Roberto De Feo

Foto: Paolo Palmieri

Una sala cinematografica, proiezione in corso, sullo schermo scorrono le immagini di un corto. A un certo punto però qualcosa va storto. Si accendono le luci in sala, gli spettatori sono abbagliati dall’imprevista interruzione. Cos’è successo? Nel corridoio del cinema c’è una persona a terra. E un uomo la sta trascinando via, tenendola per i piedi.

Sembra una scena da thriller ma è successo davvero, a Milano, durante la proiezione del corto “splatter” Ice Scream di Roberto De Feo. Classe ’81, sei corti, un paio di lungometraggi in predicato, un’esperienza a Hollywood e la sua biografia già su Wikipedia, per comprendere il personaggio De Feo bisogna ripartire da quella scena. Perché l’uomo in piedi in mezzo alla sala, scoperto nell’attimo in cui sta occultando il corpo di uno spettatore svenuto, è proprio lui. E se scivolava via nel buio, in silenzio come un ladro, era solo per un motivo: evitare di interrompere la sacralità della proiezione del suo film.

In una decina d’anni di lavoro sui set, fino alla consacrazione internazionale proprio con Ice Scream (per la cronaca: unico cortometraggio italiano da cui sia mai stato tratto un lungometraggio hollywoodiano) De Feo si è imposto tanto per il talento quanto per il carattere passionale e determinato (ma la sintesi la offre lui: «rompiballe»). Da Bari se n’è andato a Hollywood, e dopo un anno e mezzo è tornato. Con un corto sulla via dell’Oscar, una foto con John Carpenter in tasca e una causa aperta con i produttori americani di Ice Scream Remake.

Ci racconti come hai cominciato?

Mi sono imbattuto per caso ai primi del 2000 in una scuola di cinema di Genova, la Scuola d’Arte Cinematografica, che mi ha convinto per due motivi: tutti i professori erano già inseriti nell’ambito lavorativo e c’era la possibilità di fare esperienza sui set in città. L’ho frequentata per quattro mesi, mi ha dato le basi.

Nel 2007 è arrivato H5N1, il corto apocalittico sull’aviaria: un piccolo caso…

Avevo girato il mio primo corto, Vlora 1991, qualche anno prima. Era un piccolo film sullo sbarco degli albanesi sulle coste italiane. Con H5N1 sono andato in un’altra direzione. Il tema ha creato subito interesse e ha fruttato un budget importante, 100.000 euro. Abbiamo vinto la sezione sci-fi del festival di Rhode Island, ma… sono critico. Oggettivamente in quel corto ci sono parecchi errori. Però quel successo ha permesso a me e al co-regista Vito Palumbo di tentare l’avventura di Ice Scream.

photoIce Scream è arrivato fino a Hollywood. Doveva diventare un lungo: cosa è successo?

Il lungo non credo che uscirà più. Io stesso remo contro.

Perché?

Il film era finito un anno e mezzo fa, pronto per essere distribuito. Solo che all’improvviso la produzione ha deciso che avremmo dovuto rimetterci le mani. La prima parte del film era stata costruita con una serie di video presi da YouTube, sui ragazzi vittime di bullismo. Peccato che nessuno si fosse premurato di chiederne i diritti. Cioè: vai in America a girare un film con gli stessi che hanno fatto American Psycho e pensi che queste siano le ultime cose di cui devi preoccuparti. E invece… non solo abbiamo perso un anno di lavoro, ma piano piano hanno cominciato a farci pressioni per fare altri cambiamenti. Il film è diventato un’altra cosa. Sono andato fuori di testa. Ho abbandonato tutto minacciando una causa alla produzione.

Cos’hai imparato da questa esperienza?

