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Marco Pacella

Eliana Albertini, atmosfera di provincia e comicità

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La vita e le atmosfere di provincia, il Delta del Po, la pianura e i suoi silenzi, ma anche – con La vita della mia ex per come la immagino io, l’ultimo fumetto disegnato su sceneggiatura di Gero Arnone e pubblicato da Minimum Fax – una inaspettata capacità comica. Sono gli ingredienti dei fumetti e delle illustrazioni di Eliana Albertini, un’autrice che nel giro di pochi anni si è costruita un segno personale e maturo, sperimentando con i generi e le possibilità della “nona arte”.

Mi colpisce come nei tuoi fumetti – da Malibu (BeccoGiallo, 2019)  a Anche le cose hanno bisogno (Rizzoli Lizard, 2022) – ci sia, esplicito o più in sottotraccia, un grande spazio dato al microcosmo della provincia fatto di grandi pianure, esperienze di crescita, ma anche violenza, diffidenza se non esplicito razzismo. Questa presenza dipende solo dal fatto che è un ambiente che conosci bene o ha anche un valore narrativo in senso più ampio?
È principalmente un ambiente che conosco bene e che ho usato come base per capire su cosa fondare i miei fumetti. Infatti hanno cominciato davvero a piacermi proprio quando ho iniziato a pensarli attingendo dal mio personale background provinciale. All’epoca ancora non si erano diffuse le storie che parlano di provincia e sinceramente non mi sembrava per niente una figata raccontarla. L’Accademia mi è servita anche per capirne il valore narrativo: non so se ci sarei arrivata da sola o almeno non so se ci sarei arrivata in così poco tempo, considerando che partivo quasi da zero. Realizzare quei fumetti (soprattutto Malibu, il primo) per me è stato davvero necessario per mettere insieme tutto: la vita, il fumetto, la scrittura, le storie che mi interessavano e in cui riuscivo a riconoscermi.

Hai detto che lo spunto per Anche le cose hanno bisogno è nato dalle lunghe passeggiate durante il lockdown.
In quel periodo, come tutti credo, cercavo di far passare le giornate e fra le poche cose consentite per fortuna c’erano le passeggiate. Stavo nel mio paesino di origine per cui era abbastanza facile sforare i 200 metri concessi dalla legge: da questo gravissimo reato come prima cosa è nato passeggiatine, un librino autoprodotto che raccoglie foto e pensieri proprio di quelle specifiche passeggiate. Nel frattempo stavo leggendo Underworld di DeLillo e riflettendo sull’idea per un nuovo libro. Anche le cose hanno bisogno quindi è nato da una lunga operazione: le passeggiate, le cose che raccoglievo da terra durante queste passeggiate e il tema ricorrente dell’immondizia che fa da sottotraccia in Underworld. Da tutto questo ho voluto togliere solo il lockdown.

Eliana AlbertiniAnche nei tuoi dipinti mi pare che emerga l’attenzione alla provincia, agli oggetti e a una sorta di silenzio e di vuoto nel quale quasi manca la presenza umana. In certe composizioni, così come in alcune tavole dei fumetti, emergono forse le atmosfere di due grandi osservatori della pianura come Luigi Ghirri o Gianni Celati. È così? Quali sono i tuoi riferimenti visivi e narrativi?

Sicuramente sono stati e sono due punti di riferimento. Quando li ho scoperti ho capito per la prima volta quanto si potesse entrare dentro il lavoro di un’altra persona. Mi attira tutto ciò che parla di silenzio, incomunicabilità, interstizi, infatti da più giovane mi piacevano molto le opere di Edward Hopper, David Hockney, Stephen Shore e in seguito mi sono buttata nella letteratura americana (DeLillo, Roth, Franzen). Anche loro rappresentano in un qualche modo il silenzio, ma Ghirri e Celati ne mettono in scena uno che mi fa dire “lì c’ero anche io”.

Con la storia breve La salamandra hai partecipato alla raccolta A.M.A.R.E. per Canicola. Di recente è uscito anche il libro autoprodotto Povere Puttane Vol.3. Come vivi questa esperienza di condivisione editoriale? È uno stimolo per te collaborare con autrici vicine per sensibilità?
È stato fondamentale per me anche per uscire da quel silenzio in cui spesso mi sono ritrovata, per caso o per scelta. La collaborazione e la condivisione non rappresenta per me la condizione naturale per produrre, per cui mi sono sempre cercata degli spazi in cui farlo senza sentirmi oppressa. La prima esperienza è stata “Blanca”, nel 2014, un collettivo che ho fondato con Martina Tonello, Irene Coletto e Noemi Vola, e credo sia stato un buon modo per imparare a muovermi in questo settore insieme a una squadra. Ho capito che se non c’è gioco non mi piace, se assomiglia troppo a un lavoro tendo a perdere interesse. A.M.A.R.E. invece mi ha dato la possibilità di sperimentare un tipo di storia che fino a quel momento non avevo mai provato, e le Povere Puttane (Martina Sarritzu e Giulia Cellino) a usare gli esperimenti di vita per farne delle storie.

In La vita della mia ex per come la immagino io c’è un vero cambio di registro, visto che nel libro entra e con un ruolo centrale l’elemento della comicità. Inoltre hai disegnato su sceneggiatura non tua ma di Gero Arnone. Come è nato il progetto e cosa ha significato per te?
Il progetto è nato in casa Minimum Fax che ha in primo luogo incaricato Gero di scrivere un libro a fumetti (prima esperienza anche per lui). Mi è stato proposto di prendere parte al progetto successivamente: all’inizio non mi era ancora ben chiaro di cosa si trattasse, ma solo per il fatto che sarebbe stato un libro comico in cui avrei avuto spazio di manovra ho accettato. È un registro narrativo che mi piace moltissimo e mai sarei riuscita a farlo da sola, in più ero già fan della comicità di Gero. Non avevamo davvero idea di cosa potesse realmente uscire fuori, ma di sicuro non pensavamo a niente meglio di così. Dal mio punto di vista è stato divertente e stimolante, cosa che mai avrei pensato del lavorare con uno sceneggiatore. Mi piace fare cose diverse e questo libro è diverso in ogni pagina: è un concentrato di situazioni al limite che si disinnescano poco prima di esplodere, fino all’esplosione finale. Per questo motivo pensavamo potesse suscitare qualche polemica, e invece è stato accolto piuttosto bene, al punto da andare in ristampa dopo poco tempo.

