Maratona Oscar #Preview 1: Miglior sceneggiatura

Alla serata Oscar Fabrique musica, sketches comici, commenti degli esperti e dati che accompagneranno i nostri spettatori fino all’alba. Qui la prima anticipazione: Andrea Di Iorio analizza i candidati al premio per la miglior sceneggiatura.

La sfida tra gli sceneggiatori candidati all’Oscar quest’anno è complessa, sia per la qualità dei film in competizione che per la varietà dei generi e degli approcci di scrittura. Andiamo allora ad esplorare queste storie dal punto di vista della scrittura, che è la base e l’origine per la riuscita di qualsiasi operazione cinematografica.

Il ponte delle spie di Steven Spielberg, il cui script porta la firma dei fratelli Coen insieme a quella di Matt Charman, è un esempio di scrittura equilibrata. I Coen, intervenuti in un secondo momento su una prima stesura di Charman, hanno apportato il loro percepibile tocco, attenuato però dalla presenza sentimentale, ma mai sentimentalistica, del più importante regista hollywoodiano vivente. Lo “stile Coen” si avverte in particolare in alcune scene berlinesi, in quelle situazioni paradossali, grottesche, in cui il personaggio di Tom Hanks si ritrova. Il suo James B. Donovan, da un certo punto in poi, deve affrontare una serie di equivoci di stampo quasi kafkiano per ottenere la restituzione di due prigionieri, in un vero e proprio labirinto burocratico fatto di contrattazioni e fraintendimenti. L’uomo che si ritrova piccolo e solo in un universo sconosciuto, la Berlino della Guerra Fredda, a dover caversela senza avere il controllo sugli eventi, è proprio un marchio di fabbrica dei due fratelli sceneggiatori. La mancanza di ordine, di un disegno provvidenziale, e la spaventosa imprevedibilità degli eventi sono elementi che ricorrono in tutto il cinema dei Coen, però Spielberg aggiunge un senso di giustizia compensatoria, appagante, senza essere retorico. Un equilibrio difficile quindi viene a crearsi, e il risultato è ottimo. Nelle opere coeniane sono più di una volta degli ingenui a scamparla dalla crudeltà del Caso, mentre qui è un uomo giusto, tutto d’un pezzo, a trovare la soluzione finale. Ed essendo il testo basato su una verità storica, siamo ancora più contenti che per una volta la giustizia abbia vinto.

Ex Machina è emblema della fantascienza mentale, psicologica. Tre personaggi principali all’interno di un solo ambiente e dei test da superare. In tutti i film ambientati in interni i dialoghi dovrebbero essere le fondamenta dell’impalcatura su cui costruire il resto, e Alex Garland, che è del film sia regista che sceneggiatore, lo sa bene. Abbiamo una costruzione narrativa lineare, semplice, che va a evolversi nella direzione del thriller, grazie a personaggi perfettamente scritti e delineati: il boss, il programmatore e la cyborg. Garland utilizza il genere fantascientifico come esasperazione visiva di una paura del presente, tangibile, reale. Si tratta infatti di uno di quei film in cui la metafora supera la realtà, ed è così forte da non poterci lasciare indifferenti. Il genere, quindi, è utilizzato per veicolare la forza metaforica del messaggio. Se provassimo a strappare la confezione fantascientifica, avremmo un autentico giallo in interni: e ciò è possibile proprio perché per il regista/sceneggiatore i personaggi vengono prima di tutto il resto.

