A Classic Horror Story rimescola le regole del genere

a classic horror story
Matilda Lutz in "A classic horror story".

Una rielaborazione del termine classico nei confini del genere horror, un’azzeccatissima scelta glocal e una riflessione su quel concetto di «spettacolarizzazione della morte» che riecheggia in maniera molto forte nella nostra vita quotidiana. A Classic Horror Story (in streaming su Netflix), diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli – che con questo film hanno vinto il premio per la miglior regia al Taormina film festival – guida lo spettatore nelle tortuose vie del complesso meccanismo horror, ponendolo su un piano tutto italiano e gustosamente metanarrativo.

Sud Italia, un camper, cinque persone accomunate dal desiderio di raggiungere la stessa destinazione. Purtroppo per loro, Elisa (Matilda Lutz), Fabrizio (Francesco Russo), Riccardo (Peppino Mazzotta), Mark (Will Merrick) e Sofia (Yuliia Sobol) si scontrano immediatamente con il destino; a seguito di un brutto incidente, la loro vettura rimane fuori uso e si trovano catapultati in un bosco gigantesco il cui unico rifugio è rappresentato da una piccola casa di legno.

Il lungometraggio di De Feo e Strippoli è un film visivamente ricco, i cui punti di forza risiedono nella composizione elegante e nella bella fotografia curata da Emanuele Pasquet. Boscaglie, abitazioni diroccate, culti ctonii, tutti elementi paradigmatici del genere horror classico per eccellenza che servono però come trampolino di lancio per un discorso articolato e personale.

Come ci ha raccontato il co-regista Robeo De Feo: «I riferimenti cinematografici sono stati sicuramente La casa di Sam Raimi, Non aprite quella porta e, in particolar modo per la parte finale del film, Le colline hanno gli occhi e la saga di Scream». Quello che fa la differenza in A Classic Horror Story è la capacità di legare fondamenti archetipici del genere con l’articolato processo di «creazione della tradizione» riferito, in questo caso specifico, alla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, padri putativi delle mafie.

Per questo motivo, se nella prima parte del film ci si sofferma maggiormente sugli elementi tradizionali, cinematografici e culturali, di una narrazione gotica/horror, la seconda è dedicata allo spettatore, facendo in modo che questo possa diventare parte integrante del plot. Il meta-dialogo è in grado di rendere il pubblico quasi «il vero vilain di tutto il film», come ricordato dallo stesso De Feo, costringendolo a riflettere e a mettere in discussione le consolidate modalità di visione e fruizione rispetto al genere horror.

Tutto questo rende quindi possibile quel gioco di scatole cinesi che conduce il concetto di classico direttamente nelle mani di chi guarda e di coloro, in special modo, che sono chiamati a “giudicare” il film. Il messaggio di A Classic Horror Story è forte e chiaro: “la morte” – intesa come incapacità di saper apprezzare qualcosa di nuovo – scorre negli occhi di chi guarda e non nel sangue versato tra le assi di una fiabesca casetta di legno in mezzo al bosco. Perciò, il film ci lascia con una speranza: che si stia aprendo una nuova era e una rinnovata consapevolezza per il genere horror di stampo italiano?