Cosa puoi dirci dei tuoi progetti in corso?
Proprio per il fatto che non amo ripetermi ora sto provando a cimentarmi in qualcosa di nuovo: un libro illustrato, di quelli che in terza media pensavo di voler disegnare per tutta la vita. Ci provo ora dopo dieci anni di soli fumetti!

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Zuzu, da Cheese a Giorni felici: “oggi sono più libera”

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Giulia Spagnulo, in arte Zuzu, è una fumettista profonda e consapevole, capace di dosare narrazione e scelte grafiche per seguire un autonomo percorso di maturazione senza adagiarsi su un unico stile.

A distanza di qualche anno dall’uscita di Cheese, che bilancio puoi fare di quell’esperienza? Non era certo scontato quel grande successo per un’autrice giovane al suo esordio.

Esordire ed essere subito sotto i riflettori mi ha liberato dall’ansia di trovare dei lettori, perché ho già provato la sensazione di avere tante persone che leggono il fumetto: è un’emozione bella, sì, però dura molto poco, non è gratificante quanto credevo, anzi, mi fa sentire responsabile nei confronti del pubblico. Oggi sono più libera di fare le cose solo perché mi va di farle. Ma la cosa più brutta è che non ho vissuto affatto bene quel successo: mi hanno dipinto come “la nuova stella del fumetto”, come se fossi già pronta, senza invece dare l’attenzione giusta a un percorso artistico che poteva migliorare. Io invece vorrei migliorare nel tempo, tra cinque anni fare qualcosa di molto più bello di quello che ho fatto all’inizio. Però adesso ho capito che si fa sempre così, che è un modo che hanno i giornali di parlare delle cose e non mi interessa più neanche tanto.

A livello artistico quanto sei cambiata nel tempo?

Tanto. Sicuramente sono diventata molto più riflessiva, meno incosciente. Cheese è un fumetto nato in modo istintivo, mentre invece per Giorni felici, il secondo libro, c’è stato un ragionamento molto lungo e articolato in tutto, a partire dalla storia, il ritmo, la scelta della tecnica: tutto quello che c’è in quel fumetto è stato una scelta. In Cheese ho fatto delle scelte, sì, ma come una persona che sta correndo e deve capire dove mettere i piedi, non come una che sta costruendo un percorso. Oggi quando penso a una storia sono anche molto più pignola, purtroppo. Forse dovrei imparare a recuperare un po’ di quella sana incoscienza che mi aveva accompagnato. Per quanto riguarda le tecniche io cambio sempre, non mi piace diventare “brava” in qualcosa e poi essere schiava di quella tecnica, di quello stile, di quel tipo di racconto. Non credo che avrò mai un linguaggio fisso, continuerà a essere piuttosto un continuo domandarmi in che modo mi devo vestire: è come essere invitata ogni volta a uno nuovo evento, non aver ben capito qual è il dress code e dover fare ogni volta delle indagini. Però è divertente. I riferimenti sono sempre stati tanti, ma il cinema ultimamente mi influenza tantissimo, sicuramente di più rispetto al passato.

Zuzu

In Giorni felici, oltre alla tecnica nuova, è cambiata molto anche la gestione del racconto, la scansione delle vignette, per esempio.

È stato un percorso nel quale ogni tanto entrava una nuova informazione e quindi dovevo un po’ ricalcolare tutto, finché non ho avuto una solidità tale da iniziare a disegnare. Per quanto riguarda il ritmo, l’influenza di Giorni felici di Beckett è stata la chiave di volta, perché ho capito che a un certo punto del fumetto Claudia, la protagonista, avrebbe dovuto recitare il monologo di Beckett: avevo bisogno che si potesse dedicare davvero molta attenzione alle parole di quel testo e questo mi ha costretto anche a mettere pochissime parole per vignetta, per dargli il giusto peso. Ho dovuto disegnare un fumetto lento, non nella lettura, ma perché fatto di tanti fotogrammi.

Ultimamente stai curando anche “Play Books”, una rubrica di RaiPlay in cui dai consigli di lettura sul fumetto. In questo caso ci sei di persona e sembri molto a tuo agio in video. Non è una cosa scontata, se badiamo allo stereotipo del fumettista che lavora solo e chiuso nel suo studio.

In realtà anch’io avevo questa idea nella mia testa: fare i fumetti motivata soprattutto da quell’idea di vita solitaria dove tu lavori alle tue storie tranquillo e non devi parlare con nessuno. Poi invece ho scoperto che questo è il dieci per cento del lavoro, il resto del tuo tempo lo passi – purtroppo o per fortuna – molto esposto, e questa cosa non è che mi renda sempre felice. “Play Books” mi diverte molto perché consiglio fumetti che amo e che mi piacciono però non parlo di me, non parlo dei miei fumetti, e quella è la parte che mi affatica di più, che mi fa sentire più vulnerabile. E poi grazie a questo programma sono diventata una lettrice più attenta.

A cosa stai lavorando ultimamente?

Sto lavorando a dei progetti per il cinema, che non si sa se vedranno la luce e quando, però mi sto divertendo molto, sto scrivendo e basta ed è un lavoro di squadra, non sono sola. Nel frattempo sto facendo anche un fumettino per me stessa, per affrontare la mia fobia per gli scarafaggi, ma lavorare per il cinema è anche un modo per staccarmi dalle mie solite cose. Vedremo che cosa succederà.

