forte, ma siamo appena a metà concerto, un’altra decina di pezzi ci trascinano senza soluzione di continuità fino a Gaetano, Frosinone e Pesto, a chiudere un’altra serata splendida, in cui tutto sembra così dannatamente facile, come dev’essere scrivere per Calcutta, com’è per lui costruire una hit. Niente bis, ma saluti a casa, parole sorridenti e balbettate sornione, ad asciugare il sudore tra i capelli sulla fronte. Il concerto finisce e ci lascia ancora senza fiato, senza voce, al termine di un lungo flusso di coscienza condiviso, che ci saluta e ci abbandona tutti con un sorriso. Alcolico e stonato, ma dannatamente vero.