Chi sta bussando alla mia porta? Martin Scorsese e la New Hollywood

martin scorsese

Nato nel Queens, figlio di immigrati siciliani, brillante esempio della New Hollywood, Martin Scorsese è uno dei più importanti registi della storia del cinema. La sua filmografia è il riflesso di un costante interrogarsi su come sia possibile condurre un’esistenza cristiana in un mondo dominato dal male, per questo i temi centrali dei suoi film sono la violenza istintiva, il senso di colpa e il peccato. «Vivendo nella Little Italy di Manhattan potevi scegliere fra diventare gangster o prete. Io scelsi la via religiosa, ma finii per diventare un regista» da bambino l’asma e la piccola stazza non gli permettono di entrare nella gang di quartiere, lo salva proprio quell’emarginazione forzata, a casa non ci sono libri e allora trova rifugio prima in chiesa e poi al cinema. Non ha una cinepresa, passa il tempo a disegnare storyboard di film immaginari, per poi intraprende gli studi di cinema a New York, più per conoscere altri con la sua stessa passione che per fare il regista.

È considerato uno dei più grandi registi viventi, il suo stile è un mix tra il Neorealismo italiano, la Nouvelle Vague francese e il cinema americano indipendente. Premiatissimo, amato da pubblico e critica, osannato ma non esente da flop, Martin Scorsese ha legato la sua carriera ad attori feticcio come Daniel Day-Lewis, Harvey Keitel, Joe Pesci e soprattutto Robert De Niro e Leonardo DiCaprio.

Quello del regista del Queens è un cinema fatto di solitudini laceranti, pulsioni autodistruttive, ossessioni, ma soprattutto di uno squarciarsi feroce dell’American Dream attraverso la perdita dell’innocenza e la seduzione del male. I suoi protagonisti sono sempre uomini comuni, antieroi e emarginati, spesso assoggettati dalla vita da clan e dal maschilismo. Scorsese ne umilia spesso il pensiero distorto, mostra le falle del machismo e, in certo senso, per loro e per sé stesso, chiede perdono.

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Chi sta bussando alla mia porta? (Who’s That Knocking at My Door?) è un dramma autobiografico girato nel corso di diversi anni, la pellicola ha subito molti cambiamenti, a partire dal titolo: nasce nel 1965 come Bring on the Dancing Girls, un corto-saggio della scuola di cinema di New York, Nel 1967 viene aggiunta la storia d’amore e il film diventa un lungometraggio, I Call First, infine nel 1968 viene aggiunta la scena erotica alla pellicola ribattezzata Who’s That Knocking at My Door?, l’ultima versione dell’opera prima di Martin Scorsese.

New York, 1967. Tre amici italoamericani: J.R. (Harvey Keitel), Joey (Lennard Kuras) e Sally (Michael Scala) trascorrono le loro giornate tra bar, bische, pestaggi e prostitute. J.R. è un ragazzo di Little Italy affascinato dal cinema western e da John Wayne (un po’ come Jean Paul Belmondo in À bout de souffle, stregato da Humphrey Bogart), un giorno incontra per caso una ragazza colta e affascinante, Katy (Zina Bethune), su un traghetto diretto a Staten Island. Se ne innamora, i suoi sentimenti sono ricambiati ma la ragazza gli confessa di essere stata violentata dall’ex fidanzato. J. R. la rifiuta e non le crede, la giudica quasi colpevole ma poi si pente e dichiara di volerla sposare comunque. Katy capisce che J.R. la considera una peccatrice e lo rifiuta, allora lui l’accusa di essere «una puttana da quattro soldi che nessun altro sposerà mai» e si rifugia in chiesa, realizzando di non poterla accettare per davvero.

Il protagonista di Scorsese si condanna da solo all’ipocrisia e alla solitudine, divide il mondo con ragazze facili e perbene, le pulsioni sessuali sono per le prime e l’amore è per le seconde. J.R. è il ritratto del cattivo bravo ragazzo, della sconfitta esistenziale, oltre che morale, dell’individuo chiuso nel proprio perimetro narcisistico e ossessivo, limitato da una visione bigotta e distorta della donna e dell’amore. J.R. volta le spalle e giudica Katy, dice di amarla ma appena non riflette l’immagine idealizzata che lui si è costruito, la colpevolizza e l’abbandona anziché ascoltarla.

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Con uno stile quasi documentaristico, Scorsese nasconde la macchina da presa in mezzo agli oggetti, tra le sedie e le bottiglie dei bar; si sposta con l’obiettivo tra una soggettiva e l’altra cercando di fornire più punti di vista, e a volte ricorre a un’unica sequenza per dare risalto alla spontaneità dei dialoghi. Il regista italo-americano imbastisce una regia fatta di specchi, inquadrature dall’alto, zoom veloci e primissimi piani, scene a rallentatore e fermi immagine per permettere allo spettatore di concentrarsi sulle parole dei personaggi, come quando la macchina da presa indugia su icone e crocifissi durante la confessione di J.R. e la musica jazz s’espande. O come quando, al contrario, durante la scena erotica la macchina da presa si muove senza sosta, in circolo, mentre i Doors in sottofondo cantano The End, come un presagio.

A bussare alla porta è il talento, un nuovo modo di fare cinema. Martin Scorsese, insieme a quelli che verranno chiamati in modo dispregiativo i movie brats (Brian De Palma, Francis Ford Coppola, Steven Spielberg e George Lucas), è cresciuto guardando il cinema europeo e, neanche trentenne, tenta un nuovo approccio che il cinema americano a primo impatto rifiuta. Non a caso Scorsese dichiara «Non sono un regista di Hollywood, sono un regista nonostante Hollywood» e si diventa grandi, soprattutto, nonostante.