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Sonno, graphic novelist romana: prima di tutto tocca nascere

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Con la graphic novel Prima di tutto tocca nascere (Feltrinelli Comics), una storia complessa di crescita e consapevolezza, la trentenne romana Michela Rossi – in arte Sonno – ha già alle spalle un percorso nell’illustrazione e nella grafica e un imprinting nel mondo del fumetto segnato dall’autoproduzione. Ma, come ci ha raccontato, sta continuando a studiare nuove tecniche e nuovi metodi di narrazione e disegno.

Partiamo dall’ultima tappa: hai da poco pubblicato un fumetto lungo, Prima di tutto tocca nascere. Com’è nata la storia e in che modo hai gestito tutto il percorso per realizzarla?

La storia è nata abbastanza all’improvviso. Sentivo il bisogno e la voglia di scrivere un libro tutto mio da tempo, ma non mi sono mai sentita in grado: avendo sempre lavorato su storie brevi ero convinta di saper fare solo quelle. Conscia del fatto che avevo bisogno di una mano per scrivere un libro mi sono messa per prima cosa a fare delle ricerche nel web. A quel punto ho trovato numerosi siti che spiegano come creare lo scheletro di una storia. Così, quasi per gioco, ho iniziato a scrivere pensando di strutturare tutto con una solida griglia, il famoso “inizio – parte centrale – fine” che ci insegnano alle elementari per scrivere bene i temi. Per quanto riguarda la realizzazione non ti so dire come mai, ma ho gestito tutto con molta calma e lucidità. Proprio nel periodo in cui ho ricevuto l’ok da parte di Feltrinelli per Prima di tutto tocca nascere ho iniziato un corso di illustrazione (per questo libro ho utilizzato l’iPad, ma amo tutte le tecniche), nel frattempo lavoravo come grafica e nelle ore che mi rimanevano ho disegnato Prima di tutto tocca nascere. Sapevo che sarebbero stati mesi duri, ma sapevo anche che avrei lavorato al mio più grande sogno, cioè un fumetto tutto mio.

Nel tuo lavoro, come hai detto, ci sono anche esperienze nel campo della grafica e della pubblicità che, immagino, richiedano scadenze e tempistiche a volte molto strette. Quanto hanno influito nella gestione di un fumetto e nei rapporti con l’editore?

Il passato e le esperienze influenzano sempre lavori personali come quello di disegnare fumetti. Nel mio caso il lavoro come grafica mi ha insegnato a tenere conto e rispettare, per quanto umanamente possibile, le scadenze. E se non è possibile rispettarle, cercare un dialogo con chi ti affida un lavoro e trovare una soluzione o un’alternativa. Sempre come grafica ho imparato quanto è importate saper lavorare in gruppo. Quindi avere pazienza, cercare di capire gli altri e essere assertivi piuttosto che aggressivi. Anche se un fumetto può sembrare il lavoro di una sola persona, in realtà è importante capire che per fare un libro ci vogliono tantissime persone, dall’editor a chi corregge le bozze fino alla grafica. In pratica occorre tenere conto che, anche se il libro che stai facendo è un ottimo prodotto, non sei solo e fare l’“artistoide” di turno è sempre controproducente.

Ti chiedevo dei rapporti con l’editore perché in passato hai spesso preso parte a progetti nel mondo dell’autoproduzione. Quanto resta di queste esperienze nella Sonno di oggi?

Io sono enormemente grata e fiera di aver avuto, come primo approccio nel mondo dei fumetti, quello dell’autoproduzione. La prima cosa che è ho vissuto è quella gigantesca e violenta onda creativa che ti trascina, ti culla, ti spinge e ti vuole bene che è il mondo dei festival di autoproduzione come il Crack! Fumetti dirompenti. Credo che questo tipo di “imprinting” abbia influenzato moltissimo il mio modo di vedere i fumetti come mezzo per comunicare ed esprimersi in libertà.

Sonno back to basics
“Back to basics”, il titolo del manifesto realizzato da Sonno per Art Stop Monti.

Tornando a Prima di tutto tocca nascere, la vicenda che racconti ha risvolti anche amari, episodi di fallimento o di cupa rassegnazione nelle vite di alcuni personaggi. Però emerge in sottotraccia una vena positiva, un certo ottimismo. È così?

Certo, è esatto. Ho scelto di scrivere questo fumetto proprio perché ci tenevo a parlare di qualcosa di duro ma con un finale di speranza e ottimismo. Ovviamente non quel tipo di ottimismo superficiale fatto di immagini carine e di gattini (con tutto il rispetto per le immagini con i gattini).

Nel 2016 sei stata inclusa nel progetto La rabbia (Einaudi Stile Libero) assieme a Zerocalcare, Ratigher, Hurricane e altre voci importanti del fumetto contemporaneo. Nella tua storia, Ballate in ritardo, si intuiva già la volontà di prendere episodi apparentemente minori, anche intimi, per farne il motore di una vicenda più ampia, anche generazionale. È un elemento, questo, che credo torni anche nel tuo ultimo fumetto. Puoi ritenerlo una tua cifra stilistica?

Certo. Anzi, sono molto felice che l’hai notato. Mi diverte tantissimo prendere situazioni o eventi di “poco conto” e trasformarli in una metafora il più possibile profonda e contemporanea. Questo è uno dei motivi per cui adoro scrivere, mi piace tantissimo, per me è quasi un gioco scrivere in questo modo.

Veniamo alla tecnica. In molte tavole di storie precedenti hai alternato pagine scarne con rapidi segni al tratto ad altre in cui testi e immagini riempiono completamente lo spazio. Ora invece ti sei aperta a chiaroscuri, sfumature e molte campiture di un nero profondo. Com’è cambiato il tuo stile in questi anni?

