Una sterminata domenica, l’esordio di Alain Parroni a Venezia 80

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Il ciak di "Una sterminata domenica", courtesy of Alain Parroni.

Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e Wim Wenders (Road Movies), e il film sarà in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 80.

La difficoltà della chiacchierata non sta tanto nell’evitare spoiler e linciaggio, ma nell’offrire un assaggio dell’atipicità del personaggio e della sua opera prima. Questo film esiste, senza esistere davvero, da almeno sei anni. Nel frattempo Parroni ha vissuto in un bunker, si è infilato in situazioni al limite della follia, ha combattuto contro chi avrebbe potuto produrlo. Alla fine ha vinto lui. È riuscito a fare esattamente il film che voleva fare: un film assurdo. E per un esordiente è quasi impossibile. Chi scrive ha goduto e subìto in prima persona i risvolti di questa estenuante gestazione, per questo, quando Parroni dice: «Non mi sembra che questo film mi abbia completamente risucchiato», io alzo un sopracciglio. E poi scoppiamo a ridere.

Nel 2017 la nostra intervista su Fabrique si chiudeva con te che già parlavi di questo film. Dicevi che sarebbe stato «un lavoro collettivo, quel circo che tanto mi diverte». Lo è stato?

Caspita! Un lavoro di cinque anni dev’essere per forza collettivo, sennò diventi pazzo. Eppure tante persone avrebbero potuto dirmi: «Adesso però sticazzi, è il tuo lavoro, non il nostro». Questo circo invece ci ha permesso di fare tantissime cose improvvisate, che forse sono le più belle del film. Penso alla mia famiglia numerosa, che mi ha aiutato con i provini in un periodo in cui ad Ardea stava succedendo di tutto: facevo i casting mentre giravano Super Sex, sembrava la città del cinema. Ho vissuto questi anni come una jam session, ma in realtà è andata abbastanza come avevo programmato.

Ecco, Ardea: tutto inizia e torna lì, per te.

Il film è ambientato nel luogo in cui sono cresciuto e da cui, come tutti durante gli studi, mi sono allontanato. Lo dico senza voler fare la classica vignetta di Alain che prende il treno e va in città, però è così. In terza media marinavo la scuola per andare a Piazza del Popolo e il film questa dimensione ce l’ha. Già questo è stato doloroso: girare un film a Napoli sarebbe stata una vacanza, invece tornare a casa e provare ad essere sincero è un’altra cosa. Ho vissuto con i ragazzi del film situazioni e serate distruttive che ogni adolescente di provincia conosce. Ho scoperto un sacco di cose sui miei genitori che non sapevo, ho trascorso molto tempo al bar dove mio padre usciva da ragazzino, i suoi amici dell’epoca mi hanno raccontato storie che probabilmente lui non mi avrebbe mai detto. Non fanno parte del film, ma mi hanno permesso di crescere per girare questo film.

Tre personaggi principali: Alex, Brenda e Kevin. Hai scelto degli sconosciuti.

Sono giovanissimi, non hanno grandi esperienze alle spalle. Ho fatto moltissime interviste nel corso degli anni a ragazzi reali, perché mi serviva partire da lì per scrivere la sceneggiatura. Quelle testimonianze le ho poi infilate a forza dentro gli attori che ho scelto, cioè la realtà della campagna romana impiantata in un attore di Torino e uno del Lago di Garda. Quello che ho sempre immaginato era prima di tutto visivo, quindi non mi interessava se Zac non fosse cresciuto ad Ardea: dopo una settimana gli si è attaccata addosso.

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Alain Parroni sul set di “Una sterminata domenica” (ph: Roberto Pioli).

Molto prima dei casting, e molto prima che qualcuno volesse produrti, hai iniziato a fare delle interviste per trovare gli attori giusti. Racconta.

