Tribù

La tribù del web. Il circolo dei cinefili. Il clan dei giovani autori. Quelli di Roma. Quelli di Milano. Quelli di Napoli. I documentaristi e i filmaker. Gli indipendenti, gli artisti, i festaioli. Quelli che la rete è il futuro, quelli che internet nemmeno sullo smartphone. Quelli che con lo smartphone ci fanno Heimat e quelli che lo smartphone nemmeno morti: meglio il buon vecchio cellulare.

Il “nuovo” cinema italiano, finalmente, è una realtà. Ma la sua forma è quella di una galassia frammentata. Piccoli gruppi, circoli orgogliosamente identitari, tribù autoreferenziali che si guardano con sospetto da un lato all’altro della penisola. Barriere invisibili tengono lontani fra loro gli autori: la diffidenza per chi è diverso, la paura della novità, l’ostilità nei confronti di chi, prima che un collega, è percepito come un avversario.

Intendiamoci: non c’è niente di male a essere una tribù, a fare gruppo. Era parte di un gruppo Wim Wenders (icona del nostro numero), legato alla fine degli anni Sessanta al movimento che sarebbe passato alla storia come il Nuovo Cinema Tedesco. Era immerso nella cultura degli expat giapponesi Leonardo Guerra Seràgnoli, riuscito a portare la sua tribù nippo-italiana in un film, Last Summer, opera prima di questo numero. E la nostra copertina, Miriam Dalmazio, di tribù ne ha girate parecchie, passando in un colpo dalla meglio gioventù siciliana a quella del Centro Sperimentale di Roma. E di cosa parliamo infine, se non di tribù, quando su ogni numero di Fabrique raccontiamo le magie dell’universo dei comics e di quello del web?

Perché anche quella di Fabrique è una tribù, e non potrebbe essere diversamente.  Condividiamo gusti cinematografici, esperienze dentro e fuori dai set, sogni per il futuro. Ma a noi piace includere, non escludere. Amiamo il confronto e crediamo nel valore delle buone idee anche quando sono diverse dalle nostre. E ospitiamo volentieri sulle pagine del nostro giornale chi non la pensa come noi. Ci piace comportarci come uno spazio aperto, essere su carta quel che è nella realtà il festival di Torino: un’arena dove le tribù possano incontrarsi o scontrarsi, entrare in contatto, parlarsi.

Perché per cambiare il cinema italiano ci vuole una sola grande rivoluzione, non centinaia di piccole rivolte. E mettersi d’accordo sull’obiettivo, almeno, sarebbe un grande passo avanti.