Il mio stile è cambiato e suppongo continuerà a cambiare, mantenendo però sempre la stessa anima. Sono passata dal pennino ai chiaroscuri per poter approfondire il mio stile ed evolvere. Ci tengo a dire che il mio intento è tenere viva la mia creatività e il mio modo di disegnare (che ovviamente può piacere o no), ma che è altrettanto importante apprendere più tecniche possibili per potermi sempre esprimere come meglio credo. A volte una storia richiede un chiaroscuro morbido, altre volte invece un tratto più duro a penna.

Per il progetto Art Stop Monti nella metropolitana di Roma hai realizzato delle vignette/manifesto in cui omini minuscoli e nudi urlano in enormi balloon la frase “Questa libertà ha un problema di qualità”. È una riflessione anche sul duro periodo a cui la pandemia ci ha costretto?

In Back to basics – il titolo del manifesto realizzato per Art Stop Monti – ho voluto parlare del vuoto. Il vuoto attraverso il distanziamento sociale, negli uffici, nelle scuole e nei parchi deserti a causa della pandemia. Un vuoto fisico che ha fatto emergere una domanda, forse un dubbio nascosto sotto al tappeto del nostro inconscio. Il vuoto, quello vero, nasce da tutto ciò che non hai mai realizzato, dai tuoi talenti che non hai mai ascoltato e dai tuoi pensieri che non sono diventati mai azione. La libertà è sinonimo di possibilità? Se è così, allora questa libertà ha un problema di qualità.

Infine una domanda sul tuo futuro. Dopo il tuo ultimo fumetto di cui sei autrice unica, quali strade stai percorrendo?

Mi piacerebbe cominciare un nuovo libro, in generale il mio sogno è di continuare a fare la fumettista. È un mestiere molto difficile, serve tanta costanza e voglia di fare, ma detto ciò, io sono sicuramente decisa e convinta di voler intraprendere questa strada. Ma non diciamolo ad alta voce che porta sfiga! [ride, ndr]

 

 

Simone Angelini: una partita a ping pong tra un fumettista e uno scrittore

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Simone Angelini e lo scrittore Marco Taddei sono da alcuni anni una firma stabile e riconosciuta della nona arte. Abbiamo chiesto ad Angelini di ricostruire il suo percorso autoriale fra riferimenti, metodi di lavoro e l’indelebile marchio della provincia.

[questionIcon] Qual è il tuo percorso formativo e come ti sei avvicinato al fumetto?

[answerIcon] Sono autodidatta. Ho una maturità scientifica e una laurea in Architettura, ma ho da sempre desiderato fare il fumettista, cominciando da piccolo senza più fermarmi. Ho iniziato a leggere fumetti con Topolino che collezionava mio cugino, in casa mia c’era Tex perché lo leggeva mio padre, Dylan Dog e L’Intrepido erano tra le letture che ci scambiavamo tra amici nell’adolescenza. In seguito la curiosità mi ha portato in tutte le direzioni: dall’underground americano ai manga, dai supereroi Marvel e DC ai lavori di Pazienza, Magnus e tanti altri.

[questionIcon] Come è nata la collaborazione con Marco Taddei?

[answerIcon] A Pescara nel 2009 era nata Carta straccia, una fanzine autoprodotta e a distribuzione gratuita, ideata da me e da un amico illustratore, Fabio di Campli. Avevamo generato un polo magnetico per tutti i carbonari dispersi nella realtà alienante della provincia adriatica. Sulla fanzine realizzavo a cadenza mensile delle storie brevi a fumetti. Un giorno, in una delle riunioni di redazione, non ricordo se in un bar, in un circolo o a casa mia, si presentò Marco. Portò con sé dei racconti brevissimi che mi colpirono molto e pubblicammo subito. Ci eravamo annusati come fanno i cani e ci eravamo piaciuti, quindi provare a far una storia a fumetti insieme fu abbastanza naturale. L’occasione si presentò con la Storia della Candelabra; successivamente intorno a quel fumetto breve ne radunammo altri per dar vita alla versione demo di Storie brevi e senza pietà.

[questionIcon] Avete un preciso metodo di lavoro che riproponete in tutti i progetti insieme oppure ogni libro fa storia a sé?

[answerIcon] Il metodo ce lo siamo costruiti con quasi otto anni di collaborazione. Ogni libro fatto insieme è stato un avvicinarsi tra due mondi, quello del fumettista e quello dello scrittore. Con il passaggio a fumetti di respiro più ampio, come Anubi e Malloy, ci siamo perfezionati dando vita al “metodo del ping pong”. Per prima cosa decidiamo insieme il tipo di partita, le regole, chi avere in squadra e su che campo giocare. In questa fase mi occupo del character design. Poi Marco batte con una sceneggiatura non definitiva, rispondo con la suddivisione in pagine e una prima parte di storyboard, da lì in poi è uno scambio continuo che ci porta ad avere in un annetto il fumetto finito e pronto per la revisione finale. Credo che questo metodo sia fondamentale per unirci in un’unica voce autoriale.

[questionIcon] Il vostro Anubi, vincitore tra l’altro del Premio Boscarato nel 2016, ha rappresentato un felice caso editoriale nel fumetto italiano. Quanto questo successo vi ha dato in termini di consapevolezza e crescita professionale?

[answerIcon] Con Altre storie brevi c’erano già stati ottimi riscontri da parte di amici, giornalisti, lettori, arrivando a vincere il premio Missaglia come esordienti al Treviso Comic Book Festival nel 2014. Lì Anubi era già in pista, nel senso che avevamo trovato un editore in Grrrz Comic Art Book pronto a scommettere su di noi. Anubi venne lanciato come centravanti della casa editrice più sperimentale in quel periodo. Non credo avrebbe avuto lo stesso risalto se fosse uscito per altri editori blasonati, ma con un parco testate più vasto e dispersivo. Da Anubi in poi è stato tutto in discesa e la crescita professionale è una conquista che vedo sotto tre aspetti: riuscire a fare i fumetti che voglio con gli editori che ritengo più adatti per quel preciso progetto; poter vivere di questa passione; riaffacciarmi all’autoproduzione quando ne sento la necessità.