Dopo aver letto la sceneggiatura, un produttore mi aveva detto: «Non esistono adolescenti così. Dove sono i genitori? Perché non gliene frega un cazzo della scuola?». Io gli avevo risposto: «Perché, i genitori di Sailor Moon dove erano mentre combatteva?». Ma dovevo anche dimostrarglielo, così il giorno dopo sono tornato a provocarlo con le prime dieci interviste: «Sicuro che non esistono questi adolescenti?». Ho iniziato a cercare ragazzi giovanissimi, i miei cugini, i loro amici e gli amici degli amici. Li intervistavo e a distanza di due anni tornavo a parlare con tutti.

Una sterminata domenica: che storia è questa?

Come me la racconto io: è un triangolo amoroso estivo, che parte equilatero e in autunno diventa scaleno. Come la racconterei ai distributori: è un film di formazione su tre adolescenti, tra i 16 e i 20 anni, che cercano di affermarsi nel mondo attraverso l’unico strumento che hanno: attirare l’attenzione in qualsiasi modo. Che poi è anche quello che dovresti fare quando giri il tuo primo film. Nella nostra intervista del 2017 dicevamo che avrebbe dovuto essere un proiettile. Piombo puro. Credo lo sia, soprattutto a livello visivo. Questo è quello che ho dentro: adesso lo vedete?

Se questo film avesse un genere?

Se proprio dovessi scegliere, mi farebbe sorridere se venisse etichettato come un coming of age o come un teen drama. È un genere con cui sono cresciuto. E poi realizzare questo film è stato anche il mio, di coming of age.

Qual è il pubblico per un film come il tuo?

In fase di casting mi hai detto che, secondo te, le scelte che stavo facendo non avrebbero reso il film accessibile a tutti.

Ti ho detto che il rischio era quello di impacchettarlo come un film pop, ma che poi l’avrebbero preso come un presuntuoso film d’autore.

Però anche le scelte d’autore oggi sanno essere stordenti. Io credo che alle basi del film ci sia un teen drama a tutti gli effetti, che ne possa godere qualsiasi ragazzino, e nella prima parte del film ci crederanno. Poi forse rischieranno di sentirsi bombardati.

Tu non volevi solo fare la tua opera prima, volevi anche dimostrare che si può girare un film in modo diverso rispetto a quello che ti viene imposto.

Io non capisco come gli altri non lo capiscano. Quando non trovavo i produttori sono arrivato a riprogettare tutto come un film fotografico, l’avrei fatto da solo, così. Come puoi farti mettere sotto dalla visione di un produttore? Se credi in un’idea, come fai a non girarla come vuoi tu? Io non penso che ci sia tutta questa competizione come ci vogliono far pensare quando siamo giovani. Sembra che tutti vogliano fare un film, ma non è davvero così.

Dopotutto, adesso sei prodotto da Wim Wenders. Se lo chiederanno tutti: come l’hai agganciato?

Avevo un film pronto ma non lo stavo girando e quindi stavo impazzendo. Sognavo il Giappone da una vita: ci vado. Come itinerario uso Tokyo-Ga di Wim Wenders, un film bellissimo che racconta Ozu. Vado nello stesso bar del film e conosco la signora che ha incontrato Wenders quarant’anni prima e via così, finché non arrivo alla tomba di Ozu. Gli porto il whisky come ha fatto Wenders e poi gli dico: «Ozu, porco Giuda, io non riesco a fare un film». Dopo due settimane Giorgio Gucci mi chiama: «Sono andato al MIA, c’è Wenders che cerca opere prime da realizzare. Ci ha detto di inviargli il tuo materiale». Poco dopo mi sono ritrovato con la fotocopia del passaporto di Wenders per partecipare al bando del Ministero. Oggi stiamo chiudendo il film sempre con il Giappone di mezzo: è surreale che mi abbia detto di sì il compositore di Evangelion, l’anime che guardavo da ragazzino ad Ardea. Alla fine di tutto dovrò tornare lì, ringraziare Ozu e portargli un’altra bottiglia di whisky.

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