Valentina Bertani: una regista a tutto rock

Atmosfere fashion, set ultra chic, design ipercurati, concept futuristici, post-produzione quanto basta e tanta, tanta musica. È questo il pane quotidiano di Valentina Bertani, giovane regista mantovana che si divide tra advertising e video musicali con la prospettiva del cinema e il sogno della televisione.

Una carriera iniziata molto presto quando la ragazza ha capito cosa avrebbe voluto fare da grande. «A 15 anni avevo una band femminile in cui suonavo la batteria» ci racconta. «Abbiamo ottenuto un contratto con la Warner. Girando alcuni videoclip, ho capito che ero dalla parte sbagliata dell’obiettivo. Così quando il contratto è scaduto sono andata a Roma a studiare regia e poi, sfruttando i contatti con i discografici, ho iniziato a dirigere video musicali».

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L’intuizione si è dimostrata giusta e la carriera di Valentina oggi è lanciatissima: collaborazioni con nomi importanti come Luciano Ligabue, i Negramaro, Arisa e Dolcenera, e tanti riconoscimenti internazionali. Riflettendo sul suo stile e sui modelli di riferimento, cita il collettivo spagnolo Canada, Truman & Cooper, l’inglese Dougal Wilson e Aoife McArdle, agguerrita irlandese che ha diretto video per Bryan Ferry e U2. Nessun nome italiano. La ragione è semplice: «In Italia, spesso, i videoclip non sono di qualità. I motivi sono economici. I registi bravi ci sarebbero, ma hanno budget risicati. Le case discografiche non vogliono investire, soprattutto oggi, in tempo di crisi. Per fare un buon lavoro bisogna affidarsi a bravi collaboratori, avere l’illuminazione giusta. Per ottenere il risultato che avevo in mente, mi è capitato di dover sacrificare il mio compenso in modo da poter pagare le persone che lavoravano con me».
Dopo aver consolidato le sue competenze nel mondo dei videoclip, Valentina Bertani si è concentrata sull’advertising. A differenza di quanto si possa pensare, però, il passaggio non è stato immediato. «Cinema, TV, videoclip e pubblicità sono ambiti separati e non sempre il passaggio da un ambiente all’altro è agevole» chiarisce la regista. «Quando ho iniziato, il videoclip veniva considerato una sorta di gavetta per la pubblicità, ma oggi non è più così. L’advertising è un mondo chiuso in cui il regista è sottoposto al controllo dell’agenzia e del cliente, mentre chi dirige videoclip è abituato a una maggior libertà. Curiosamente, per un regista che viene dal cinema è difficilissimo fare videoclip perché viene malvisto dai discografici. L’eccezione è il regista di cinema che vuole fare pubblicità, in quel caso è molto apprezzato. Ogni tanto spuntano nomi famosi come Virzì o Muccino che decidono di girare uno spot e per loro si aprono molte porte». Se i giovani faticano a inserirsi, la situazione dietro la macchina da presa non sembra troppo rosea neppure per le donne. Sono poche le autrici che sono riuscite a imporsi al cinema sfoderando uno sguardo e un’identità precisa e anche nel mondo della pubblicità non c’è differenza. «Le registe sono sempre penalizzate, si fa più fatica» confessa Valentina. «In pubblicità le donne sono chiamate a occuparsi di prodotti legati, nell’immaginario, a un ambito femminile. Così fioccano proposte per dirigere spot di pannolini per bambini, omgeneizzati, assorbenti. Le agenzie ritengono le donne più adatte a girare film con i bambini. Nel cinema italiano non mi pare che la situazione sia migliore. Le registe sono troppo poche, anche se credo che Alice Rohrwacher stia emergendo e Valeria Golino ha esordito con un lavoro che mi ha colpito».

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Da addetta ai lavori, Valentina ha un occhio di riguardo per il cinema italiano, di cui segue attentamente l’evoluzione, e concorda con chi sostiene che stia vivendo  un momento molto positivo: «Oggi c’è un gran bel movimento. Veloce come il vento è bellissimo, scritto molto bene e le inquadrature sulle auto sono meravigliose. Ma il merito maggiore di Matteo Rovere è quello di aver affidato a Stefano Accorsi un personaggio così diverso da quelli a cui ci aveva abituato. Ha avuto un gran coraggio. Trovo che anche Luca Guadagnino abbia dei meriti perché ha saputo portare un’estetica fashion nel cinema, ha creato una commistione di generi. Tra i giovani stimo molto Carlo Lavagna e Stefano Lodovichi».

Pur essendo così attenta alle nuove tendenze della settima arte, per Valentina non sembra ancora giunto il momento di spiccare il salto. O meglio, prima di fare un film c’è un lavoro che le sta molto a cuore, una misteriosa serie TV. «Prima di approdare al cinema vorrei realizzare la serie che sto scrivendo da un anno» ci racconta. «Ci sto lavorando con due bravi sceneggiatori italiani molto giovani. Abbiamo un concept pronto, il pilot è scritto e ho in mente alcuni attori che mi piacerebbe coinvolgere. Amo moltissimo la produzione seriale, Black Mirror, Orange is the New Black e Lost che ha fatto da apripista. Anche in Italia ultimamente abbiamo fatto grandi passi avanti: Gomorra e 1992 sono prodotti esportabili, hanno uno sguardo internazionale e questo è fantastico». Valentina ha già ricevuto un’approvazione illustre visto che uno dei suoi autori preferiti, l’americano Todd Solondz, ha ricevuto il concept e lo ha molto apprezzato incoraggiandola a proseguire.

E mentre lavora sodo per realizzare il suo sogno televisivo, il cinema si è fatto avanti in modo imprevisto. La regista è stata chiamata a dirigere la seconda unità di Tinì – La nuova vita di Violetta, pellicola ispirata alla serie musicale Disney, fenomeno di costume senza paragoni tra i giovanissimi. Ripensando a questo lavoro, Valentina ammette che è stato «divertente e strano. Mi hanno tolto dal mio ambiente, l’advertising e il videoclip, per catapultarmi su un set internazionale. Juan Pablo Boscarini cercava una regista che fosse in grado di gestire le parti musicali e oniriche. Era una seconda unità concepita in modo classico, lavoravamo in modo separato e avevamo ognuno le proprie scene. Ammetto di aver avuto un po’ paura. Per me la paura è un sentimento positivo quando è controllata. Sul set arrivo preparatissima, ma una volta lì, mi lascio coinvolgere dalla situazione e vado a braccio. Stavolta, però, la responsabilità era doppia perché il mio lavoro confluiva in quello di Juan Pablo Boscarini, visto che il film è suo. Credo che rispetto alla serie sia stato fatto un salto di qualità. Come mi ha confessato il produttore, l’idea era quella di realizzare un prodotto bello, e questo è qualcosa che non ci aspetteremmo da una produzione commerciale».