[questionIcon] Anubi, dio sciacallo egizio qui decaduto e relegato in provincia, può avere diversi punti di contatto col vostro ambiente. Quanto c’è di autobiografico nel libro?

[answerIcon] C’è tantissimo del nostro vissuto. Ma ci siamo tenuti alla larga dal renderlo un fumetto autobiografico. La città è la nostra, o meglio, è una città assemblata con stretti vicoli e ampie aperture sul mare di Vasto e la periferia scomposta e industriale di Pescara. Siamo coetanei, con una storia molto simile, e questo ci ha permesso di raccontare un microcosmo adriatico che è universale e familiare a diverse generazioni. Qui tutti lottano ogni giorno con i compromessi di una vita difficile, ma al tempo stesso con la valigia sotto il letto e pronti a cogliere la prima occasione per andare via.

[questionIcon] Con Malloy ‒ Gabelliere spaziale si assiste invece a una maturazione narrativa e (apparentemente) a un cambio di registro, almeno nelle ambientazioni, passando dal microcosmo della provincia alla vastità dello spazio. Come mai questo salto?

[answerIcon] Esatto, dalle stalle alle stelle. Malloy è nato dalla parola “Crack” che Maurizio Ceccato ci aveva sottoposto come spunto per il primo volume dell’antologico B-Comics ‒ Fucilate a strisce. Da quell’onomatopea avremmo dovuto creare una storia a fumetti. Crack, o meglio Craq, divenne un pianeta e tutto intorno nacque il resto. Fino ad arrivare alla recente avventura estesa pubblicata da Panini Comics. Fantascienza a colori, ma vicinissima in realtà al mondo della provincia: non riusciamo proprio a togliercela di dosso… Sul piano visivo mi son divertito molto con i colori, le ambientazioni, la tecnologia retrò e una suddivisione della pagina molto più ritmata e sperimentale rispetto ad Anubi. Con Malloy abbiamo inaugurato un mondo nuovo ancora tutto da esplorare.

[questionIcon] Qualche mese fa l’editore Coconino ha annunciato che tu e Marco siete al lavoro su un nuovo fumetto che dovrebbe uscire entro quest’anno. Cosa puoi anticiparci?

[answerIcon] Sono felicissimo che Ratigher ci abbia voluto nella nuova Coconino che sta forgiando. Ci conosciamo da diversi anni e c’è stima reciproca. Lo vedo come un grande “zio” rivoluzionario, anche se siamo quasi coetanei. Del fumetto dico solo il titolo, 4 Vecchi di merda ‒ Una storia d’orrore e che sarà un lavoro più maturo perché parla di vecchi [ride].

Andrea Pazienza: Marina Comandini racconta Paz

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Marina Comandini, pittrice e fumettista, è stata compagna di vita e di lavoro di Andrea Pazienza. Con lei abbiamo ripercorso alcuni dei momenti che hanno segnato gli anni insieme, la gestione complessa e affascinante del suo patrimonio e della sua memoria e i possibili spiragli espressivi personali, riconquistati con forza dopo la dolorosa scomparsa di Paz.

Lo scorso 25 maggio si è aperta a Roma – in occasione della quarta edizione dell’Arf!, Festival di storie, segni e disegni – la grande mostra Andrea Pazienza, trent’anni senza, un’importante retrospettiva ospitata al Mattatoio di Testaccio fino al 15 luglio e dedicata a quello che da molti è definito il più talentuoso fumettista italiano e tra i maggiori artisti tout court del secolo scorso per inventiva, linguaggi e capacità espressive. Andrea Pazienza, in arte Paz, ha raccontato in presa diretta le contraddizioni politiche e culturali dell’Italia fra il movimento del Settantasette e il decennio successivo, fino a spegnersi prematuramente nel 1988, all’età di 32 anni. Da qui il titolo della rassegna, che sottolinea appunto il trentennale dalla sua scomparsa. Ed è proprio al Mattatoio, dopo un’affollata conferenza sull’artista a cui erano presenti fra gli altri Oscar Glioti, Mauro Uzzeo e Ratigher, che ci sediamo al tavolino di un caffè con Marina Comandini, curatrice della mostra, per parlare del passato e del presente.

[questionIcon] Come è stato riallestire una mostra su Andrea Pazienza a trent’anni dalla sua scomparsa?

[answerIcon] È un argomento delicato, una data molto importante, ovviamente. In realtà questa cosa dei “trent’anni senza” la sento più vicina io, perché in qualche maniera il pubblico ha avuto in questi anni modo di continuare a fruire dell’opera di Andrea senza interruzione.

[questionIcon] Sei un’artista anche tu e hai lavorato fianco a fianco con Andrea. Da questo punto di vista qual è stata la tua esperienza con lui?

[answerIcon] Quello che noi facevamo era un gioco, un modo per stare insieme, tutto ciò che riguardava il quotidiano noi lo condividevamo. Per cui lavoravamo, viaggiavamo insieme, vivevamo in campagna. C’erano tante cose che ci accomunavano, l’arte e la vita: io e Andrea siamo anche nati lo stesso giorno. Effettivamente avevamo molti punti in comune: l’amore per la natura, la socialità nei confronti degli altri, l’empatia, la voglia di divertirsi, il piacere di viaggiare.

[questionIcon] Quando ti trovi a riprendere in mano tutto il suo lavoro, per esempio nell’occasione di questa mostra, scopri anche qualcosa di nuovo oppure lo vedi come un’eredità da tramandare così com’è, dato il suo valore?

