Claudio, per quello che ne so

Più di qualcuno in questi giorni mi ha sollecitato a scrivere un ricordo di Claudio Caligari. Ho preferito aspettare qualche giorno per riflettere e reprimere un po’ di disagio che covavo dentro. Forse perché detesto la retorica, ma anche la retorica sulla retorica, il cinismo, la volontà di trarre conclusioni dietro la tastiera di un computer. Una pratica, questa, che ormai si diffonde inarrestabile, un po’ come la malattia che aveva invaso il corpo di Claudio. O forse perché mi sembrava inopportuno parlare pubblicamente di un argomento così delicato che mi vede in qualche modo coinvolto direttamente. Della vita di Claudio, del suo essere stato coscientemente o meno ai margini del sistema cinematografico, dei torti subiti e dei mancati riconoscimenti mi sembra davvero ormai inutile parlare. Sono bilanci che poteva valutare solo lui o chi gli è stato vicino veramente, chi lo ha vissuto negli anni. Io sono fiero solo di aver offerto il mio piccolo contributo alla realizzazione del suo ultimo film, e di aver avuto il privilegio di conoscerlo. Una conoscenza, chiarisco, del tutto superficiale: pochi incontri non possono bastare a carpire l’essenza di un uomo di 67 anni, con un intenso vissuto alle spalle. Le impressioni che si traggono non possono che essere parziali, magari del tutto opposte alla realtà. Ora più che mai sono i film a parlare di lui e a farcelo conoscere. Ed è un privilegio, non un limite: un autore così intransigente non può che aver riversato tutto (se) stesso nelle poche opere che è riuscito a realizzare con quella libertà espressiva che riteneva inderogabile. Come, chiarisco, è giusto che sia.

La storia inizia un tardo pomeriggio di fine settembre, durante il mio solito periodo di profonda apatia. Valerio Mastandrea fa capolino in ufficio per uno di quegli incontri che sembrano casuali ma in fondo non lo sono. Parlando del più e del meno lancia un sasso che avrebbe svuotato il fiume Po: «Vi interessa produrre con me il film di Claudio Caligari?». Nella vita di ognuno si incontrano alcune opere che, al di là dell’aspetto artistico, entrano a far parte del nostro bagaglio esperienziale: frammenti dei dialoghi diventano parte del nostro linguaggio quotidiano, così come i tic degli attori entrano nel cervello e vengono poi ripetuti nei contesti più disparati. E allora da quasi vent’anni i “canta Tony, canta…” o “ao’ è Azzaro questo, mica roba da supermercato!” fanno parte del mio sgangherato slang; da quando, insomma, ho visto con alcuni amici L’odore della notte. Alle parole di Valerio ho dunque provato la classica sensazione dell’appuntamento inatteso, con la paura di farsi trovare impreparati. Mi sono bastati però pochi giorni per prendere entusiasmo, non nascondendo per settimane un puerile stato di euforia.

Poche volte in vita mia ho visto la determinazione, a rasentare l’incoscienza, che ha guidato Valerio in questi mesi. Chiaramente ognuno di noi ha conosciuto sin da subito lo stato di salute di Claudio, con il male ormai che non gli lasciava scampo. Vivendo per qualche tempo a pochi passi da casa mia, ho passato qualche pomeriggio con lui. Sono sempre stati incontri piacevoli, duranti i quali Claudio si mostrava fine osservatore della realtà; erano i giorni degli scontri nelle periferie, a Tor Sapienza. Claudio offriva giudizi spesso taglienti ma mai gratuiti. Avevo l’impressione, questo sì, di un uomo dalla forte personalità e dalla lucida capacità di leggere i fatti di cronaca. I ricordi che porterò con me sono pochi ma significativi. Ricordo quando fece scrivere a me e al mio socio Paolo i nostri nomi sulla cover del suo cellulare, dove campeggiavano stretti tra loro quelli di chi si (stava) adoperando per battere il tempo e rendere possibile un suo nuovo film. La mente era tutt’altro che rassegnata. Tornando in auto dall’audizione al ministero, al semaforo di Porta Maggiore, mi disse di avere altri progetti, che l’unico problema era il dolore al braccio che lo faceva dormire solo un’ora a notte. L’ultima volta l’ho visto sul set, pochi giorni prima della conclusione delle riprese. Si avvicinò silenzioso e con la sua voce roca mi disse: «Stiamo realizzando una cosa di livello superiore a quello che avevo previsto…». Queste parole mi hanno dato una sorta di sollievo, come se le tante preoccupazioni per un progetto così impegnativo trovassero di colpo un senso. Ora abbiamo un film, forse meno tangibile, ma reale, frutto della sua libertà creativa. Merito di chi lo ha organizzato, sostenuto, prodotto, appoggiato. Merito di Valerio, che ostinatamente è riuscito nell’impresa di gestire una situazione, artistica e umana, che necessitava di spalle molto larghe per essere affrontata. Merito infine del coraggio e della dedizione che Claudio ha offerto al suo film, che lo ha completamente assorbito nei suoi ultimi mesi di vita. Sulle sue scelte, sul suo carattere, sul suo percorso artistico, ogni giudizio sarebbe ormai superfluo, appoggiato su elementi di conoscenza troppo fragili. Odio anche l’ipocrisia di chi ora lo definisce il “grande dimenticato”. I suoi film sono entrati nell’immaginario collettivo, cult da custodire dentro come opere di grande libertà e intransigenza espressiva.

Non so bene il motivo, ma da qualche ora mi appare nitido nella mente il monologo di un film di qualche anno fa. «Credo che non sia giusto giudicare la vita degli altri. Perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri… Credo che per credere in certi momenti ci serva molta energia. Ecco, allora vedete di ricaricare le vostre scorte con questa…». Freccia preme il tasto del registratore, ma al posto delle note di Rebel Rebel di David Bowie si illumina improvvisamente uno schermo enorme, con su i titoli di testa di Non essere cattivo. È un inno alla vita disperato, ruvido, gridato a pieno polmoni mentre la vita stessa sfugge via. Odiatelo, amatelo, rifletteteci sopra, ignoratelo, giudicatelo come volete. Ma è Cinema, quello sì che può essere giudicato.

 

di Simone Isola, produttore KimeraFilm