La Sardegna che non ti aspetti in 5 cortometraggi

Quello che è mio
Un'immagine dal corto "Quello che è mio" di Gianni Cesaraccio, Miglior Corto Regionale al Figari Film Fest.

Sardegna, tredicesima edizione del Figari Film Festival. In un contesto dove i pitch sono allestiti in acqua e i film si guardano sulle sdraio in spiaggia, la ricchissima proposta di cortometraggi è riuscita a catturare un’attenzione reale. Tra categorie internazionali, nazionali, animazione e la “scarpette rosse” dedicata alle tematiche femminili, al Figari colpisce la qualità (davvero) sempre alta dei progetti in concorso. In particolare i titoli e gli autori più inediti, ovvero quelli che abbiamo scoperto proprio grazie alla rassegna. 

A sorprenderci di più è proprio la sezione dei corti regionali: progetti girati in Sardegna, ad opera di autrici e autori locali, che per noi rappresentano una novità. Sono cinque, quelli in concorso: naturalmente si tratta di un campione troppo ridotto per parlare di una wave locale o di un’ipotetica scuola di autori emergenti; tuttavia qualcosa sembra unirli per gusto, tematiche, capacità narrative e intenzioni di messa in scena. 

Quello che è mio di Gianni Cesaraccio, Abba di Annette Fabiana Lupo, Dalia di Joe Juanne Piras, Fradi miu di Simone Contu e Ugolino di Manuele Trullu hanno, a colpo d’occhio, un comun denominatore: la curiosità verso tematiche disturbanti che vengono portate in scena in modo ancor più disturbante.

Non è solo merito della location suggestiva, che certo, ha influito sulla visione. I cinque corti provocano nello spettatore una sorta di disgusto trainato dall’indignazione, dal conflitto morale. Non è mai ovvio chi siano i buoni e chi i cattivi.

Come succede con Dalia che, a tradimento, ci racconta una storia di pedofilia ma anche di coppia, instillando il dubbio (e l’incubo) di poter vivere accanto a una persona senza conoscerne gli aspetti più perversi. Come accade con Fradi miu, storia di vendetta ambientata nella comunità agro-pastorale della Sardegna centrale, che affronta questioni culturali come i codici d’onore quando c’è di mezzo un delitto di sangue – e così solletica uno dei nostri istinti più radicati: quello di farci giustizia da soli. E ancora Ugolino, che indaga il personaggio reso celebre dalla Commedia dantesca guidandoci verso la pietas (poche cose disturbano le nostre certezze morali quanto il provare compassione per il “mostro”). Abba, sci-fi post-apocalittico che fa pensare alla Anna di Ammaniti, ci mostra le conseguenze della crisi climatica senza fronzoli, senza drammatizzare uno scenario che, già di suo, non potrebbe essere più drammatico: lo fa assumendo il punto di vista della natura che «ora si è ripresa ciò che è suo, e il Pianeta è guarito». Per un momento non sappiamo se parteggiare per lei o per noi esseri umani.

Gianni Cesaraccio
Gianni Cesaraccio. regista di “Quello che è mio”.

Il premio per il Miglior Corto Regionale è andato invece a Quello che è mio di Gianni Cesaraccio (che ha conquistato anche la Giuria Popolare) e che maschera un’originale denuncia sociale vestendola da heist movie. Quattro amici compiono una serie di rapine goffe e grottesche sullo sfondo di una Sardegna torrida e svuotata. Gli vogliamo bene anche se non dovremmo (è un corto ben scritto: ecco perché). Sono in realtà quattro malati terminali, ex soldati ammalati in missione a causa di materiali tossici come l’uranio impoverito: stiamo assistendo al loro testamento e al fallimento della giustizia (su 4000 vittime e 300 morti, lo Stato italiano si è assunto la responsabilità di neppure 50 casi). 

C’è una sensazione, ad unire la visione dei cinque corti, che sembra essere una costante: la sobrietà. È sobria la regia, di questi autori, che compongono inquadrature essenziali, spesso silenziose; è sobria la scrittura, perlopiù asciutta e rafforzata da battute concise, così come la recitazione che non lavora mai sugli eccessi e perfino nel dialetto mantiene un respiro internazionale. 

C’è poi un ultimo fattore, forse il più affascinante e identitario: il volto. Verrebbe da chiamarlo “il primo piano sardo”, che un po’ come quello francese, non si sa bene come spiegarlo ma è quasi un marcatore intrinseco del suo cinema. Per una combinazione di elementi – vuoi per fisionomia, per attitudine, per caratteristiche culturali – è riconoscibilissimo. Quello sardo è un primo piano corrucciato a prescindere dalla storia, con la fronte increspata e gli occhi spesso ridotti a fessure, che raramente ha bisogno di battute e ricorda il duello a colpi di close up tipico del western, ma più scarno e meno teatrale. 

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