[answerIcon] Andrea ha prodotto almeno diecimila disegni nella sua breve vita, c’è sempre qualcosa che non abbiamo visto. Nel caso di questa mostra ci sono due inediti: uno è il ritratto di Stefano Tamburini, che gli ho visto disegnare e di cui quindi ho ricordi; mentre per quanto riguarda il meraviglioso quadro [un grande dipinto su tela del 1983, che raffigura il personaggio di Massimo Zanardi a cavallo, ndr.] che è di proprietà di Matteo Garrone, è stata una sorpresa completa: non sapevo nulla né di questo, né dell’occasione in cui lo ha dipinto, perché lo ha realizzato quando ancora non lo conoscevo personalmente. Andrea poi era velocissimo, ci metteva veramente un attimo a fare un’opera, per cui ci sarà sempre qualcosa di nuovo da scoprire su di lui. I curatori di Coconino Press e Fandango stanno preparando in questo momento due raccolte di cose mai viste che non sono entrate nei venti volumi della collana Tutto Pazienza pubblicati da «La Repubblica», questo dà l’idea della quantità di disegni che Andrea ha fatto nella sua vita. E nonostante ciò ci sarà ancora del materiale che non rientrerà in questa operazione.

[questionIcon] Uno dei canali su cui state lavorando è quello della traduzione all’estero del lavoro di Andrea. Quali sono i punti di forza e quali invece le difficoltà di un’operazione del genere?

[answerIcon] Diciamo che Andrea era un incredibile disegnatore, sicuramente quella è la parte che viene apprezzata e acquisita per prima; ma la sua scrittura è altrettanto significativa. La traduzione non è mai un’operazione matematica, quindi è molto difficile restare completamente fedeli al testo. Infatti le traduzioni sono la prima cosa che invecchia rispetto a un volume, molto più dei testi originali, perché risentono del periodo storico, del contesto culturale, di tanti altri fattori che condizionano poi la scelta del traduttore.

[questionIcon] In uno degli incontri ospitati dal festival Arf! hai raccontato della tua esperienza subacquea. Come si collega questa al tuo lavoro?

[answerIcon] Sulla copertina di uno dei miei libri, intitolato Solinga, volendo, pubblicato dagli Editori del Grifo tempo fa, si vede la protagonista immersa in acqua coi piranha. Un’illustrazione profetica, visto che allora non facevo immersioni: si trattava di pesci che avevamo pescato anni prima io e Andrea in Amazzonia, da lì veniva la suggestione. Ma appunto all’epoca non avevo ancora scoperto questo mio lato marino – nomen omen –, anzi mi chiedevo il motivo del mio nome, visto che, pur essendo una brava nuotatrice, ho avuto a lungo paura del mare dopo la morte di Andrea. Poi pian piano ho cominciato a riacquistare il piacere di vivere e ho scoperto la subacquea, che mi ha messo alla prova, mi ha costretto ad andare avanti sul recupero della mia vita. Mi riprometto ora di occuparmi di più dell’acqua, del mare. Ho già scritto alcune cose pronte per essere trasposte in fumetto. Da quando ho cominciato con le immersioni, ho sentito la necessità di dipingere ambienti acquatici e ho realizzato delle installazioni legate al mare, dei mobiles con i pesci. Quindi in qualche modo ho già lavorato su questo tema, ma credo di avere ancora molto da dire.

ARF! 2018 apre con “il talento irripetibile” di Paz

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Fin dalla nascita, nel 2015, l’ARF! Festival di storie, segni e disegni ha scelto un preciso taglio per proporsi nel panorama romano: “Il fumetto torna protagonista”. Un claim che dichiarava l’attenzione che la nona arte avrebbe rivestito nei giorni della neonata rassegna annuale. Col 2018 il festival giunge alla sua quarta edizione, coinvolgendo dal 25 al 27 maggio gli ampi spazi del Mattatoio di Testaccio con mostre, stand degli editori e delle autoproduzioni, area riservata ai bambini e un ampio e variegato calendario di incontri e dibattiti con l’intento ormai consolidato di indagare a fondo e da molti punti di vista i linguaggi e le possibilità del fumetto.

Un’edizione che si amplia negli spazi ma soprattutto nelle mostre. Sono 7 quest’anno le esposizioni ospitate nei padiglioni del Mattatoio: prima e più importante è la retrospettiva Andrea Pazienza, trent’anni senza (aperta fino al 15 luglio) che ricostruirà – a tre decenni dalla morte – la carriera di una delle voci più importanti del Nuovo Fumetto degli anni ’80 e riferimento indiscusso del panorama visivo e narrativo italiano. Di lui ha detto Roberto Benigni: “Era il capostipite di una grande scuola che non ha avuto poi nessun allievo prediletto perché era inimitabile, un talento irripetibile”.

Ma accanto ad essa il festival dedica spazio anche al segno espressivo dello spagnolo Jordi Bernet, disegnatore fra gli altri anche di Tex e Torpedo; al disneyano Alessandro Barbucci (autore della locandina del festival); alle chine nerissime e potenti del croato Danijel Zezelj; alle tavole del più giovane Francesco Guarnaccia (vincitore del Premio Bartoli ad Arf! 2017) e a una singolare collettiva nell’area delle autoproduzioni incentrata sul tema dell’autoerotismo, Love yourSELF (V.M.18).

Sempre a cura dello staff dell’Arf!, ma negli spazi della cART Gallery di via del Gesù, saranno esposte le tavole storiche di Will Eisner, altro nome seminale del fumetto americano e del graphic novel.

Un festival in piena crescita dunque, che, fra grande attenzione critica, incontri mirati ed esposizioni che ricoprono uno spettro molto vasto di autori tanto storici quanto emergenti, ha assunto un ruolo di primo piano per il linguaggio del fumetto in Italia.