50376_pplInside Out è un film d’animazione, e a maggior ragione per ambire a essere considerato alla pari di uno in live action, deve reggersi su una scrittura che non ha nulla da invidiare a quella di tanti altri film con attori in carne e ossa. Le emozioni, che di Inside Out sono le protagoniste assolute, ci sono tutte. Gli spettatori possono provare un ventaglio di esperienze emotive in compagnia della simpatica ragazzina che ha all’interno della sua psiche dei conflitti piuttosto maturi, considerando che si tratta di un film destinato in primis ai bambini. L’intelligenza da parte degli sceneggiatori, nonché registi, Pete Docter e Ronnie Del Carmen, sta nell’ammettere che non abbiamo nella vita il controllo sulle situazioni e sulle nostre reazioni che invece pensiamo di possedere, e la colpa è di alcuni esserini che abitano nella nostra mente senza che ne siamo consapevoli: una grande metafora dell’inconscio. È una scelta coraggiosa, perché non avere potere sull’insieme delle nostre facoltà e sugli eventi è qualcosa che ci terrorizza. Ancora più encomiabile la scelta in fase di soggetto di strutturare l’intera psiche in sezioni, tra cui, oltre la sala comando in cui si trovano Gioia, Paura, Rabbia, Disgusto e Tristezza, anche una parte del cervello che è la raffigurazione angosciante del Rimosso freudiano. Sarà proprio in questo ambiente che si svolgerà una delle scene più toccanti del film, che comincia come una commedia nella situazione statica della sala controllo per poi diventare un’avventura itinerante tra le varie sezioni della mente della bambina.

121319-mdIl caso Spotlight e La grande scommessa sono invece due film associabili perché entrambi corali e costituiti da cast di attori di altissimo livello. Il primo, come i precedenti film di cui abbiamo parlato, è candidato per la miglior sceneggiatura originale, mentre il secondo per quella adattata. Si tratta in entrambi i casi di pellicole in cui abbiamo spesso e volentieri scene intorno a grandi tavoli, all’interno di uffici. Non ci interessa quello che c’è intorno: ciò che conta sono i protagonisti, tutti perfettamente caratterizzati, e il “grande problema” che rappresenta il fulcro del film. Nella Grande scommessa è il centro del film una scommessa sulla grande crisi economica prima americana e poi mondiale che ha fatto guadagnare pochissimi e perdere i più, mentre nel Caso spotlight è un’inchiesta riguardante gli abusi su minori da parte di ecclesiastici. Mentre il gergo di Spotlight (la cui sceneggiatura è di mano di Josh Singer e del regista Tom McCarthy) è giornalistico, quello della Grande scommessa è finanziario, il che ha reso più problematico il compito per gli sceneggiatori Charles Randolph e Adam McKay, che hanno adattato per lo schermo il romanzo di Michael Lewis cercando di gestire al meglio la grande quantità di tecnicismi finanziari per renderli materia cinematografica. Interessante l’uso di inserti improbabili ma divertenti per spiegare con parole più comprensibili i meccanismi della finanza. Quello che tiene in piedi i due film però è la caratterizzazione dei personaggi (soprattutto nella Grande scommessa, in cui emerge una grande meschinità di fondo) e la capacità degli interpreti di dare loro vita e forza.

Straight Outta Compton, candidato a sua volta per la migliore sceneggiatura originale, è uno sguardo sulla difficile emersione di una band nella scena rap losangelina. Un film la cui scrittura si basa, fino a diventarne un tutt’uno, sulla musica, per cui le parole e il registro colloquiale impiegati servono agli sceneggiatori Jonathan Herman e Andrea Berloff per creare un vero e proprio ritmo musicale che sorregge il film. Alle radici di un’operazione di questo tipo c’è un articolato studio dell’ambiente, perché è l’ambiente a determinare le svantaggiate condizioni sociali di chi deve lottare per trovare spazio nella vita e non può far altro che ribellarsi con rabbia, aderendo a un genere come quello del gangsta-rap. E il biopic viene qui portato a un livello più alto rispetto alla pericolosa piattezza che spesso lo mette a rischio. Straight Outta Compton è quindi un film scritto con la stessa passione furente che anima i suoi protagonisti.

