Adele Tulli: Femminile plurale

Uno spettro si aggira nelle interviste alle registe: è lo spettro del gender. “Una donna gira diversamente da un uomo?”, “È più difficile emergere?”, “Perché le registe sono così poche?”. Una tripletta difficile da scansare, e molto insidiosa: domande che rischiano il paternalismo, risposte in bilico tra lagna e rancore.

Poi incontri una come Adele Tulli, documentarista dall’approccio politico («Dillo, dillo. Politico. È una parola che rivendico»), due film in curriculum che parlano da soli: 365 without 377, sui movimenti LGBT in India, e Menopausa ribelle, sul tabù della vecchiaia femminile. Film girati fuori dall’Italia, circolati nei festival, abbastanza potenti da scacciare, come un esorcismo, qualsiasi domanda di genere. Femminista e attivista, Tulli sfugge alla trappola del gender mettendolo al centro della sua ricerca artistica. E sfugge anche a un altro tranello, di natura generazionale: perché Tulli è figlia d’arte, sua madre è Serena Dandini, e l’ascendenza in Italia ha un peso che nessuno può negare. Quanto forte sia stata questa influenza, noi non glielo chiediamo. A rispondere ci pensano i suoi lavori, la sua biografia nomade. E la sua ricerca appassionata sull’identità. Di genere, e personale.

Come sei arrivata al cinema?

Partendo da tutt’altro. All’università ho scelto studi orientali perché ero appassionata di indologia e di filosofie dell’India. Mi sono specializzata soprattutto sui movimenti e sulle lotte femministe dell’India contemporanea, un argomento che mi interessava in prima persona.

Un conto è la ricerca, un conto il lavoro sul campo. Come è scattata la scintilla?

A Roma facevo parte di alcuni gruppi femministi, mi interessavano le lotte e le rivendicazioni delle donne e le politiche LGBT. Poi ho scoperto cosa accadeva nell’attivismo indiano, quali erano i loro temi e le loro battaglie. La prima volta che sono andata in India il movimento LGBT era invisibile, non se ne accennava neanche nel contesto della lotta femminista. Era come un tabù. Poi, a un certo punto, qualcosa è cambiato.

E tu ti ci sei trovata in mezzo.

Ero là quando nel 2009 è stata depenalizzata l’omosessualità. Ho vissuto il primo anno di libertà, si sentiva l’energia fenomenale di un mondo sommerso che veniva fuori all’improvviso. Così mi è venuta l’idea di realizzare un documentario per registrare quel momento. Ma non ero andata là per fare un film.

Al tempo cosa sapevi del mezzo?

Davvero poco. Ero appassionata di documentari, li trovavo da sempre un bel modo per raccontare storie importanti. Ma avevo poca esperienza pratica: mi hanno aiutato sia un vecchio amico del liceo che studiava cinema in India, Andrea Iannetta, sia il direttore della fotografia indiano con cui ho lavorato, Kush Badhwar. E fondamentale è stato il produttore Ivan Cotroneo, che ci ha creduto fin dall’inizio rischiando su un’esordiente.

Cosa hai imparato da questa prima esperienza?

Le protagoniste erano persone che conoscevo bene, amici. Non avendo avuto con loro un approccio freddo, da casting, anche durante le interviste l’intromissione della telecamera non era vissuta in maniera violenta. L’importanza delle relazioni è la cosa più significativa che ho imparato e ciò che ho continuato poi a cercare nei miei lavori. È la fiducia che rende il film così naturale.

La domanda sorge spontanea: perché non hai cominciato con un film sull’Italia?

Spesso bisogna andare lontano per imparare qualcosa su se stessi…

In India, poi. Un grande classico.

Oddio in realtà non intendo “cercare se stessi” in quel senso lì. Anzi, sono sempre stata piuttosto cinica nei confronti del “turismo spirituale” in India. No, intendo che conoscere e studiare una realtà lontana dalla tua ti porta a decostruire le tue certezze, le tue categorie di pensiero. E poi, dopo otto anni fuori dall’Italia, il paese mi terrorizzava. Ci ho messo un po’ a tornare e a mettermi a lavorare qui, ma certamente ci sono temi di tragica attualità su cui lavorare.

Nemmeno il tuo secondo progetto è sull’Italia.

Dopo il primo film, che ha girato tanto soprattutto all’estero, ho capito la forza del mezzo. E allora ho deciso di studiare, sono tornata a Londra e ho fatto un master in documentario. Ne è venuto fuori un film, fatto tutto senza produzione.

Come hai individuato la storia?

Ho scelto un altro tema che mi è molto a cuore: l’invecchiamento femminile e l’invisibilità della donna post-menopausa. Un altro tabù. E quando ho incontrato la protagonista, Thérèse Clerc, me ne sono innamorata subito. Era una donna straordinaria, era facile fare un film su di lei, una femminista molto attiva sul tema della rivendicazione della vecchiaia. Volevo che fosse un film sulla terza età, in cui la vecchiaia non fosse raccontata come luogo del passato e della memoria, ma come potenzialità. E Thérèse aveva aperto una casa per donne che vogliono essere attive, La Maison des Baba Yaga, che collaborano con il quartiere e le associazioni, lavorano con i migranti, fanno corsi di francese, asili autogestiti.

Cosa puoi dire del progetto italiano?

Sono all’inizio, ho una prima stesura e delle idee, sto facendo i sopralluoghi. Sarà un lavoro sulla normatività di genere in Italia, su come veniamo indottrinati a ripetere un copione antico ma tenace, quello dell’universo maschile e femminile.

Come curatrice dei documentari dell’associazione Cinema Italia UK hai modo di vedere molti lavori italiani: emerge una linea comune tra i giovani autori?

C’è una linea di documentari sociali e politici molto interessante. E anche il linguaggio mi pare stia cambiando: da un documentario più convenzionale di osservazione e non intervento si sta passando a un documentario in cui la distinzione tra finzione e realtà è messa in discussione. Si cercano linguaggi ibridi in cui la manipolazione del reale sia evidente e lo sguardo di regia più forte. Penso a Minervini, Marcello, Rosi.

Film di finzione: ne farai?

Per ora non ci penso. Mi piacerebbe che si desse più spazio al documentario in Italia, spero in un cambio di trend nella distribuzione e nella produzione. Oggi bisogna ringraziare soprattutto il lavoro eroico dei festival, che riescono a dare agli autori un minimo di visibilità.