Uno: Salvate il piccolo Günter

Videoclip, TV commerciali, cartoni animati giapponesi e il sottofondo continuo e martellante della pubblicità. Ce n’è di materiale da intercettare e rielaborare in senso espressivo, se sei nato o cresciuto negli anni Ottanta.

Nel 1981, per esempio, apre i battenti MTV. Nello stesso anno nasce lo street artist UNO, che proprio dal linguaggio pubblicitario trae quell’immagine iconica che si ritrova in mille modi, ritagliata, scomposta, continuamente rimescolata nel suo lavoro: il volto inconfondibile del piccolo Günter, personaggio-emblema che ha svettato per anni sulla confezione delle barrette di cioccolato Kinder. Timidezza e modestia portano UNO a mimare con le mani due virgolette in aria se lo si chiama artista. Lo abbiamo intervistato, birra alla mano, in un affollato locale del Pigneto.

Partiamo dalle origini. Com’è iniziato il tuo percorso espressivo e come sei arrivato alla street art?

Ho sempre disegnato. Mio padre ha fatto l’accademia, e mi ricordo che da ragazzino mi faceva disegnare spesso. Nei primi anni 2000 studiavo a Roma e mi guardavo molto intorno. Tramite gli studi universitari sono entrato in contatto con il Situazionismo, Guy Debord e Luther Blisset. In quel periodo cominciavo a fare i primi sticker a mano, in maniera ancora confusa. Erano disegni che facevo io o immagini pop rivisitate, ma si vedeva che cercavo ancora una mia strada. Dal Situazionismo avevo ripreso il concetto di détournement, cioè prendere immagini, ricontestualizzarle, cambiarle di segno. Ero alla ricerca di un’icona, qualcosa che mi rappresentasse, influenzato in questo dalla street art americana.

A un certo punto quindi arriva Günter…

Esatto. Per il Situazionismo la “società dello spettacolo”, dei mass-media, sta sostituendo l’essere con l’apparire. Lo stesso Günter rappresentava allora l’immagine svuotata di tutta la sua parte profonda: nel momento in cui l’azienda ha bisogno di un restyling sostituisce il personaggio, come se nulla fosse. E io entro là come un “paladino della giustizia” a ridargli nuova vita. Quindi non solo utilizzo questa immagine familiare della mia generazione, ma anche altre figure, da David Bowie (e quindi il fulmine sull’occhio) ai Kiss…

Un incrocio di riferimenti, quindi…

Sì, usare lo stesso linguaggio dei mass media, cambiandolo di segno a mio favore.

Quella di Günter è un’immagine che, nonostante alcune modifiche, resta per anni sostanzialmente invariata, diventando un’icona. Il vero Günter invece cresce, diventa adulto, ormai lontano dai riflettori.

Sì. Non so quanto sia vero, però si diceva addirittura che in quegli anni – intorno alla fine dei ’60 – pare fosse stato pagato in cioccolata… [ride] Iniziando a lavorarci intorno al 2004, la vera sfida è stata “non ripetersi ripetendosi”, usare quella stessa faccia modificandola e trovare una nuova icona da incrociare e ibridare con Günter. Un’ossessività costruttiva, creativa, che mi porta a chiedere sempre di più a me stesso.

Due tecniche che impieghi spesso, lo stencil e il poster, hanno in comune la necessità di un lungo lavoro in studio prima che l’opera raggiunga la strada. Come vivi questa doppia vita del lavoro?

Tutto è collegato. La scelta del poster è un trick, perché per lavorare illegalmente sul muro avrei bisogno di molto tempo. Però all’inizio i poster derivavano dagli sticker, perché non accontentandomi ho iniziato a fare adesivi sempre più grandi. Quando invece lavoro in spazi autorizzati mi prendo tutto il tempo che voglio, e in quel caso difficilmente utilizzo solo una tecnica ma preferisco la tecnica mista. Ovviamente la carta è più effimera: succede che metti un poster e il giorno dopo non c’è più, ci ho fatto il callo. Può sembrare retorico, ma questo carattere effimero ha il suo aspetto positivo, ti porta a fare sempre di più. Certo la conoscenza del posto influisce sulla durata del lavoro.

Come vivi invece il rapporto fra lavoro in strada e le esposizioni in galleria?

Tempo fa ho intitolato una mostra a Bologna Enjoy Agorafobia, punzecchiando un po’ il dibattito che si è creato fra strada e galleria. Nel mio lavoro sono due momenti separati che hanno pari dignità. Non credo ci sia nulla di male nello street artist che va in galleria, secondo me il male è quando l’artista si spaccia per street artist per entrare in galleria. Ma non voglio fare il purista, essere chiamato da una galleria o vendere dei quadri è anche un riconoscimento per il tuo lavoro.

Ho letto che ti definisci uno “street wrestler”.

La cosa è nata da una vecchia intervista e dal fatto che non mi facevo vedere in volto. Ho pensato al wrestling, preferendo quindi nascondermi e, goliardicamente, mantenere una maschera.

Vivi a Roma ma spesso lavori all’estero. Quali sono secondo te le differenze e le continuità fra la scena artistica italiana e le altre che hai avuto modo di osservare negli anni?

Non conosco in prima persona la scena d’oltreoceano. Per quello che ho visto in Europa, devo dire che le capitali sono arrivate alla street art molto prima di Roma, per esempio con i primi festival. Torno da poco da Amsterdam e lì mettere alcuni lavori è stato davvero difficile. Il centro è tutto ripulito rispetto a dieci anni fa. Londra mi sembra un luna park, con enormi muri interamente coperti. Secondo me tutto il mondo della street art sta affrontando il fatto di essere diventato cool. C’è molta roba più istituzionale e questo mi confonde, ma in fondo non mi lamento. Spero comunque che anche se un domani dovessi fare diverse mostre in galleria o avere muri interi a disposizione la mia attitudine di strada rimanga invariata.