“L’ordine delle cose” di Andrea Segre

immagine dal film di andrea segre l'ordine delle cose

A pochi giorni dall’uscita in sala, Andrea Segre torna alla Mostra del Cinema di Venezia per presentare – con una “proiezione speciale” – il suo terzo lungometraggio a soggetto. L’ordine delle cose, coproduzione italo-francese. Un film che racconta nitidamente, con stile asciutto, la crisi di coscienza di Corrado Rinaldi, alto funzionario di polizia incaricato dal Ministero degli Interni italiano di una delicata missione in Libia: sanati e risolti i conflitti tra potentati tribali locali, ci si aspetta che Rinaldi ottenga alla causa del Governo italiano la completa collaborazione dei libici nel contenimento e nella  repressione delle partenze dei migranti dalle coste africane.

“Le vicende sono immaginarie ma è vero il contesto sociale che le produce”: tre anni fa, quando Segre mise mano al progetto iniziando – da sociologo – le ricerche e gli incontri con i veri funzionari impegnati sul fronte dei nuovi flussi migratori, l’orizzonte degli eventi era ancora meno chiaro di quanto non lo sia oggi. Più chiare ne erano forse le possibili evoluzioni, divenute ormai fatti di cronaca.

Scelto un materiale tanto rischioso, intricato e incandescente, Andrea Segre sembra trovare soluzioni nuove e diverse rispetto al passato. Sparita quasi del tutto l’eco lontana del documentario, l’apertura e l’incertezza, l’indeterminazione di un fronteggiamento diretto della realtà, subentra ora una più forte macchina narrativa che serve da innesco all’illuminazione di un discorso politico. La linearità meccanica, schematica, quasi pallida nel suo elementare e inesorabile meccanismo, ricorda il cinema italiano d’impegno civile degli anni Ottanta. D’altra parte il ritmo della narrazione, il colore della recitazione – bravi e giusti Pierobon e Battiston -, la semplificazione del mondo ad opera di un racconto senza pori, senza strappi, senza fessure, sembrano riecheggiare di lontano i film statunitensi sulla politica internazionale dei primi anni Duemila.

Il ricorso al cliché e alla sintesi, la ridottissima gamma cromatica di una fotografia desertificata, i pochi gesti ripetuti, le poche parole, selezionate e pronunciate come in un pezzo di teatro dell’assurdo, sono il palinsesto che Andrea Segre costruisce per esporre, disarticolata e riordinata, la spiegazione di una complessa congiuntura politica. La scrittura lacunosa – che semina dettagli e indizi dimenticando poi di orientarne l’accumulo – e la regia compilatoria – che sembra cercare sempre l’immagine più chiara e più utile per la composizione di un pamphlet – non bastano a disinnescare del tutto la necessità di un film come questo, che tenta di nominare l’innominabile, rappresentando l’irrappresentabile.

Un film che pur rintanandosi nella dinamica della denuncia, e risolvendo la sua parabola etica nell’arco breve di una crisi di coscienza stroncata sul nascere, si prende la responsabilità e i rischi di brutalizzare i fatti pur di poter prendere parola e dire qualcosa. Qualcosa di semplice, qualcosa di giusto.