Brooklyn vanta uno sceneggiatore d’eccellenza, Nick Hornby, che adatta il romanzo di Colm Toibin, storia dell’arrivo nell’America degli anni ’50 di una ragazza irlandese e del suo ritorno nella terra natìa, con conseguente riscoperta del tempo perduto. È un melodramma dalla struttura evidentemente tradizionale, che fa di questa caratteristica la sua forza. La limpidezza e l’evidenza dei sentimenti, caratteristiche da sempre presenti in Hornby, qui si sposano perfettamente con i confronti ambientali e culturali che scaturiscono dall’opposizione dei due mondi, il vecchio e il nuovo. Brooklyn è dunque l’ennesima dimostrazione che realizzare un’opera semplice che funzioni non è affatto un gioco da ragazzi, anzi, richiede la saggezza e la grande sapienza degne di una penna a cui si vuol bene come quella di Hornby.

Carol, scritto da Phyllis Nagy e tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, è a sua volta disegnato sulla struttura del melodramma classico, e lo sarebbe fino in fondo se non fosse per l’introduzione di una coppia femmile omosessuale come protagonista del racconto. Ed è questo che determina le uniche differenze riscontrabili rispetto a tanti casi celebri del passato a cui Haynes e i suoi sceneggiatori guardano, in particolare i film di Douglas Sirk. La struttura narrativa riprende quella di Breve incontro di David Lean: si comincia con il finale. Un saluto frettoloso, una mano sulla spalla. E poi un amore contrastato, fatto di tanti incontri in cui la sensualità non riesce mai ad esplodere del tutto, perché è continuamente bloccata, rimandata, all’interno di una narrazione rigida e controllata in cui non sono permesse sbavature di sorta, come se lo stesso impianto stilistico del film avesse incamerato la repressione di quei tempi, in un circolo metalinguistico. Tutte le emozioni pertanto implodono all’interno di dialoghi nei quali il non detto o il semplicemente accennato hanno un peso maggiore rispetto a ciò che viene timidamente e ufficialmente dichiarato.

martian-gallery3-gallery-imageThe Martian sembrerebbe un film di fantascienza ma in realtà è una commedia. Quello che parte come una sorta di Cast Away su Marte si trasforma dichiaratemente nella divertente e anche divertita, ma non per questo priva di pericoli e suspense, lotta per la sopravvivenza del protagonista. Lo sceneggiatore Drew Goddard, adattando un romanzo di Andy Weir, conserva la verosimiglianza scientifica e proprio grazie a questa accuratezza può permettersi di rendere il suo protagonista uno spavaldo e autoironico autore di monologhi di fronte a una webcam. E qui abbiamo un’altra caratteristica della scrittura di The Martian: l’80% del film è retto da Matt Damon che fondamentalmente parla con noi seduti al buio in sala, e lo fa con grande sicurezza perché sa di essere uno scienziato esperto che in un modo o nell’altro se la caverà. E qui stanno la differenza con Cast Away e la chiave per la commedia. Era difficile far funzionare una commedia spaziale: merito anche dell’esperienza di Ridley Scott alla regia.

Room è in realtà composto da due film in uno. Senza fare spoiler, si può dire che una parte del film è claustrofobica (si torna di nuovo al meccanismo dei film in interni dove i dialoghi sono la principale forza motrice) mentre la seconda è più ondivaga. La sceneggiatrice Emma Donoghue, che adatta il suo stesso romanzo, punta tutto sulla comunicazione tra la mamma e il piccolo Jack, come se avessero un loro modo di capirsi, un linguaggio privato e personale. Il film si regge soprattutto su questa dinamica, perché i personaggi che si incontrano successivamente non hanno centralità. Si parte quindi con quello che potrebbe sembrare un thriller per poi finire in un dramma psicologico, però si avverte la mancanza di un vero equilibrio tra le due parti, dovuta soprattutto all’eccessiva lunghezza della seconda che, pur essendo ambientata in luoghi più aperti, rimane proprio per questo meccanismo di scambio a due tra madre e bambino ancora, in un certo senso, claustrofobica, come se tutto il film effettivamente fosse in un’unica e sola stanza mentale.