Umbrella, il corto italo-brasiliano in marcia verso gli Oscar

Umbrella film d'animazione
Il piccolo protagonista di "Umbrella".

Perché mai un bambino dovrebbe volere un ombrello al posto dei giocattoli? Lo raccontano Mario Pece e Helena Hilario, partner sul lavoro e nella vita, con il cortometraggio di animazione Umbrella, che dopo aver vinto numerosi premi (San Jose International Short Film Festival, Florida Animation Festival, New York Animation Film Awards sono soltanto alcune delle tante occasioni in cui ha trionfato) potrebbe addirittura arrivare agli Oscar. Realizzato da Stratostorm, la casa di produzione brasiliana fondata proprio dai due registi, il corto si ispira a quanto accaduto alla sorella di Hilario in un orfanotrofio. «Ci sentivamo di dover assolutamente raccontare questa storia» sono le parole di Mario Pece quando parla della genesi di Umbrella, che è stato in cantiere per anni prima di vedere la luce e trasmettere il suo messaggio d’empatia.

Da dove inizia il viaggio che porta Mario Pece in Brasile?

Tutto è cominciato tra il 2008 e il 2009: dovevo fare un corso di cinema alla New York Film Academy a Roma e invece mi offrirono un’esperienza nella sede di New York, quindi accettai. Dopo un anno iniziai a fare da assistente ai professori di montaggio e conobbi Helena. Cominciammo subito a lavorare insieme, ci spostammo a Los Angeles, ancora più vicino all’industria cinematografica e lì cominciamo a portare avanti dei progetti. Ci siamo occupati di alcuni videoclip di Katy Perry, poi della serie tv Brooklyn 99. Ma dopo tre anni che eravamo a Los Angeles la madre di Helena, in Brasile, si è ammalata e quindi abbiamo deciso di raggiungerla per starle vicino. Adesso sua madre è guarita, ma noi siamo rimasti perché nel frattempo avevamo deciso di iniziare la nostra attività: la Stratostorm.

Come nasce Stratostorm?

Nasce con me e Helena, dalla nostra volontà di metterci in gioco e in proprio nel campo degli effetti visivi. Il primo anno eravamo solo noi, dormivamo in ufficio per quanto lavoro c’era da fare. Poi a piccoli passi, un cliente dopo l’altro, siamo cresciuti fino a diventare una società di quaranta persone. Abbiamo aperto un’altra sede a Los Angeles, lavoriamo con Netflix curando i contenuti per il suo canale Youtube in Sudamerica, lavoriamo con Cartoon Network, ma ci occupiamo anche di progetti indipendenti. Stiamo scrivendo un altro cortometraggio attualmente, speriamo di iniziare la produzione quest’anno.

Parliamo di Umbrella: sta avendo molto successo, tant’è che potrebbe essere in corsa per gli Oscar.

Sì, siamo felicissimi infatti. Umbrella è un progetto speciale. È nato nel 2011, dopo che la sorella di Helena è andata in un orfanotrofio nel periodo natalizio per donare dei giocattoli e tra tutti i bambini ce n’era uno che invece dei giocattoli voleva un ombrello. La sorella non capiva perché, finché questo bimbo di quattro o cinque anni non le ha detto che suo padre lo aveva lasciato lì con la pioggia e che quindi se avesse avuto un ombrello forse sarebbe tornato a prenderlo. Sentivamo di dover assolutamente raccontare questa storia, ma all’epoca non avevamo abbastanza esperienza, quindi è rimasta a lungo solo un’idea, prima di riuscire a ottenere i finanziamenti. Il primo copione lo abbiamo scritto proprio nel 2011 e solo nel 2015 abbiamo cominciato a lavorare al design dei personaggi e delle location. Poi ci siamo fermati per riprendere nel 2017. A quel punto Umbrella è diventato un lavoro full-time, mentre prima ce ne occupavamo nel tempo libero. Sono stati praticamente venti mesi di produzione.

Perché avete scelto di raccontare una storia senza dialoghi?

Volevamo che fosse il più internazionale possibile. Poi la musica trasmette molte più emozioni di un dialogo. Le espressioni e i gesti, se accompagnati da una musica forte, raggiungono molti più cuori delle parole. Poi il nostro compositore, Gabriel Dib, ha fatto un lavoro davvero strepitoso [Umbrella ha anche vinto ai Global Music Awards ndr]. Il vero messaggio di Umbrella è quello di non giudicare, di provare sempre empatia verso il prossimo, perché non sai mai chi hai davanti, quel è la sua storia, quali sono i suoi problemi.

Non è la prima volta che qualcosa a cui lavori arriva agli Oscar, hai curato anche gli effetti visivi di Whiplash.

Sì, ho lavorato a Whiplash e andammo agli Oscar in quell’occasione. Però lì ero parte di un team che si occupava solo degli effetti visivi, questa è invece la prima volta che sono davanti a un progetto come scrittore, regista e produttore. È una responsabilità più grande, soprattutto considerando che Umbrella è stato una sfida: avevamo poco personale, siamo arrivati a un picco di nove o dieci artisti più quattro persone che lavoravano all’animazione, che è poco se si considerano progetti simili.