Per quanto tu possa credere di vivere in un sogno, prima o poi ti devi scontrare con la realtà. Avevamo una produzione che ha messo in mano il film alle persone sbagliate. Gente che ha fatto errori di valutazione incredibili, e poco conta che fra di loro ci fosse il produttore esecutivo di Killer Joe. Non si manda in final mix un film senza avere le garanzie sul primo blocco del girato. Fa rabbia pensare che siano stati sbagli dettati da un presuntuoso “siamo americani, lo possiamo fare”.

Lavoreresti ancora negli Stati Uniti?

Con le persone giuste sì… certo, vallo a capire prima.

Come si conoscono le “persone giuste”?

Attraverso i festival. L’importante è riconoscere il festival capace di darti credito agli occhi dei produttori, di farti curriculum. Negli Stati Uniti ci sono tanti festival del circuito degli Oscar che vale la pena provare. Lì arrivano migliaia di corti ogni anno, e se vieni preso vuol dire che una possibilità di fare il regista ce l’hai. Tutto sta poi nel sapersi vendere dopo che un festival ti ha selezionato.

Un consiglio pratico per questo vago “sapersi vendere”?

Posso dire quel che ho fatto io. Ho scelto il tema di Ice Scream dopo aver fatto a tavolino un ragionamento strategico, quasi da psicopatico. Ho pensato: come posso fare qualcosa che faccia parlare di me, che non sono nessuno? Nei festival italiani per tanti anni ho visto sempre le stesse storie. Mancava uno splatter, un film diverso, dall’impatto emotivo violento. E allora mi sono detto: ci provo. Nel giro dei festival hanno cominciato a invitarci perché volevano il corto “estremo”. E dopo che un ragazzo è svenuto al cinema, a Milano, si è scatenato l’inferno: ottanta festival l’hanno preso senza nemmeno vederlo…

Da fan del pulp: hai mai cercato di contattare Tarantino?

Figuriamoci: Ice Scream si apriva con un’introduzione animata in cui Tarantino uccide Nanni Moretti. L’ho mandato a Nanni Moretti e…

… e come l’ha presa?

Malissimo. Si è offeso, pare.

child k stills (3)Non sarebbe stato più strategico mandarlo a Tarantino?

Tarantino l’ho incontrato a Venezia quando era presidente di giuria. L’ho incrociato fuori da una delle sale, era in ciabatte: un mito. Disse di lasciargli il film nella sua cassetta personale nell’hotel in cui alloggiava. L’ho fatto, ma quella cassetta era già gonfia di DVD. Dubito che l’abbia mai visto.

La diplomazia non è il tuo forte, ma con i colleghi della tua generazione come ti trovi?

Mi piacerebbe fare gruppo, anche se caratterialmente sono un solitario. Il sistema cinematografico italiano purtoppo non invita a unire le forze: quando il rapporto è di due produttori per dieci registi…

Il tuo corto Child K è in preselezione agli Oscar. Da dove arriva l’idea?

L’idea è stata di Vito. Ha visto in tv un monologo di Paolini sulla storia di un contadino che scrive a Hitler per autorizzare l’uccisione del figlio disabile, e mi ha subito chiamato. Il soggetto è stato sviluppato da Colorado Film e finanziato anche da due case di produzione pugliesi. Circa 70.000 euro, tutti investiti nel progetto. Il produttore di Schindler’s List ci ha notati, chiamati al festival di Zagabria e sostenuti nell’uscita in sala a Los Angeles.

Altri lunghi in cantiere?

Colorado ha opzionato alcune mie storie. Avremmo dovuto girare il primo film questa estate, ma le riprese sono state rimandate. Ora ho appena finito l’esperienza con Biennale College, che mi ha selezionato insieme ad altri undici registi da tutto il mondo, e sto aspettando che scelgano i progetti da sviluppare. Il mio, Ngujuar, è un film da girare in Albania: parla di gente che vive segregata in casa per il timore di essere uccisa per vendetta. È la legge medievale del Kanun a stabilirlo: lo stesso testo cui si è ispirata Laura Bispuri per il suo Vergine giurata.