 

Edoardo Tresoldi: Elogio della trasparenza

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Una grande basilica in rete metallica, trasparente e all’apparenza molto leggera, s’innalza sullo scavo archeologico di un’antica chiesa paleocristiana a Siponto, ai piedi del Gargano, in Puglia. A vederla da lontano sembra quasi sparire nell’atmosfera luminosa del golfo di Manfredonia. Ma di sera, complice un preciso gioco di luci, l’opera riprende consistenza mostrando a pieno il suo fascino.

A realizzarla l’artista lombardo Edoardo Tresoldi, classe 1987, scenografo e scultore a capo di una squadra di lavoro la cui età media si aggira intorno ai 25 anni. Abbiamo incontrato Tresoldi all’Ex Dogana di Roma, dove ha partecipato con un’opera site specific alla collettiva Il Paradiso inclinato, curata da Luca Tomìo.

Quanto conta la tua esperienza di scenografo per il cinema nel tuo lavoro scultoreo?

Ho iniziato come pittore collaborando con scenografi come Massimo Santomarco, Daniele Frabetti, Paki Meduri. Nel cinema lo scenografo rimane sempre un po’ defilato, con la frustrazione e il desiderio di riuscire a raccontare la storia principalmente attraverso gli spazi. Da lì viene l’idea di agire sullo spazio, provando a portare avanti un discorso sia narrativo che emotivo legato principalmente al luogo in cui avviene la scena. Nel cinema poi c’è una forte importanza del punto di vista dello spettatore, ed è la stessa importanza che mi sono portato dietro nel momento in cui ho cominciato a lavorare con la scultura e con l’architettura. Per me tutte le arti sono fatte per l’uomo, ed è giusto che partano da quel metro e 65 che coincide convenzionalmente con il punto di vista dell’osservatore.

Parlando di materiali, come arrivi all’impiego della rete metallica?

Inizialmente, in scenografia usavo la rete metallica come struttura che veniva poi ricoperta. Quando ho cominciato il mio percorso personale ero affascinato dalla trasparenza: ti permette di lavorare su grandi elementi che però subentrano in maniera silenziosa, lasciando molto spazio al contesto. Il mio lavoro non cerca infatti di inserire un’opera d’arte all’interno di uno spazio, ma prova a cambiare o aumentare la lettura di quello spazio attraverso il mio intervento, senza snaturarlo.

All’Università Bicocca di Milano hai realizzato Chained, un lavoro di pittura e scultura a quattro mani con l’artista Borondo. Da dove nasce il progetto?

Io e Borondo siamo molto amici, quasi fratelli, e condividiamo riflessioni riguardo all’arte in generale e all’intervento pubblico. Da tempo volevamo collaborare. I nostri due mondi sono molto simili a livello di immaginario, anche se poi alla fine si sviluppano su due discipline diverse: io lavoro sulle tre dimensioni e con un materiale che dà un senso di inconsistenza, di effimero; lui con le due dimensioni della pittura e un sapore molto legato alla terra, sanguigno, ricco di spiritualità. L’opera dunque cerca di raccontare un po’ noi stessi.

Riguardo alla basilica di Siponto, hai affermato che di solito lavori sullo spazio, mentre lì hai avuto la possibilità di lavorare sulla linea del tempo. Come ti poni rispetto all’antico?

Io sono molto affascinato dall’architettura classica, però allo stesso tempo ho una forte consapevolezza della contemporaneità, perché sono cosciente del fatto che il pubblico, lo spettatore, è contemporaneo. A Siponto ho dovuto confrontarmi con una pianta preesistente e relazionarmi con quelle metriche, entrando direttamente in connessione con gli architetti che nel tempo hanno operato su quello spazio. Il mio desiderio era ridare al pubblico che entra nello scavo la percezione degli originari spazi della chiesa, più che la sua forma esatta: è stata quindi una connessione voluta e ricercata con l’antico. I miei lavori sono site specific, quindi più tempo ho a disposizione per crearli, più posso approfondire la relazione che ho con quel posto e la sua identità.

Nel lavoro per l’Ex Dogana c’è infatti un rapporto con l’architettura classica e il Rinascimento romano, per esempio con il Tempietto di San Pietro in Montorio…

In questo caso non ho voluto citare direttamente Bramante. Di fatto io non ho mai fatto citazioni, non mi interessa fare un’arte che sia comprensibile solo attraverso una preparazione culturale. Però nel momento in cui mi sono dovuto confrontare con Roma, mi interessava creare un parallelismo tra il Tempietto di Bramante e una dimensione ultracontemporanea, industriale, come quella dell’Ex Dogana.

Nelle tue opere l’apparente immaterialità della rete si collega alla parallela immaterialità dei temi trattati, come quando ti occupi di riflessione, pensieri, ricordi…

Certo. È come se io fossi uno scultore che lavora con la “non-materia”, come io chiamo la rete. Siccome quello che mi interessa è il dialogo tra l’essere umano e il contesto, è importante che la materia che uso non abbia una fisicità forte, come nel caso della pietra. Con la trasparenza della rete posso arrivare a fare un discorso metafisico, mentale, partendo comunque da qualcosa di piacevolmente visivo.

Tornando a Siponto, come hai reagito all’improvvisa attenzione mediatica e di pubblico ricevuta dopo l’inaugurazione dell’opera?

Il completamento dell’opera è avvenuto quasi in contemporanea con il referendum sulle trivelle, e in un paese come l’Italia, dove c’è tanta ricchezza culturale che viene non solo dal passato, un investimento come quello di Siponto – e il movimento economico che ne è seguito – ha dato la dimostrazione che si può smuovere l’economia senza fare degli interventi dannosi a livello ambientale.

