Fulminacci e il mestiere della vita

Poco più di vent’anni di età, una chitarra ed una musica che suona nuova eppure legata ad un passato non troppo remoto, una musica che sembra avere scavalcato o scartato gli ultimi 15 anni evolutivi della canzone Italiana, che rientra nella coda del filone della musica indie tricolore (o itpop che dir si voglia) evitandola però, volgendosi dall’altra parte, strizzando l’occhio alla scuola anni ’90, a quella scena romana che senza troppo esibizionismo ha mantenuto viva la fiamma del cantautorato nostrano. Fulminacci suona la sua chitarra sul palco del Largo Venue, e suona la sua scala emotiva riportandoci fortemente a Daniele Silvestri, con echi di Tiromancino, Jovanotti, Irene Grandi e Bersani, una fascinazione alla Stefano Rosso, e la sensazione di essere un fratello minore, e compagno di merende, di Willy Peyote, Leo Pari e Calcutta.

Fulminacci non è scollegato dal suo tempo, anzi nei suoi giovani testi ci introduce alla nuova gioventù, quella che non ostenta, quella che non deve forzare musiche innovative né tatuarsi la faccia per emergere, Fulminacci ci mostra una maturità sorprendente unita alle presunzioni della giovinezza, sacrosante spavalderie di chi ci spiega la vita prima di averla vissuta. Ma come ci diceva Ligabue, forse a diciott’anni invece già sai tutto. Dentro al viso da bravo ragazzo ed alla sua mise semiseria c’è tutto questo, ispirazione e semplicità, il racconto di una borghesia discreta, la middle class della crisi e dei millennials, i racconti della periferia, ma non quella inflazionata, le buche nelle strade e l’attesa degli autobus, non sparatorie e macchine di lusso. Fulminacci è uno normale e ci tiene quasi a dircelo, nel locale quasi pieno, per il suo primo concerto in assoluto, dopo l’entusiasmo suscitato dai suoi primi singoli, lanciati sul web negli ultimi mesi; un pubblico che si è raccolto con curiosità e partecipazione e si è mischiato agli amici d’infanzia del cantante, ai conoscenti di zona, ai parenti vicini e lontani, nipoti veri e d’adozione seduti ai bordi del locale.

C’è la fila fuori al Largo Venue, sorrisi che superano i cancelli, biliardini che si animano, luci che si accendono. Il concerto comincia più tardi, per far acquistare l’ingresso a tutti, per far bere una birra al bar, per scaldare una sala che si va riempiendo, per uno spettacolo che per forza di cose durerà poco, un’ora stiracchiata, grazie alle tracce dell’album fresco fresco di release, un paio di inediti (Ladispoli e la sorprendente San Giovanni che speriamo di trovare a breve disponibile), una cover ed un paio di bis che farciscono una bella serata.

fulminacci

Difficile che la folla conosca i testi delle canzoni appena uscite, così Fulminacci deve cantarle per tutti, da solo, piccolo anche se probabilmente alto, ma minuto, quasi docile su quel palco, con un giacchettino militare ed una frangetta scomposta, viso da bravo ragazzo e dita abili sulla chitarra. Emozionato certo, ironico nelle canzoni e nei brevi intermezzi, tra un ringraziamento sentito ed un “mortacci vostra”, detto con una calata sospirata, mai eccessiva, mai forzata. Le canzoni si susseguono e si rincorrono l’una con l’altra, come un bel racconto, la narrazione di un ragazzo dall’animo sereno che forse si sente un po’ fuori posto, sorpreso dagli anni che gli dai, e non potrebbe essere altrimenti, perché vent’anni certo non glieli daresti, quando ci parla di dubbi esistenziali e contraddizioni sociali, amori sospesi in bilico tra il desiderio di essere grandi e quella voglia di non cedere agli anni, sti cazzi poi dei soldi e quelli ci pensiamo quando siamo grandi, perché quando i vent’anni diventano un ricordo poi la vita diventa un mestiere. Alla fine di tutto però, nella title track dell’album, Fulminacci ci fa una domanda con un’onestà quasi dolce, spogliandosi di tutte le costruzioni intellettuali in cui si arrovella, chiedendoci cosa sia la vita veramente.

“Una sera” è una canzone splendida, “Al giusto momento” è una chicca da non tralasciare, “Borghese in borghese” è sagace, pungente, condita di ironia, attualità e un sorprendente senso del tempo, “La soglia dell’attenzione” ci racconta di una bella serata e di belle canzoni, come quelle che in fila si ammucchiano riempiendo la scaletta, prima di cantare “Stavo pensando a te” di Fabri Fibra, riarrangiata come se fosse stata opera di Battisti, sulle note di “Amarsi un po’”, per darci lo spessore di un orecchio attento, senza schemi rigidi, libero nella testa e nelle dita che stuzzicano la chitarra.

Tempo di applausi e di saluti, di arresa alla sera che si alza in piedi e fa quella espressione che pensavo non avrei più visto, il pubblico esce dalla sala con un sorriso, in fila come a scendere dal treno. Bello vedere tanta gente per un esordio, tanto entusiasmo per un principio, tanto interesse per un cantante prima che per un personaggio. Bravo chi l’ha scoperto, bravo chi lo sta promuovendo, bravo chi ci ha creduto, ma soprattutto bravo lui, Filippo in arte Fulminacci, che ci dà una strada nuova, perché nel lungo tragitto musicale le fasi devono susseguirsi, le mode cambiano, le novità diventano presto struttura, c’è bisogno di trasformarsi e poi stupirsi ancora del cambiamento, al giusto momento.