Uno: Salvate il piccolo Günter

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Videoclip, TV commerciali, cartoni animati giapponesi e il sottofondo continuo e martellante della pubblicità. Ce n’è di materiale da intercettare e rielaborare in senso espressivo, se sei nato o cresciuto negli anni Ottanta.

Nel 1981, per esempio, apre i battenti MTV. Nello stesso anno nasce lo street artist UNO, che proprio dal linguaggio pubblicitario trae quell’immagine iconica che si ritrova in mille modi, ritagliata, scomposta, continuamente rimescolata nel suo lavoro: il volto inconfondibile del piccolo Günter, personaggio-emblema che ha svettato per anni sulla confezione delle barrette di cioccolato Kinder. Timidezza e modestia portano UNO a mimare con le mani due virgolette in aria se lo si chiama artista. Lo abbiamo intervistato, birra alla mano, in un affollato locale del Pigneto.

Partiamo dalle origini. Com’è iniziato il tuo percorso espressivo e come sei arrivato alla street art?

Ho sempre disegnato. Mio padre ha fatto l’accademia, e mi ricordo che da ragazzino mi faceva disegnare spesso. Nei primi anni 2000 studiavo a Roma e mi guardavo molto intorno. Tramite gli studi universitari sono entrato in contatto con il Situazionismo, Guy Debord e Luther Blisset. In quel periodo cominciavo a fare i primi sticker a mano, in maniera ancora confusa. Erano disegni che facevo io o immagini pop rivisitate, ma si vedeva che cercavo ancora una mia strada. Dal Situazionismo avevo ripreso il concetto di détournement, cioè prendere immagini, ricontestualizzarle, cambiarle di segno. Ero alla ricerca di un’icona, qualcosa che mi rappresentasse, influenzato in questo dalla street art americana.

A un certo punto quindi arriva Günter…

Esatto. Per il Situazionismo la “società dello spettacolo”, dei mass-media, sta sostituendo l’essere con l’apparire. Lo stesso Günter rappresentava allora l’immagine svuotata di tutta la sua parte profonda: nel momento in cui l’azienda ha bisogno di un restyling sostituisce il personaggio, come se nulla fosse. E io entro là come un “paladino della giustizia” a ridargli nuova vita. Quindi non solo utilizzo questa immagine familiare della mia generazione, ma anche altre figure, da David Bowie (e quindi il fulmine sull’occhio) ai Kiss…

Un incrocio di riferimenti, quindi…

Sì, usare lo stesso linguaggio dei mass media, cambiandolo di segno a mio favore.

Quella di Günter è un’immagine che, nonostante alcune modifiche, resta per anni sostanzialmente invariata, diventando un’icona. Il vero Günter invece cresce, diventa adulto, ormai lontano dai riflettori.

Sì. Non so quanto sia vero, però si diceva addirittura che in quegli anni – intorno alla fine dei ’60 – pare fosse stato pagato in cioccolata… [ride] Iniziando a lavorarci intorno al 2004, la vera sfida è stata “non ripetersi ripetendosi”, usare quella stessa faccia modificandola e trovare una nuova icona da incrociare e ibridare con Günter. Un’ossessività costruttiva, creativa, che mi porta a chiedere sempre di più a me stesso.

Due tecniche che impieghi spesso, lo stencil e il poster, hanno in comune la necessità di un lungo lavoro in studio prima che l’opera raggiunga la strada. Come vivi questa doppia vita del lavoro?

Tutto è collegato. La scelta del poster è un trick, perché per lavorare illegalmente sul muro avrei bisogno di molto tempo. Però all’inizio i poster derivavano dagli sticker, perché non accontentandomi ho iniziato a fare adesivi sempre più grandi. Quando invece lavoro in spazi autorizzati mi prendo tutto il tempo che voglio, e in quel caso difficilmente utilizzo solo una tecnica ma preferisco la tecnica mista. Ovviamente la carta è più effimera: succede che metti un poster e il giorno dopo non c’è più, ci ho fatto il callo. Può sembrare retorico, ma questo carattere effimero ha il suo aspetto positivo, ti porta a fare sempre di più. Certo la conoscenza del posto influisce sulla durata del lavoro.

Come vivi invece il rapporto fra lavoro in strada e le esposizioni in galleria?

Tempo fa ho intitolato una mostra a Bologna Enjoy Agorafobia, punzecchiando un po’ il dibattito che si è creato fra strada e galleria. Nel mio lavoro sono due momenti separati che hanno pari dignità. Non credo ci sia nulla di male nello street artist che va in galleria, secondo me il male è quando l’artista si spaccia per street artist per entrare in galleria. Ma non voglio fare il purista, essere chiamato da una galleria o vendere dei quadri è anche un riconoscimento per il tuo lavoro.

Ho letto che ti definisci uno “street wrestler”.

La cosa è nata da una vecchia intervista e dal fatto che non mi facevo vedere in volto. Ho pensato al wrestling, preferendo quindi nascondermi e, goliardicamente, mantenere una maschera.

Vivi a Roma ma spesso lavori all’estero. Quali sono secondo te le differenze e le continuità fra la scena artistica italiana e le altre che hai avuto modo di osservare negli anni?

Non conosco in prima persona la scena d’oltreoceano. Per quello che ho visto in Europa, devo dire che le capitali sono arrivate alla street art molto prima di Roma, per esempio con i primi festival. Torno da poco da Amsterdam e lì mettere alcuni lavori è stato davvero difficile. Il centro è tutto ripulito rispetto a dieci anni fa. Londra mi sembra un luna park, con enormi muri interamente coperti. Secondo me tutto il mondo della street art sta affrontando il fatto di essere diventato cool. C’è molta roba più istituzionale e questo mi confonde, ma in fondo non mi lamento. Spero comunque che anche se un domani dovessi fare diverse mostre in galleria o avere muri interi a disposizione la mia attitudine di strada rimanga invariata.